La cacciata dal paradiso
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Tornato a visitare il paese dopo una lunghissima assenza, fui invitato alla estancia del río Cuareim, dove avevo vissuto da bambino. Mio padre, un italiano con un buon bagaglio di conoscenze tecniche, ne era stato l’amministratore, prima che gli antichi proprietari, travolti dai debiti accumulati in decenni di sperperi, la vendessero, come si suol dire, per un tozzo di pane. Bene, ora scoprivo che il giovane conosciuto in viaggio ne era l’attuale proprietario.
— Devo partire oggi stesso per la estancia — mi disse quando ci separammo all’aeroporto. — La manderò a prendere in albergo, venerdì dopo pranzo. Arriverà in tempo per la cena. Non si dimentichi: dopodomani.
— Preferirei viaggiare in treno — risposi —. Se è ancora in attività quel vecchio trenino lasciatoci dagli inglesi. Mi mandi a prendere alla stazione più vicina alla estancia.
— Le ci vorrà tutta una giornata, quattordici o quindici ore, per una distanza che, in automobile, si copre in meno di quattro; lei non ricorda più i nostri treni, è stato fuori troppo tempo!
— Se c’è una cosa che non mi manca è proprio il tempo; non dimentichi che sono un anziano signore in pensione — insistetti. — Il solo nome della estancia del Cuareim, che non sentivo più da tanti anni, mi ha riportato, quando meno me lo aspettavo, ai giorni della mia infanzia. Non può certo immaginarsi, lei che è così giovane, la nostalgia che ho sentito, in tutti questi lunghi anni di esilio, di quei vecchi trenini lenti e asmatici!
— Bene, quando arriverà, mi saprà dire — mi rispose il mio giovane amico, con una espressione educatamente divertita.
La estancia del río Cuareim! Da quanto tempo era svanita dalla mia memoria? Cinquanta, sessant’anni? Che posso dire? Che era lontana da me quanto lo era la mia infanzia? Che risaliva a un’epoca anteriore, se così posso esprimermi, ai miei ricordi personali, apparteneva a un passato che solo con difficoltà potevo considerare mio, perché in gran parte era anteriore alla scoperta del mio io personale, alla scoperta di me stesso? Che proprio lì, negli ultimi tempi della mia vita in quella estancia, ero improvvisamente maturato, grazie a un avvenimento che ancora, di tanto in tanto, si rifaceva presente alla mia memoria? Fra il bambino che ero stato allora, quando ci avevo vissuto, e il vecchio che ero adesso, c’era in mezzo tutta la vita: la gioventù, con gli studi, le passioni e le delusioni, la maturità e l’esercizio della professione, le vicende politiche che avevano stravolto il paese, portandone a galla il fondo selvaggio, disumano, nascosto sotto il leggero strato d’intonaco della civilizzazione, i lunghi anni di esilio che mi avevano comunque dato la possibilità di seguire gli impulsi del mio spirito inquieto, e ora, infine, la vecchiaia incombente, anzi già presente, già reale, ineludibile, e la decisione di tornare in quella che, non fosse altro che per esserci nato, potevo considerare la mia patria, anche se la mia condizione di figlio di stranieri mi aveva impedito di metterci delle vere radici. Ed ecco che, per una serie di coincidenze, mi accingevo a ritornare in quella estancia in cui avevo mosso i miei primi passi sul duro suolo di questo mondo, per usare scherzosamente un’espressione piuttosto retorica, inciampando nelle sue pietre e sbucciandomi ginocchi e gomiti. Non riuscivo a immaginare l’impressione che mi avrebbe fatto rivedere l’unico paradiso in cui avessi messo piede in vita mia, e mi chiedevo come mi sarei trovato con me stesso, con quel bambino che, in qualche modo, doveva essere rimasto là, rincantucciato e nascosto da qualche parte, in attesa; mi chiedevo come mi sarei visto e giudicato, rientrando nei luoghi della mia fanciullezza, confrontandomi con la memoria di quel mio io di allora, che facevo fatica a considerare un momento della storia del mio io di ora.
