RUBRICA BENI COMUNI, 93. OPTIMUN PRINCIPIUM
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
«Imbéciles! Imbecilli!» Mi sembra di sentirli, no, di leggerne il pensiero… anzi, me li vedo proprio davanti, immaginando la loro reazione interiore di fronte a cose che – per il loro modo di pensare – gli appaiono illogiche, non intelligenti, prive di buon senso. Sono diversi tra loro, certamente, eppure simili, così austeri e compassati, pur mostrando da piccoli segni, da un sopracciglio inarcato, il disappunto che provano: autorevoli già a vederne l’aspetto, nell’esprimere il loro giudizio non usano quelle parole, se non in casi estremi. Ma quel giudizio, detto con altri termini, è netto, deciso, preciso, tranchant. In francese, in italiano, a volte in latino. Ormai li conosco bene. Date le circostanze, non ho proprio potuto incappare nei loro rimproveri. Spero di non averli comunque mai meritati, ma la mia è certamente presunzione. Però i loro giudizi verso altri li ho potuti chiaramente intuire, leggere tra le righe, in qualche caso leggerli proprio sulle righe, nero su bianco. E la parola utilizzata,credetemi, è proprio quella: «imbecilli»!
Ne ho parlato nella puntata n° 26, Belles occasions manquées (par la faute des imbéciles), pubblicata il 30 novembre del ’22, dove il protagonista era padre Couturier, provinciale dei domenicani di Lione e committente del progetto per il convento di Santa Maria de la Tourette a Eveux sur l’Arbresle, opera emozionante di Le Corbusier. Anche gli altri a cui mi riferisco, questi personaggi austeri e autorevoli, diversi tra loro ma simili, lo sono pure a vederli, perché hanno in comune anche l’abito – tonaca e scapolare bianchi, cappa e mantello neri – essendo tutti “Domini canes”, figli di San Domenico, frati dell’Ordine dei Predicatori: il provicario e architetto Jean-Baptiste Labat e il priore Giuseppe Fati, il padre generale della Minerva e Francesco (padre Alberto) Guglielmotti, il caro padre Giovanni De Mattia, ultimo parroco domenicano a Civitavecchia. Altri ancora, che qui non nomino, vicini alla mia famiglia in momenti gravi e drammatici. Straordinarie persone, tutte, alle quali sento sinceramente di dover essere grato per vari motivi diversi e, quelli citati, per le tante notizie, altrimenti destinate a rimanere sconosciute, apprese attraverso le loro opere o, per padre Giovanni, dalla conoscenza diretta e dalla pluriennale frequentazione.
Non so se esordire, come ho fatto, con un improperio, attribuendone la “paternità” a personaggi storici di tanta importanza sia stato un buon inizio, quell’ottimo principio – optimum pricipium – del titolo della puntata, per il quale ho preso spunto dall’opera in due volumi di Roberto Paribeni, Optimus princeps, edita a Messina nel 1926-27. Ottimo o pessimo, ne spiego la ragione. Avviene, a volte, nel corso di ricerche e studi sugli argomenti che rientrano nel nostro campo di attività professionale o accademico, di imbattersi in questioni di dettaglio la cui conoscenza richiede approfondimenti o indagini da svolgere in ambiti meno diretti, non facilmente accessibili o dipendenti da procedure complesse. L’interdisciplinarietà della biblioteca familiare – di cui sono grato a mio padre, a mia madre e ad altri “antenati” – mi è stata molto utile negli anni scolastici. Poi, l’identità o la contiguità delle professioni con altri membri della famiglia ha portato a dotarci di supporti bibliografici e informativi molto vasti e specializzati. La ricchezza delle conoscenze facilmente acquisibili sulla rete informatica ha ulteriormente facilitato il reperimento dei dati necessari allo svolgimento del lavoro. Ma alcune materie o cognizioni specifiche richiedono azioni, spostamenti, percorsi e tempi tali da non avere soluzioni immediate o rapide. Per cui l’attesa del risultato si protrae nel tempo, in qualche caso molto a lungo, tanto da non essere più tra i pensieri di più frequente attenzione. Anzi, da essere quasi dimenticata, come una cosa che spiace, anche addolora, ma con una incerta rassegnazione. Ma avviene pure, a volte, che improvvisamente, inaspettatamente, a sorpresa, quella risposta persa nel dubbio, quella soluzione non più sperata, quell’immagine rimasta indefinita, ci raggiungano e si rivelino, per giunta con un esito positivo e piacevole.
