NON COME UN UOMO
di ANDREA BARBARANELLI ♦
Mentre ci avviciniamo, so che, quando arriveremo a toccarlo, sentiremo sulle nostre mani il freddo della carne morta. Deve aver perso tutto il calore, se non era già freddo da vivo, come lo sono i rettili. Deve ormai essere rigido e freddo. Ma vinceremo il ribrezzo, lo toccheremo e, se sarà necessario, lo rivolteremo per guardargli la faccia. È disteso nell’erba alta della radura tra il fiume e la boscaglia, e da dove ci troviamo non è possibile vederlo. Sappiamo dov’è e l’abbiamo trovato solo perché ce lo hanno segnalato gli avvoltoi: si tengono sospesi in alto, esattamente al di sopra di lui, nel cielo tanto arroventato, in questo momento che il sole è a picco, da sembrare nero. Così abbiamo cominciato ad avanzare nel mare d’erba che forma delle lunghe onde quando passa il vento.
L’orma l’avevo vista io, impressa nel fango della scarpata, netta e precisa, nel punto dove il fiume fa gomito prima di entrare nella palude. Avevo chiamato indietro i compagni, che erano andati oltre senza vederla. Una sola orma, simile a quella dei nostri piedi, ma molto più grande, e senza dita. Misi un ginocchio a terra, per esaminarla da vicino. Non era l’orma del piede d’un uomo, come avevo pensato sul momento, appena l’avevo vista, ma non era nemmeno l’orma della zampa di un animale. Il piede che l’aveva impressa era formato da due pezzi, lisci e articolati, incastrati fra di loro, come i pezzi della corazza dell’armadillo. Si vedevano chiaramente i punti d’attaccatura delle due parti: quella che corrispondeva al calcagno era più profonda, perché certo era lì che gravava il peso del corpo. L’orma di un uomo si distingue per le cinque dita che permettono al piede di tenersi attaccato al terreno e, quando necessario, di staccarsene, con un movimento combinato. Nessuno, invece, avrebbe potuto saltare, con un piede come quello, privo di dita, rigido. Sfiorai col polpastrello i bordi induriti dell’orma. Il fango si era seccato al sole, indicando che quell’essere ce l’aveva lasciata almeno uno o due giorni prima. Perché sparisse, o cambiasse forma, sarebbe bastato che il fango non si fosse seccato, ma il sole, in quel punto scoperto, l’aveva indurito come una pietra: non poteva cancellarsi né mutare aspetto, era una traccia lasciata lì come un segnale o un avviso, non potevamo più fare come se non l’avessimo vista.
È sceso al fiume per bere ed è tornato nella boscaglia, dissi, indicando la direzione di quella che sembrava l’orma di un piede. I miei compagni, chini anch’essi intorno a me, lanciarono uno sguardo verso la boscaglia, che cominciava proprio lì, a due passi, improvvisamente misteriosa e ostile. Un conto, infatti, è seguire nella boscaglia le orme di un animale conosciuto o di un uomo, anche nel caso che si tratti di un nemico, un altro conto è seguirci un essere sconosciuto, di cui si ignora l’aspetto, la statura, la forza, la pericolosità. Un ramo spezzato, proprio perché spezzato a quella certa altezza e in quel certo modo, un ciuffo di peli attaccato a una spina, un escremento, la traccia d’odore dell’orina bastano per ricostruire l’uomo o l’animale intero; da un solo segno è possibile ricavare l’insieme: tipo, forza, velocità, età, eventuali difetti fisici, tendenze e abitudini. Questo è quanto sappiamo fare noi cacciatori, altrimenti saremmo già scomparsi da tempo, e invece siamo ancora qui, vivi, con le nostre donne e i bambini, come è vivo il giaguaro e sono vivi gli altri animali cacciatori. Ma come seguire un essere ignoto? Le tracce, i segni, gli indizi che si lascia dietro non sono né tracce né segni né indizi, per il semplice fatto che non ci dicono nulla, non ci parlano, e non ci parlano perché non sappiamo come tradurli: restano muti, estranei, impenetrabili, come se appartenessero a un mondo diverso da quello in cui ci muoviamo. Quell’orma era una sfida e, al tempo stesso, una minaccia.