Il venerdì mattina, molto prima che facesse giorno, m’imbarcai sul treno che, salvo imprevisti, mi avrebbe lasciato, otto ore più tardi, in una stazioncina non lontana dalla estancia. Avevo con me un paio di libri con i quali pensavo di ingannare il lento trascorrere del tempo (“Che pensa di vedere? Lievi ondulazioni del terreno, le famose cuchillas, pascoli, altre ondulazioni, e ancora pascoli e pascoli e pascoli — ero stato avvertito. — Il paesaggio, almeno quello, non è cambiato, è rimasto tale e quale l’ha lasciato cinquant’anni fa! Lei ne ha perso completamente la memoria! Niente a che vedere con i paesaggi europei ai quali è ormai abituato! Qui è la natura allo stato puro, la natura non umanizzata, monotona, noiosa. E infatti si annoierà a morte, mi creda!”). Mi sedetti accanto a un finestrino dell’unico vagone passeggeri di un treno su cui, oltre a me, non salirono più di sei o sette persone. Perché il mio viaggio verso il passato acquistasse una qualche dignità letteraria, avevo portato con me un esemplare di The Purple Land di Hudson, che Borges, se ben ricordo, definì uno dei pochissimi libri davvero felici che mai siano stati scritti, forse felice quanto L’isola del tesoro di Stevenson.
Ai tempi della mia infanzia, pochi anni dopo l’inizio del secolo, le mandrie di cavalli selvatici si aggiravano in piena libertà per quelle ondulazioni del terreno, che non arrivano ad essere colline, le cuchillas, come si chiamano qui nel paese, sconfinando in territorio brasiliano. I confini allora erano incerti, non solo per gli animali, ma anche per gli uomini, e potevano passare all’interno di una stessa estancia. Era ancora un’epoca di rivoluzioni o, per meglio dire, di sollevamenti, di patriadas: caudillos locali si mettevano alla testa di piccoli gruppi di quegli uomini duri dei campi che si chiamavano ancora gauchos, i cow-boys del Sudamerica. Questi, però, sono ricordi di un’epoca successiva, ricordi di seconda mano, che mi provengono, senza dubbio, oltre che dal libro di Hudson, letto e riletto nel corso degli anni, anche dai racconti che mio padre, quando già vivevamo in città, faceva ai suoi amici, dopo cena, centellinando una coppa di brandy. Io li ascoltavo avidamente, quei racconti, nascosto dietro una poltrona, seduto sul pavimento. Ricordo mio padre impegnato per ancora parecchi anni in quelle animate riunioni che poi, a poco a poco, si furono diradando, per le assenze successive, improvvise, seguite da un vivo senso di rammarico, ora dell’uno ora dell’altro amico, e andarono spegnendosi, finché non restò che il silenzio e il vuoto lasciato dalla sua generazione, vuoto e silenzio che furono occupati con insolente baldanza dalla generazione successiva, la mia, ma che io ancora oggi percepisco, al di sotto del rumoroso fluire della vita.
Era estate, quel venerdì in cui attraversavo in treno il territorio della mia patria ritrovata. Nel cielo sterminato, pallido di calore, si andavano addensando, molto in alto, nubi temporalesche che però, più tardi, verso sera, si sarebbero dissolte senza conseguenze. Benché mi andassi avvicinando alla estancia e ormai da tempo avessi chiuso il libro di cui di tanto in tanto, distrattamente, avevo letto qualche pagina a caso, benché dunque fossi ormai vicino a quei paraggi a me ben noti e guardassi fuori dal finestrino con attenzione, per non perderne il minimo dettaglio, tuttavia non riconoscevo i luoghi. Il lento procedere del treno mi rivelava, man a mano che aggiravamo una bassa collina, un vasto ombù solitario in mezzo alla campagna, il greto sassoso di un torrente che tagliava come una ferita la pianura, una mandria di struzzi in fuga, un cavaliere che si allontanava verso l’orizzonte. Mi sentivo in qualche modo nello stesso stato d’animo del Juan Dahlmann di Borges, nel suo viaggio in treno verso la sua estancia del sud, alla quale mai arriverà. A differenza di Dahlmann, però, io non avevo ragioni per non arrivare. Non stavo viaggiando all’interno di un delirio ed ero sicuro che, quando fossi arrivato, avrei riconosciuto la casa padronale con il suo vasto cortile, le abitazioni dei dipendenti, sotto l’ombra profumata degli eucalipti, i recinti dove venivano rinchiusi gli animali all’epoca delle vaccinazioni o della doma, l’immenso ombú che allargava i suoi rami contorti sul pendio della breve collina, alle spalle della casa.