È quanto mi è accaduto l’altro giorno, grazie ad una circostanza favorevole che si è verificata in modo indiretto, con il tramite di persone gentili e di coincidenze positive. Poiché l’argomento ha un certo valore per i fini informativi della rubrica ed un sicuro interesse intrinseco, facendo finalmente luce sul “mistero” dell’oggetto di cui parlerò, finora rimasto senza immagini per me e, credo, per molti, mi attengo alle parole che aleggiano nell’aria e cerco di dare un inizio più che buono al racconto, sempre con il sussidio delle figure in copertina. Un ottimo principio, con lo sfondo delle “copertine” dei due volumi dell’Optimus Princeps di Roberto Paribeni, non può prescindere dalle opere dei due massimi storici da cui abbiamo appreso i fondamenti delle nostre conoscenze su Civitavecchia: Francesco “Alberto” Guglielmotti e Carlo Calisse. Partiamo dal primo, rileggendo alcuni brani.
Guglielmotti. Nel Libro Settimo – La Piazza di Civitavecchia [1515.], a p. 272:
(Raynaldo, Annali) «Leone X avendo prima purgato il porto dalle fanghiglie e dai rottami, a pubblico beneficio cominciò a cingere di muraglia la città.» In somma il porto coll’appellativo di Pirgano, i cavamenti col richiamo di Giulio de’ Massimi, e la fortificazione col principio delle muraglie, ci rimenano sempre agli stessi fatti di Leone X, e del Sangallo.
Dal maestro di casa e privato tesoriere di Papa Leone (il Serapica) troviamo registrate diverse partite di lavoro con opere di pietra e di muro (Mss BAV): «Addì 11 giugno 1519, a maestro Antonio da Santo Gallo ducati quaranta, quali sono per quattro pezzi di marmo a magistro Pietro Stella, per quattro arme che vanno a Civitavecchia».
[omissis] Nel seguente mese dell’anno medesimo l’istesso Registro ricorda un’altra opera per la darsena, che non poteva non essere attaccata ai muri alti e sodi con spranghe e staffoni di ferro. Si legge alla data del 27 luglio 1519: «Addì 17 luglio 1519. A Jacopo dell’Opera, maestro di getto, ducati cento a buon conto sopra le teste di bronzo che vanno a Civitavecchia.» Queste teste di bronzo esistono ancora fortemente inchiavate sui muri della darsena, e si chiamano comunemente dal popolo i Mascheroni. Pensate otto o dieci bellissimi e fieri teschi di leoni colossali, gittati in bronzo da mano maestra con vivacissime bizzarrie di sguardo feroce e di giubba arruffata, i quali, con le zanne sporgenti di sopra e di sotto tra le labbra accartocciate, sostengono gli anelloni massicci di metallo a pènzolo, dove i bastimenti danno volta ai canapi di posta in alto, tanto che sia libero il passo per le banchine, senza mettervi l’intoppo delle gomme tra le gambe. Qui pure mastro Jacopo, al pari di tutti i grandi del suo tempo, mostra il bell’ingegno: conciossiacosaché senza scrivere il nome di papa Leone, né la data del lavoro dice evidentemente l’una e l’altra cosa, ritraendo in tutti i cerchioni pènzoli il notissimo simbolo dell’anello mediceo; dove la gemma piramidale pur di bronzo a quattro facce, incastonata tra le bende in crociera sul più ricco del metallo, grida la signoria, il tempo, e la famiglia di papa Leone. Dunque nel ’19 anche il muro andava innanzi: ed Antonio provvedeva non solo al terraglio, ma pure alle pietre, ai marmi, ai bronzi; e sugli archi delle porte metteva gli stemmi, su gli arpesi i mascheroni, sulla darsena gli scandagli, sul mare il palazzo.