Sputai con rabbia. Sta facendo fuggire la selvaggina, dissi. Da un pezzo, infatti, stavamo camminando in un deserto: non il grido di un uccello né, sul terreno, l’ombra di una scimmia in volo da ramo a ramo. Di tanto in tanto, all’improvviso, da qualche parte, verso le anse del fiume, si alzava uno stormo di anatre, forse disturbate o spaventate. Rallentammo la marcia. Scorgemmo le altre orme che aveva lasciato impresse sulle foglie morte del sottobosco. Cammina su due piedi, come un uomo, dissi. Poco più avanti, la corteccia di un albero era profondamente lacerata da un taglio obliquo, apparentemente inferto con un’ascia o qualcosa di simile a un’ascia; ancora oltre, un cespuglio era stato sradicato di netto, come se quell’essere, che già ci immaginavamo gigantesco, si fosse accanito a strapparlo, così, senza un motivo apparente. Ci fermammo. Tutto ciò era privo di senso. Pensammo per un momento che poteva essere una specie di animale colpito dalla rabbia. No, non può avere la rabbia, riflettemmo, non sarebbe andato a bere nel fiume, gli animali rabbiosi evitano la vicinanza dell’acqua, non bevono.
Ci si parò davanti, all’improvviso, con un gran fragore di rami spezzati. Ci buttammo a terra, acquattandoci fra i cespugli. Al primo sguardo, avrebbe potuto anche essere un uomo. Aveva una testa, due braccia, due gambe, e procedeva eretto, sui due piedi, proprio come noi uomini. Ma era completamente coperto da un guscio fatto di placche lisce e lucide, come un armadillo gigante, dalla testa ai piedi. Non come noi uomini che non siamo coperti né da gusci né da pellicce né da peli o aculei, ma andiamo col corpo libero, nudo e pulito, a parte i capelli sulla testa. Passò in mezzo a noi senza vederci. Proseguì la sua marcia, tenendo alta la testa, quella che ci sembrò una testa, guardando fisso davanti a sé, se in quella testa aveva gli occhi, come noi e come tutti gli animali. Sì, avrebbe potuto essere un uomo, ma nessun uomo cammina così nella boscaglia, senza prestare attenzione a dove mette i piedi. Se fosse stato un uomo, non ci avrebbe portati fino a lui, lasciando dappertutto i segni del suo passaggio, se non per tenderci un agguato: un uomo fa così. Ma lui non sembrava intenzionato a tendere un agguato, né a noi né a qualsiasi altra possibile preda.
Probabilmente veniva da un posto dove non c’erano né uomini né animali, benché ciò sembrasse davvero strano e incomprensibile.
Il giorno dopo, all’alba, lo scorgemmo vicino al greto del fiume. Evidentemente aveva bisogno di bere molta acqua, e di berla continuamente. Andava al piccolo trotto, a momenti quasi di corsa, piegato in avanti, sbandando di qua e di là, quando accelerava il passo. Andava verso est. Ma non sembrava che avesse una meta, che sapesse dove andare, sembrava smarrito, come se procedesse alla cieca. Il suo guscio rifletteva il sole ancora basso. Lo perdemmo di vista. Era entrato in una zona di terreno ondulato, con massi e alberi sparsi che impedivano la vista. Avrebbe potuto finire nelle paludi che si estendono oltre quei terreni ondulati: se avesse avuto fiato per arrivare fin laggiù, lo avremmo perso definitivamente, sarebbe finito sotto l’acqua e il fango di qualche acquitrino.
Invece non lo avevamo perso. Lo ritrovammo dopo non molto tempo, le ombre si erano accorciate di poco. Si era inginocchiato, rivolto verso il sole, e teneva davanti alla faccia le estremità anteriori (le mani? Sì, mani come le nostre, con cinque dita, le vedevamo chiaramente, adesso, e le contammo). In quel momento vedemmo che aveva una testa simile alla testa di un uomo, ma con lunghi capelli rossi e fitti, lunghi peli dello stesso colore sulla faccia. Si era tolto il guscio della testa. Se era un uomo, era un uomo straordinariamente diverso da tutti quelli che conoscevamo. O era un mostro corazzato con una testa simile a quella di un uomo. Restò inginocchiato a lungo. Muoveva le labbra, come se parlasse, ma eravamo troppo lontani per sentire la sua voce, ammesso che avesse una voce. Quando si alzò in piedi, si guardò intorno e sollevò ed allargò le braccia. Fu l’unico suo gesto di cui credemmo di capire il significato. Forse solo in quel momento si rese conto di quanto l’orizzonte fosse lontano e irraggiungibile.