La estancia, però, era talmente cambiata che nemmeno mio padre l’avrebbe riconosciuta. Le costruzioni erano completamente diverse da come le ricordavo, e l’ombú era scomparso: ai piedi della collina, al suo posto, c’erano dei capannoni in cemento e vetro.
— Voglio mostrarle le stalle per le mucche da latte e il nostro allevamento di cavalli — disse il mio ospite con malcelato orgoglio. Aveva viaggiato all’estero per conoscere di persona i sistemi utilizzati nei paesi più progrediti; non aveva niente in comune con i vecchi proprietari per i quali aveva lavorato mio padre, che vivevano tutto l’anno a Parigi o sulla Costa azzurra. Lo seguii, elogiando a ogni momento quelle che mi presentava come novità per il paese: le stalle razionali, i sistemi di mungitura meccanica, i nastri trasportatori per i foraggi bilanciati, le nuovissime attrezzature per la pastorizzazione del latte. Ma ero deluso. Dal momento in cui il suo invito mi aveva riportato all’epoca della fattoria del Cuareim, ero stato in ansia, come si sta in ansia all’annuncio del ritorno di una persona cara che si è persa di vista per anni e quella persona, quando torni a incontrarla, è semplicemente un estraneo, irriconoscibile e indifferente, che non ti degna di uno sguardo.
Durante il percorso ci avvicinammo a un recinto nel cui interno galoppava vorticosamente, sollevando una nube di polvere, un gruppo di cavalli inseguiti e incitati da due o tre gauchos, armati di lazos e frustini, cappello nero rotondo e fazzolettone colorato al collo. Inaspettatamente, come un’apparizione miracolosa, emerse dal polverone, dirigendosi verso di noi, un cavallo dal mantello nero, lustro di sudore, s’impennò nitrendo e, alzando la testa orgogliosa, mi guardò, sì, sicuramente guardò proprio me, perché incrociai il suo sguardo e lui si bloccò sulle sue quattro zampe, esattamente davanti a me, prima di scartare e rientrare nel gruppo. Il mio giovane amico s’interruppe.
— Straordinario, non le pare? — mi disse; quindi, portando le mani a megafono alla bocca, gridò agli uomini di separare quel cavallo dagli altri e di condurcelo davanti. Ero restato in silenzio. Il passato era tornato, di colpo, come l’avevo lasciato sessant’anni prima, per effetto di un incanto, di un esorcismo, di una magia: malgrado la mia forma mentis scientifica, non trovavo altri termini per definire quello che stava succedendo.
— Un animale straordinario — riprese il mio ospite. — Non si è ancora riusciti a domarlo.
— Certo, lo so — dissi senza riflettere. — Lo conosco bene!
Il giovane sorrise, imbarazzato. — No,— disse — mi scusi. Non può averlo visto da nessun’altra parte, glielo assicuro: è nato qui, nel nostro allevamento, e non ne è mai uscito.