«Addì 3 ottobre 1520. A messer Filippo Argenti per conto del molo grande di Civitavecchia et fondamento del palazzo, a conto duc. 500».
A p. 282: [Il capitano Francesco Laparelli da Cortona] nel codice manoscritto autografo Visite, progetti, pareri…, p. 164, «Carta che tratta della fortificazione di Civitavecchia», mette bene in ordine prima l’edificio della fortezza; poi la dieta di papa Leone con le stesse parole del Vasari; e finalmente, venendo al suo tempo nel nostro decennio scrive così: «[Gli esperti chiamati a dare un parere sulla fortezza di Civitavecchia] giudicarono che la maggiore offesa potesse farsi a detta rôccha fusse da santo Bastiano per infino a quella casa che si dice il Paradiso, vicino dove si è fatto il baluardo segnato A [dove la Magliabechiana e la lo schizzo mettono la porta Romana primitiva], perché tal loco era et è comodo da accamparsi e da far trincere con quelle grotte che si trova, con sito superiore a detta roccha, con molto comode piazze d’artiglieria per battere tal rôccha nuda dentro et di fuori.»
Ancora nel Libro Settimo, a p. 287, nota 90:
Piante diverse, del porto, città e fortificazioni di Civitavecchia, secondo l’ordine del tempo:
Porto Cellulare antiromano. (Medaglie cit., lib. VI, c. 9).
Porto di Trajano, 99. (Canina, Arch. Rom., III,160).

Antichità romane. (Pirro Ligorio, Mss. Parigi e Torino).
Pianta di F. di Giorgio, 1490? (Saluziana, Promis, I,13).
Fortezza, 1508. (Galleria di Firenze, cit. lib. VI).
Schizzi del Sangallo, 1515, ibidem. (cit. lib. VII).
Pianta alla Magliabechiana, 1542. (cit. c. s.).
Pianta del Laparelli, 1560. (Cortona, Atlante, p. 86).
Pianta di Ignazio Danti, 1580. (Affreschi Vat.).
Il Crescentio, 1595. (Nautica, p. 537).
Bernardino Cresi, 1660. (Saluz. e Ayala, Bibl., 395).
Blaev, 1663. (Theatr., I, 94; II,24).
Cintio Fiori, 1680. (Bonanni, Numism., II,564.
De Fer, 1692. Fortific., p. 158).
Fontana, 1702. (Casanat. O, I, 59, CC).
Idem, 1705. (Bibl. Casan. O, II, 38, CC).
- B. Labat, 1717, Voyage, IV, 214).
Scotti, 1747. (Itinerar., p. 323).
Santi Bartoli, 1751. (Bibl. Casanat. BB, I,26, tav. 49). 20. A. I. 42.
Salmon, 1752. (Geograf., XXII, 375).
Bellin, 1774. (Idrograf., Paris, IV).
Bouchard e Grevier, 1788. (Diar., 28 giugno, p. 18).
Fidanza. (Diar., 13 aprile 1793).
Pianta del Censo, in-fol. magno, 1841.
Ant. Acquaroni, 1846, (quattro prospetti).
Annovazzi, 1853. (Storia, p. 448).
Carte Marine, 1865, segg. (Ammir. ingl. franc.).
A p. 303: Delle opere novissime, abbriccate dagli ufficiali francesi nel cinquantasette per ultimo ingrandimento, lascio la cura ai posteri: i quali in ogni tempo, se vorranno avvantaggiare nello studio, osserveranno sempre più il genio di Bramante, di Michelangelo, e del Sangallo; e così passeranno oltre sul resto, come ora noi, senza attendere alla stazione ci rivolgiamo a Roma per le mura di borgo, facendoci all’altro libro.
Tanto per dare atto che padre Alberto non le mandava a dire.