All’alba non c’era più. Aveva avuto ancora la forza di trascinarsi via, durante la notte, in chissà quale direzione. Nel punto dove s’era inginocchiato trovammo quello che pensavamo fosse il guscio della sua testa. Se l’era tolto e l’aveva abbandonato, lasciato lì in terra come un qualcosa di ormai inutile. Questo è ciò che pensammo. Non è facile dire se si tratti di un vero e proprio guscio, come sono quelli delle tartarughe o delle lumache, o di un prodotto del lavoro di esseri che hanno qualche somiglianza con noi, ma sono evidentemente affatto diversi da noi. È comunque un rivestimento che serve a proteggere la testa, di un materiale sconosciuto, molto duro, resistente ai colpi più forti, più duro del legno più duro, duro quanto la roccia più dura ma che non si scheggia, a batterci sopra, si ammacca e si piega, è stranamente malleabile. Ci appostammo in cima a un’altura e restammo ad aspettare che il sole arrivasse più in alto nel cielo. Sapevamo che gli avvoltoi sarebbero prima o poi comparsi al di sopra di un qualche punto della pianura, se lui fosse morto, come quel suo gesto di disperazione ci induceva a credere che sarebbe successo. A metà mattina, infatti, hanno cominciato a scendere. Doveva essere ormai morto o vicino a morire.
Allora decidemmo di farci avanti anche noi, con prudenza. All’ultimo momento, ci saremmo alzati tutti insieme, con le frecce incoccate negli archi. Avremmo finalmente saputo chi era.
ANDREA BARBARANELLI

L’Uomo è entrato senza far rumore (Teilhard de chardin).
Ha camminato con passi leggeri. Se lo intravediamo nel profondo del passato è perchè tradito dai suoi untensili lasciati qua e là. Forse l’abilità intelligente è venuta alla luce non in un solo punto geografico ma in più punti, in modo simultaneo. Non un focolaio ma un ampio fronte di evoluzione.
Tuttavia, la giovinezza umana è stata di migliaia di anni e la tesi del monogenismo appare insostenibile. Dunque, il livello della tecnica non può essere stata uniforme.
Il racconto di Andrea ci coinvolge. L’incontro con qualcosa di inaudito. Dobbiamo immaginare che cosa può aver significato l’incontro. Una traccia che non corrisponde al piede nudo ma a quello “calzato”. Il copricapo protettivo che si rimuove. Primi esempi di “esoscheletro”.
Questo squarcio ci riporta nel momento in cui “il mondo si sta costruendo”. Un mondo costruito a tentoni, fatto di meraviglia, di mistero. Un mondo di possibilità non certo ordinato fin dall’inizio.
Dobbiamo immaginare, sulla scorta dell’affresco di Andrea, questo lentissimo sforzo umano di farsi strada, di creare il “mondo”proprio perchè manchevole di istinto. La scimmia nuda che deve inventare “protesi” perchè mancante di un mondo naturale.
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Caro Andrea, mi sono familiari i tuoi racconti “americani”. Ma leggendo questo- che trovo splendido per il punto di vista che rovescia completamente quello dell’europeo (che poi si tradurrà nella teoria dell’ homunculus di padre Sepúlveda)- mi è subito venuto in mente l’incipit di uno straordinario film di Terrence Malick, The new world. Anche lì, come nel tuo racconto, domina lo stupore, reciproco, di trovarsi di fronte non a una diversa umanità, ma a un’altra specie, seppure simile. D’altra parte non è un caso che nel corso della storia molti popoli si siano autodenominati con un termine che significa semplicemente “uomini” (gli Inuit per esempio).
Ancora una volta ti ho letto con grande interesse. Ti ringrazio e ti abbraccio,
Ettore
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