— Certo — risposi. — So bene che è nato qui. Ma io lo conosco, anzi, nessuno lo conosce meglio di me: ci conosciamo da quasi sessant’anni. Non si allarmi, non ho preso un colpo di sole. Più esattamente, ne ho conosciuto il nonno o il bisnonno o il trisavolo, non ho idea. Quanto durano le generazioni dei cavalli? È identico a un cavallo che conobbi quasi sessant’anni fa. Non può essere altri che lui, cioè, per essere più esatti, torno a ripetere, la sua reincarnazione in un suo figlio o nipote o pronipote. Mi è bastato vederlo impennarsi e scartare, con quel movimento orgoglioso della testa, per capire che è lui. Non ne ho il minimo dubbio, tale e quale a com’era sessant’anni fa. E anche lui mi ha riconosciuto, ne sono sicuro: appena mi ha visto è venuto a salutarmi, non lo ha notato?
Il mio amico fece un gesto vago. Il suo sorriso imbarazzato forse voleva dire che sì, che anche lui lo aveva notato, se ne era reso conto, era davvero qualcosa di fantastico quello che era appena successo sotto i suoi occhi, e riprese il giro della fattoria, per continuare a mostrarmi le nuove installazioni. Ma ora ero distratto. Alla vista del cavallo dal mantello nero, il passato era bruscamente riaffiorato, ritornato con violenza, esploso, e non riuscivo più a tenerlo a distanza di sicurezza, a controllarlo.
La sera, dopo cena, la coppa di brandy che tenevo tra le mani e bevevo a piccoli sorsi contribuì a farmi trovare il tono giusto per iniziare il racconto. Anche questo mi riportava ai vecchi tempi, quando mio padre raccontava interminabili storie ai suoi amici, centellinando il suo brandy. Mi riallacciai all’incontro del pomeriggio, di cui il mio amico era stato testimone. Ero sempre più convinto, dissi, che si trattasse precisamente del mio cavallo di sessant’anni prima. Quel cavallo, quell’antico cavallo, di cui questo era certamente, come potevo dire?, la reincarnazione, l’avatar, come si preferiva dire attualmente, era stato per me qualcosa di più di una semplice conoscenza. Era svanito da tempo dalla mia memoria, come svanisce il ricordo di un’innamorata che abbiamo lasciato o da cui siamo stati lasciati, a cui non si pensa più, come se non fosse mai esistita, e quella mattina, al vedermelo davanti, avevo rivissuto in pochi istanti una vicenda complessa e intricata.
Non le avevo detto che, da bambino, sono vissuto in questa fattoria? Da qualche parte, non riesco più a ricordare dove, perché nulla ha conservato l’aspetto che aveva allora, c’erano le case del personale; vicino alle case c’era una baracca di legno. Ricordo che, un certo giorno, la porta della baracca era stata chiusa con una stanga. Sprangata. Ci passavo davanti continuamente, essendo del tutto libero, padrone del mio tempo, proprio come sono tornato ad esserlo ora che non ho più obblighi lavorativi, che sono in pensione: ero troppo piccolo per andare a scuola, non dovevo fare i compiti, non dovevo svolgere nessun lavoro. Andavo in giro per la estancia tutto il giorno. Mi ficcavo dappertutto, esploravo tutto, con la curiosità propria dei bambini quando vengono lasciati liberi e non vengono intimoriti e tarpati da adulti timorosi e pieni di pregiudizi. Giocavo nei pressi della casa, ma potevo scorrazzare liberamente dappertutto, non c’erano luoghi che mi fossero proibiti, con l’eccezione, a partire da quel certo giorno, di quella baracca chiusa in cui sapevo, perché qualcuno me l’aveva detto, che era stato rinchiuso un cavallo indomabile. Il fatto che la baracca fosse sempre chiusa, che non fossi mai