Ed ora il Calisse: dalla Storia di Civitavecchia, Firenze 1936, p. 24, nota 2:
Il disegno del porto è attribuito per tradizione ad Apollodoro, l’architetto delle grandi opere di Traiano. Fino a tempi recenti ne sono rimasti qua là visibili avanzi, tutti scomparsi oramai pei lavori delle nuove sistemazioni del porto. Sul lato di terra, a sostegno delle mura e delle case sovrastanti, si possono ancora scorgere, nell’interno dei magazzini, le forme dei pilastri del portico, che fronteggiava da questo lato il porto. Il disegno di questo fu riprodotto più volte: v. Canina, Pianta e alzato dell’antico porto di Centocelle, in «Archit. Rom.», 1833, III, tav. 160; Fontana, Pianta antica del porto ed acquedotto di C. Vecchia, incis. della Calcografia Camerale, incisione in 4 fogli; cfr. Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia cit., I, c. 3, n. 8. Il Collicola, Aerari reique maritimae praefectus, nel 1728 fece incidere le linee del porto in una lastra di marmo, che fu esposta nelle mura del porto, sotto l’antica rocca. La fotografia ne è riprodotta in Paribeni cit., II, fig. 15. Una pianta del porto è unita alla Storia dell’Annovazzi, il quale, però, seguendo il Frangipani, p. 223, attribuisce al porto di Centocelle, p. 93, e tav. a pag. 86, disegni che, come apparisce dalla loro stessa figura, appartengono ad Ostia: cfr. Marini, Iscriz. ant. dol., Roma 1884, num. 1149 a); Vaillant, cit., I,49.
A questo punto, riprendendo il mio discorso, termino, assicurando Lettrici e Lettori che in una prossima puntata fornirò le prove di quando e come padre Jean-Baptiste Labat, il priore Giuseppe Fati, il padre generale della Minerva, padre Alberto Guglielmotti e il caro padre Giovanni De Mattia abbiano pronunciato o pensato quell’epiteto «Imbéciles! Imbecilli!», riferendosi ai responsabili di cose che – per il loro modo di pensare – erano illogiche, non intelligenti, prive di buon senso. Intanto, qui in APPENDICE, alcuni brani illuminanti.
Devo anche chiarire perché ho citato i volumi di Roberto Paribeni, Optimus princeps, pubblicati a Messina nel 1926-27 e cosa è mai la pianta marmorea della figura. Ho detto di persone gentili e di coincidenze positive. Mi riferivo alla mail ricevuta da parte della dottoressa Antonietta Simonelli, Funzionario Archeologo del MiC – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e di Villa Poniatowski, Curatrice delle sezioni: Umbria, Latium Vetus, Agro Falisco, Responsabile dell’Archivio documentale, disegni e fotografico, Responsabile della Biblioteca, dell’Ufficio Catalogo e Inventario e dell’Ufficio didattica. La quale, mi ha scritto:
«Gentilissimo Architetto, le invio l’immagine della lastra con l’incisione del Porto di Centumcellae (fig. 15 posta tra le pp.128-129). Se ne parla a p. 115: “Quando si eseguirono i lavori di Benedetto XIII (1728), si ebbe occasione di vedere molto della struttura del porto antico, e con rara diligenza il Collicola, aerari reique maritimae praefectus, ne fece delineare il piano in una lastra marmorea tuttora esposta nelle mura del porto, e che qui riproduco da fotografia (fig. 15)”.»
Questa la mia risposta, che è anche la spiegazione per chi ha avuto la pazienza di leggermi:
«Cara Dottoressa, mi permetta l’aggettivo familiare. La sua mail corredata dalla foto mi è arrivata come una sorpresa che oggi non aspettavo, preso com’ero dai commenti con amici su Facebook e altro sulla simpatica e piacevole cerimonia di ieri a Civitavecchia per il Premio Scalfari, occasione di molti incontri, ricordi e stimoli. Devo dire che poter finalmente vedere cosa era rappresentato su quella lastra di marmo, dopo anni di attesa dovuta, lo confesso, a molta pigrizia da parte mia ed a promesse non mantenute da parte di varie persone, è stata una bella soddisfazione. Intanto, la schematicità della pianta incisa mi ha tolto il dubbio che potesse contenere e svelare aspetti inediti. Poi c’è stato il ricordo che, pur non avendone riproduzioni, in anni molto lontani quel disegno lo devo aver visto, forse alla Biblioteca Vaticana o da qualche altra parte, ne ho una vaga memoria ma non potevo confrontarla con la realtà.»
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APPENDICE
- 248 Anzitutto Antonio voleva fortificare la darsena… Ondechè nel primo schizzo con pochi e sicuri tratti rileva di pianta il porto, i moli, le due rôcche, e tutto il perimetro della città, come era allora. Un quadrilatero largo verso il mare, e stretto verso terra, con quattro cortine dentate e sostenute ai vertici dai quattro torrioni maggiori ancora visibili; il primo rotondo sul palazzo del Governo, il secondo poligono all’altura della Morte, il terzo quadrato a ridosso della Stella, l’ultimo conico alla scaletta del Caracollo. Ciò fatto si ferma sui contorni della darsena, circoscrive le sponde del nostro bacino e sul lato minore rimpetto alla bocca pianta la base del nuovo poligono bastionato alla maniera classica, non che alla moderna. Due belli bastioni pentagonali, legati insieme da una magnifica cortina. Scrive in alto a sinistra il nome di Civitavecchia, e attorno al porto, dietro alla fortezza, dentro alla darsena, scrive ripete cinque volte mare, così: «Ciuita uecchia / Mare. Mare. Mare. Mare. Mare.»
250 Tastato il terreno, e prese le misure, egli stabilisce un nodo di gran conto sopra quell’altura, cui chiama il monte dell’Ulivo, là dove adesso diciamo la salita della Morte, per la chiesa del suffragio poscia edificata in quel sito. Quivi a punto Antonio richiama ed incentra il nervo più importante della difesa, mostrando chiaramente fin dal principio che egli intende occupare l’altura, metterla dentro, e munirla col maggiore dei suoi bastioni. Ciò non pertanto si mostra impensierito dalla difficoltà delle misure di cento ottantaquattro canne: ora diremmo di metri 411.
253 Sopra quella eminenza Antonio disegna il quarto bastione, tanto maggiore degli altri quanto sovreggia l’eminenza del sito. Se non che, misurata la distanza tra il terzo e il quarto, ritrova la cortina troppo lunga, avendo già scritto di sua mano nel secondo scritto per tre volte la misura con le predette parole: «Dall’ulivo perfino alla punta del bastione di terra si è canne 184, 184, 184.» Lunghezza veramente eccessiva di quattrocento undici metri, da non si poter difendere per tutta la distesa col moschetto di quel tempo, la cui gittata ordinaria non passava i metri trecento. Ma non volendo Antonio a niun patto mai metter giù dall’altura il quarto bastione, né potendo avvicinargli il terzo senza scatenare il legame fiancheggiato dei due primi, ben si vede lui restare perplesso, e sommamente intento, secondo la massima sua fondamentale, a studiare il terreno, ed a cercarne i ripieghi. Le varianti e mutazioni aggiunte sul lembo del foglio, parlano.
254 Antonio ripete la medesima linea troppo lunga tra il terzo bastione della darsena e il quarto del monte; e sopra quella linea di canne cento ottantaquattro, cioè di palmi 1840, scrive di suo pugno la sottrazione di palmi 517, cioè di canne cinquantuna avvantaggiate: scrive pur nel mezzo di suo pugno la differenza in palmi 1330, che sono canne centotrentatré, sufficienti alla gittata ordinaria del moschetto nel suo tempo. Poi con due tratti di penna sega in due punti la cortina troppo lunga, mette in dentro due denti, aggiunge un fianco di più al terzo e al quarto bastione, e così ravvicina sopra quattro punti i fuochi, e distende la difesa radente per tutta la fronte. Ecco vinta la difficoltà, ecco discoperto l’ordine rinforzato, ecco la prima origine dei fianchi doppi. Invenzione venuta da sé per la necessità del terreno, e per l’ingegno dell’architetto.
255 Questi sono fatti di Antonio, non di altri: il merito torna tutto a lui solo. La duplicazione dei fianchi esce nel 15 non nel 35: l’invenzione a Civitavecchia, la replica a Roma. Cade da sé l’equivoco del Marchi sempre spropositato nei nomi personali, che scrisse Gio. invece di Antonio. Precipitano tutti i castelli fabbricati dai zelanti sopra quei tre granelli di arena, come vedremo meglio a proposito del famoso baluardo di Roma perché qui non cade questione.