riuscito a gettarci dentro neanche una fugace occhiata, e che non se ne parlasse mai direttamente, aveva creato intorno ad essa, per me, un’aura di mistero. I cavalli stavano nei recinti, all’aria aperta, o vagavano liberi in branchi più o meno inselvatichiti per i pascoli della estancia. Quella stalla, invece, era chiusa, proibita. Non particolarmente vigilata, a dire il vero; potevo passarci davanti e fermarmi sulla porta quando volevo, ma entrare o aprire la porta, no, era severamente proibito. Ed ecco che, a un certo momento, mi accorsi che, quando mi fermavo sulla porta, il cavallo che stava rinchiuso dentro la stalla nitriva. Ma nitriva solo se passavo io e se non c’erano altre persone nei dintorni. Di ciò mi resi conto ben presto, avendone ripetuta più volte l’esperienza. Chi era quell’essere misterioso? Era solo un cavallo o era più di un cavallo? Era solo un cavallo o un personaggio dotato di poteri magici che mi stava mettendo alla prova? Come faceva ad accorgersi che ero io quello che passava davanti alla sua porta? Perché nitriva solo quando passavo io? Mi chiamava? Che voleva da me? Superato il timore iniziale, mi decisi infine a rispondergli, bussando alla porta con le nocche delle dita. Nel giro di pochi giorni elaborammo un sistema di comunicazione, come due prigionieri che si parlino attraverso il muro fra le loro celle con piccoli colpi. E tutte le notti, da un certo momento in poi, sognavo di aprire quella porta. L’aprivo ed entravo. Il mio amico, che ancora non avevo visto e che conoscevo solo attraverso i suoi nitriti e scalpiccii, scuoteva la testa, la criniera gli cadeva sugli occhi, s’impennava, alzando le zampe anteriori, mi spaventava. Mi attirava e mi respingeva allo stesso tempo, come sempre ci attira e ci respinge, ci affascina e ci terrorizza ciò che è proibito e sconosciuto.
Non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di alzarla, quella stanga che chiudeva la porta della stalla proibita. Un giorno, però, trovai la porta aperta, certo lasciata aperta per distrazione dall’ultimo inserviente che c’era entrato a pulirla. Entrai. Lui, il grande cavallo selvaggio dal mantello nero, tale e quale l’avevo immaginato e visto nei miei sogni, stava dietro la bassa paratia di legno. Alzò e abbassò più volte la testa. C’è un particolare che a me, ora, sembra incredibile: quando mi vide, sorrise. Proprio così: sorrise. Stirò le labbra, scoprendo i denti, in un sorriso fermo e maschio, di vecchio amico che è felice di rivederti, che ti accoglie con simpatia, che ti trasmette fiducia. Così è nel mio ricordo. Dopo di allora tornai tutti i giorni nella stalla, stando attento a non farmi scoprire. Rimettevo a posto la stanga da dentro. Quando arrivavo davanti alla porta, non nitriva più, perché nessuno potesse accorgersi della mia presenza in quel luogo proibito. L’amore è esclusivo; a nessuno piace condividere il proprio segreto, e il vero amore è sempre segreto. Nella penombra, i muscoli del grande animale risaltavano sotto la pelle liscia, scattavano a ogni minimo movimento del corpo. Quando mi avvicinavo, piegava il collo: questo gesto mi autorizzava ad accarezzarlo. Lo sfioravo con la mano e sentivo l’enorme forza racchiusa nel suo corpo. Ci parlavamo? Credo proprio che ci parlavamo, che ci comunicavamo i nostri pensieri parlandoci senza l’uso delle parole del linguaggio umano, con un altro linguaggio che ora non sarei in grado di parlare, che ho dimenticato, come si dimentica una lingua per mancanza di uso. Voglio crederlo.
Che avrei dato per galoppare con il mio amico per i campi che si stendevano oltre i recinti della estancia! Ma come riuscirci? Di giorno, non sarei arrivato nemmeno al primo cancello, di notte avrei dovuto aspettare che tutti dormissero per calarmi dalla finestra come un ladro. Lui capiva i miei pensieri e mi incoraggiava. A un certo momento mi resi conto che, per animarmi a fare quello che desideravo, ma che avevo timore di fare, mi stava sfidando. Vediamo se sei davvero libero e intrepido come hai voluto farmi credere, mi diceva, vediamo se sei degno dell’amicizia di un essere intrepido e indomabile come me. Qualcosa del genere dovette passarmi per la testa, anche se, allora, non sarei stato capace di esprimerlo a parole. Mi azzardai a fare proprio ciò che mi sembrava più irrealizzabile e assurdo. È un segreto che ho custodito per tutta la vita, non lo rivelai né allora né dopo; mio padre, finché visse, non ne ebbe mai il minimo sospetto. Quella notte mi coricai vestito, e mi restai in ascolto. A poco a poco tutti i rumori si spensero, insieme alle luci dei lumi a petrolio. Quando fui sicuro che tutti ormai dormivano e mi arrivò anche, dalla stanza accanto alla mia, il profondo russare di mio padre, aprii la finestra. In cielo non c’era una stella. Le nuvole correvano verso sud, nel cielo basso come un soffitto, illuminato da continue scariche elettriche. La burrasca non mi scoraggiò, anzi, mi eccitò ancor di più. Scavalcai il davanzale e mi lasciai cadere a terra. I cani, a cui non avevo pensato, certamente terrorizzati dal brontolare del tuono, non diedero segno di vita. Mi fu facile arrivare alla stalla, aprirla, salire in groppa al mio amico e partire. Come raccontare l’avventura di quella notte? Fu una corsa sfrenata attraverso i campi, su per le colline dove non ero mai arrivato prima di allora; galoppammo certamente, m’immagino, fino a sconfinare in terra brasiliana, svegliammo le mandrie di cavalli selvatici raccolte intorno agli ombù. Non so come tornammo, come lo richiusi nella stalla, scavalcai il davanzale e mi rimisi a letto. Tutto ciò avvenne come avviene nei sogni.
Durante tutta la mia vita, ho sempre ricordato quella notte come un’interminabile cavalcata selvaggia, conclusasi prima dell’alba con il ritorno a casa, così come l’ho appena raccontata, anche se, a un certo momento, una volta diventato adulto, una volta raggiunta l’età della ragione critica, ho cominciato a dubitare della veridicità di quel ricordo, ho cominciato a pensare che quel ricordo così dettagliato, così preciso, potesse essere falso, se si può definire falso un sogno o un gioco infantile. In realtà, il termine falso, a mio avviso, implica una volontà falsificatrice, completamente assente dalle mie fantasticherie di allora. Forse avevo semplicemente cominciato a dire, come si fa da bambini, quando si gioca, da soli o in compagnia: allora io mi calavo giù dalla finestra, mentre infuriava la tempesta, arrivavo fino alla porta della stalla, aprivo la porta e saltavo in sella al mio cavallo che, come per magia, era già sellato e imbrigliato. Anzi no, l’ho montato a pelo, sì, proprio così, a pelo, senza sella né briglie. Semplicemente così, come si fa quando si gioca; voglio dire, come fanno i bambini quando giocano e inventano, dicendo: allora io allentavo la briglia e lui correva, anzi, non c’erano briglie, gli dicevo delle parole nell’orecchio e lui le capiva perfettamente, e andavamo dove io o lui volevamo andare. Inoltre, se l’avevo considerata vera durante tutta la mia infanzia e adolescenza, e anche oltre, quella storia in qualche modo doveva essere vera, voglio dire che su di me, sulla mia vita successiva, aveva effettivamente avuto lo stesso peso, la stessa influenza che se fosse stata vera.
Il giorno dopo qualcuno mi afferrò per il braccio e mi trascinò fuori della stalla. Sei pazzo? mi disse. Non lo sai che questo è un cavallo che finora nessuno è riuscito a domare? Perché credi che lo teniamo qui, separato dagli altri? Ti può ammazzare con un calcio o staccarti un braccio con un morso, è una bestia traditrice!
Mi divincolai e corsi via. Dopo dieci, venti passi, mi fermai, mi girai indietro e gridai: Non è vero! L’uomo scoppiò a ridere: Vieni domani alla doma, ragazzino, e vedrai, mi rispose.