258 «Torre di uerso lo monte a facie nello alto della terra.»
261 Tanto è connessa l’architettura militare con l’idraulica nelle piazze marittime, che Antonio, non contento, alle difese bastionate ha voluto aggiungervi il compiuto disegno di un cantiere da costruzione navale. Alla estremità boreale della stessa darsena, rispetto alla bocca, dove ancora non erano né muri né magazzini, egli chiude lo spazio con due aloni di muraglia, parallelamente ai lati maggiori del bacino, tra i quali cava nel mare, e mette il pendio. Poi con molte filiere di pilastri a sei a sei, di arcate a cinque a cinque, tutte in crociera di quadro per 40 e più palmi, forma undici navate di palmi 40 per 200, capaci di contenere in costruzione, in racconcio, o in disarmo, totalmente coperte undici galèe sottili, che esso stesso vi ha collocato in disegno: e al bisogno di capire undici galèe grosse.
268 Cade giù pertanto disfatta la supposizione dell’illustre Carlo Promis, il quale avrebbe voluto ritardarne di venti anni il principio, e scriverne ad altri il merito, dicendo: «Pierfrancesco da Viterbo nel mezzo dell’anno 1525 a Piacenza fondo bastioni di terra e di fascina…»
270 E ben l’opera precedentemente imbastita fu riconosciuta da lui, e dagli altri architetti, perché essa (come ci ha detto ora il Sammicheli) dura lunghissimo tempo. I movimenti regolari del terreno, attelati con arte nella fortificazione, restano per lunghi secoli impressi e visibili, dovunque non siano stati studiosamente distrutti e spianati.
271 Questi cinque bastioni, al modo che ho detto, oggi che rivedo queste mie stampe (della prima edizione), e siamo alli ventidue di maggio del 1880, sono tutti in piedi al posto loro in Civitavecchia, come furono disegnati e misurati dal Sangallo nel 1515, da lui stesso imbastiti in terra, e indi copiati dal collettore della Magliabechiana.
285 XIII. – E perché niuno mai potesse dubitare dell’obbligo imposto ai nuovi architetti di tenersi fermi sulle tracce degli antichi, e sugli ordinamenti di Leone X, fece anche Pio IV ribattere due volte sopra due medaglie diverse di modulo, l’istessa pianta di Civitavecchia con l’istessa figura dei sette bastioni, perfettamente simili al conio di Giulio III, al codice della Magliabechiana, ed agli originali del Sangallo: e vi comprese gli ultimi due nella seconda maniera, alla quale intendeva onninamente tenersi, e di fatto si attenne. Le due medaglie, tutto che diverse, del modulo quarto e del quinto, di caratteri maggiori nell’una e minori nell’altra, e con l’aggiunta di una sola delle parole: “Ottimo principe nondimeno quanto alla figura delle fortificazioni non mutano., Anzi, ripetono on mente il sistema bastionato del Sangallo con tale tanta conformità di figura, di forma, e di proporzione, che farebbe meraviglia chi che sia se non sapesse che tutte fanno ritratto dell’identico originale di un sole primitivo Architetto.
287 Ampio fossato corre continuo da riva a riva, dove infino al cordone la muraglia si cela. Nel mezzo la cunetta di scolo. Di là spalto, strada coperta, e controscarpa murata; di qua i cantoni, spalle, saglienti, fianchi, contrafforti, e terrapieni fino al sommo dei parapetti. I rampari così larghi che i carri delle artiglierie di qualunque calibro vi possono correre col tiro a quattro per tutte le parti, infino alle batterie. I rondelli coronano la muraglia, e guardano nel fosso dal piede alla cima dei baluardi. Seguiamone l’andare per ordine, ed appuntiamo le leggende degli stemmi, come ci vengono innanzi. Mi duole di non poter cominciare con le armi d’iscrizioni di Leone X, scolpite da Pietro Stella, e messe in opera nel ’19, perché dovettero cedere il posto alle novelle, mutate le porte e le strade. Delle moderne non mi cale, perché non fanno al proposito. Il primo baluardo spicca dal vivo della bocca di darsena, mette il sagliente al molo destro, e affacciasi fuori dal porto. Ecco modello di mezzo bastione, dove la faccia sinistra non a fianco, ma si prolunga come alone nell’interno del porto, col solo compenso di una piazza bassa, che lo fiancheggia. Sotto al cordone della faccia esterna mostra uno stemma papale con tre bande: e sulla targa porta scritto così: «Pio V, di casa Ghislieri, di patria alessandrino, pontefice massimo, l’anno della salute 1566.»