Conoscevo la doma, ero nato nella estancia e avevo visto domare molti cavalli. Li portavano uno alla volta nel recinto, con un gaucho in groppa che li lavorava di briglie e speroni e frustino finché non si ammansivano e non si adattavano a ubbidire all’uomo. Era un vero spettacolo, e quando c’era da domare un cavallo particolarmente ribelle, tutti lasciavano il lavoro e andavano ad assistervi, e si commentava ad alta voce la bravura del domatore e la selvatichezza del cavallo. Io non mi perdevo una doma, che, nella mia mente infantile, aveva assunto il carattere di un evento mitologico, di una guerra fra uomini e cavalli, una guerra di centauri o di non so che altro potessi allora fantasticare. Mi appassionavo e i gauchos, vedendo il mio entusiasmo per il loro lavoro, per la loro abilità di domatori, mi salutavano con cordialità.
Forse sarei dovuto andare da mio padre a chiedergli che mi spiegasse perché avevano trattato in quel modo il mio amico, tenendolo isolato come un condannato a morte. Volevano che diventasse ancora più ombroso, più selvatico, perché se ne avvantaggiasse lo spettacolo? Non bastava quello che gli avevano fatto, privandolo della libertà? Che altro volevano togliergli, adesso, umiliandolo nel recinto della doma, con tutti i gauchos intorno a incitare il loro compagno?
Passai gran parte di quella notte lottando con il sonno. Appena mi addormentavo, subito mi svegliava la paura di quello che avrebbe potuto essermi rivelato in sogno. Nel sogno la disgrazia e la morte sono qualcosa di più oscuramente complicato che nella veglia. E io temevo che una disgrazia o addirittura la morte incombesse sul mio amico cavallo.
Il giorno dopo non uscii di casa. Mio padre, a cena, parlò a mia madre di non so che problemi, lo ricordo perché se ne parlò poi per parecchi mesi, e fu proprio per quei problemi che mio padre, di lì a non molto, dovette cambiare lavoro. Desideravo che facesse anche solo un accenno di sfuggita alla doma del cavallo, ma il tema, evidentemente, non aveva nessun interesse per lui. Me ne restai in casa per qualche giorno, poi, alla fine, dovetti uscire, o perché mi stancai di stare chiuso in casa o semplicemente perché mia madre mi mise fuori. Non avrei ritrovato il mio amico nella stalla, il suo periodo di isolamento era finito, dovevano averlo messo, ormai, insieme agli altri cavalli. Passai comunque davanti alla stalla. La porta era aperta e una cavalla dal mantello pezzato girò appena la testa con un’aria infastidita quando mi feci sulla soglia. Teneva un cavallino nato da meno di un giorno, traballante sulle zampe, attaccato alla mammella, il collo teso nello sforzo di succhiare. Gironzolai a lungo, senza una meta, lontano dai recinti dei cavalli; scesi al ruscello a tirar sassi negli avvallamenti riempiti d’acqua dalle piogge degli ultimi giorni. Dal nord soffiava un vento caldo e carico di umidità. Le rane avevano ripreso a gracidare. Spezzai un rametto e lo tirai nel ruscello. Affondò, riaffiorò e corse via trascinato dalla corrente. Il tempo, all’improvviso, era diventato una successione di istanti vuoti, scollegati tra loro. Non sapevo come riempirli e ridare loro un senso. Ritornai a casa facendo un lungo giro attraverso il boschetto, a est della fattoria, dove si andava a far legna. Un bienteveo mi accolse col suo verso: bien-te-veo, bien-te-veo, ed io gli risposi automaticamente: bicho feo, perché mi parve un cattivo augurio o una burla il fatto che mi si rivolgesse in quel modo. Ero triste perché mi sentivo solo e abbandonato. La morte non mi aveva mai colpito da vicino, riguardava esseri che stavano al di fuori dell’intima e ridotta cerchia dei miei affetti. La tristezza aveva l’aspetto di un’assenza, di un vuoto che non potevo riempire, del grigiore di una giornata uggiosa.
Sette o otto giorni dopo la doma, passai accanto al recinto dei cavalli. Camminavo a testa bassa, attento a dove mettevo i piedi, perché non volevo guardare i cavalli. Avevo già superato il recinto quando un nitrito mi fece fermare. Mi girai, e lui era lì, presso il cancello, con in bocca il morso da cui pendevano le briglie, e un gaucho stava stringendogli sotto la pancia la cinghia della sella. Mi appoggiai al palo della recinzione e restai a guardare. L’uomo mise il piede nella staffa, si issò in sella e schioccò la lingua, tirando appena le briglie. Lui girò su sé stesso — l’uomo non aveva avuto nemmeno bisogno di muovere le briglie e di usare il frustino per farsi capire — e camminò mantenendosi a meno di un metro dai pali del recinto, quindi si mise al piccolo trotto, con gentilezza e con garbo. Percorse tutto il perimetro del recinto, mi passò davanti, senza vedermi, e si avviò all’uscita. L’uomo si sporse appena dalla sella, piegandosi di lato, per aprire il cancello. Io non mi ero mosso da dove stavo. Lo guardavo e non riuscivo a convincermi che fosse davvero lui quello che ora prendeva il galoppo e si allontanava con il cavaliere in groppa, in fondo alla campagna. Non ero più triste. All’improvviso, com’era venuta, la tristezza era scomparsa. Ero solo spaventato, al ricordo della frequentazione che avevo avuto con lui, delle volte che ero entrato nella sua stalla, che lo avevo accarezzato, che mi ero affidato completamente a lui, alla sua forza ancora indomita. Un terrore sordo e oscuro mi strinse, come una mano che ti strizzi dentro, o un coltello che ti tagli la carne, senza badare al dolore che tu senti. Era molto peggio che se l’avessero ammazzato, come, la notte prima della doma, avevo temuto che potessero fare. Lo guardavo, mentre si perdeva fuori dalla mia vista, col suo cavaliere in sella, ed ebbi paura. Mi guardai intorno, cercando qualcuno con cui parlare. Volevo raccontare, non importava a chi, quello che mi era successo, l’avventura incredibile che avevo avuto con quel cavallo. Mi trattenni solo per timore della reazione che mio padre avrebbe sicuramente avuto, se gli fosse arrivata all’orecchio quella storia. Non capivo ancora che, nel modo più ovvio e usuale, ero appena stato cacciato dal paradiso.”
ANDREA BARBARANELLI

Un tempo, era nella primavera dell’età, che vivevo immerso nel caldo ardore della maremma ancora vergine, ancora carica di passato. E mi rivedo con Mecuccio tra le sughere non ancora violate a metter il canapo sul collo del bajo o a tirar fuori la stacchetta dal rimessino. Ma era Farnese, lo stallone nero dalla lunga criniera, il mio preferito. Lui non era domo ed era ancora sano. Quando, un giorno, lo ebbi a montare sembrava fossi entrato in pieno medioevo. Ogni suo passo faceva tremare la terra ed al trotto faceva seguire il cupo sbuffo. Dovervi tenere la briglia lenta per non fargli agitar di troppo la grande testa irta dei lunghissimi ricci.
Chi può capire cosa sia il cavallo se non chi lo ha amato. E Canapone? L’anziano, saggio ed accorto fedele compagno dal manto fulvo?
Andrea, mi hai scosso!
Proprio nell’etimo equestre dell’avermi fatto cadere a riveder nel ricordo anni scomparsi. Scomparsi non solo perchè il tempo ha aggredito quella realtà ma perchè quello spazio di vita più non esiste. La maremma è solo, oggi, seconde case, turismo, cavedotti…
Quanta voglia mi hai fatto sorgere. Quanto vorrei riprendere a raccontare ciò che non è più…..
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Gran bel racconto, Andrea, epico, selvaggio come il cavallo che descrivi, figlio del vento e del coraggio.
Geograficamente, mi hai portato da un’altra parte rispetto al tuo racconto: da piccola leggevo Tex e amavo i Western, tifavo per gli Indiani…Questo tuo racconto mi ha riportato indietro, così come mi è accaduto nell’estate del 2017 quando ho visitato i luoghi di Tex, la Regione Navajo, e di fronte a quella maestosità, nella Monument Valley, ho sentito la forza inarrestabile della Natura.
Maria Zeno
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