[Le pp. 272-282 le ho riportate nel testo della rubrica]
A p. 294, nota 98
98 Daniele Barbaro, I dieci libri di Vitruvio, tradotti e commentati, in-fol. Fig. Venezia, 1556, p. 39: «Gli androni o casematte che menano alle piazze basse, espresse colla lettera O.» Vedi qui sopra, lib. II, cap. XIII, alla p.80.
Crescentio, Pianta di C.V., p. 538, ripete le dette casematte.
Fiori cit., Pianta del Bonanni, II,564, ripete come sopra.
99 Lapida sulla porta Romana, già di mezzo ai due ultimi baluardi, ora nell’atrio del palazzo governativo, pubblicata altresì dal Torraca, 52; e dall’Annovazzi, 265:
hieronymvs . melchiorvs . epvs . maceraten .
camerae . ap . decanvs .ivssv . primvm
pii . iv . avctoris .mox . et . pii . v . pont . max .
mvnitionem . hanc . cvra . et . diligentia
io . mariae . agamontis . a . bosco
arcis . praefecti . f . c . an . mdlxxi .
Ora terminata la rivista dei sette baluardi mi bisogna avvertire la multiplicità dei nomi, che nei diversi tempi prevalsero, e si leggono ancora nelle piante e nei libri. Prima, com’è naturale, ebbero a chiamarsi coi numeri d’ordine dal primo al settimo; nomenclatura per maggior chiarezza tenuta finora da me. Appresso coi nomi posticci del Sangallo; dei quali, quantunque dimenticati, io ho voluto far conto, analizzando la scrittura dei suoi autografi. Poi la riverenza ai protettori superni, specialmente venerati nel paese, portò i nomi dei Santi. Indi per enfasi di qualche ristauro ebbero l’appellativo di alcune famigli e, quantunque venute un secolo dopo in Roma ai sommi onori. Finalmente per la vicinanza dei luoghi più noti, o per gli usi che se ne prendevano, o per la giunta di altri edifici, vennero volgarmente distinti in tante diverse maniere quante ne ho raccolte insieme nel seguente prospetto, dove per sette baluardi troverete trentaquattro nomi diversi, tutti da lungi noti, e usati anche adesso nel popolo 100. Enorme congerie se si lasciasse correre senza ordine né ragione. Ecco lo specchio:
Primo. Alla Casaccia. Di san Teofanio. Il Casone. Del Lazzaretto. Alla Mancina.
Secondo. Di Mare. Santa Barbara. La Polveriera.
Terzo. Di Terra. Santa Rosa. Del Turco.
Quarto. Dell’Ulivo. Santa Ferma. Alla Morte. Borghesiano.
Quinto. Alla Porta. Sant’Antonio. Barberino. Testaccio. Al Forno.
Sesto. All’Alto. San Francesco. Alla Campanella.
Settimo. Il Puntone. San Bastiano. La Vista. Il Belvedere.
100 Piante cit., alla nota 90. I nomi dei baluardi per lo più vi sono scritti nel margine.
Cintius Florus cit.: «Munimentum dictum del Casone, del Turco, dictum S. Barbarae, dictum Campanella.»
Labat cit., 215: «Bastion S. Theophane ou le Casson, S. Barbe, S. Rose, S. Ferme ou des Borgheses, S. Antoine ou des Barbarins, S. François ou de la Sonnette, S. Sebastien.»
Frangipani, 245: «I Bastioni del Casone, del Turco, della Campanella.»
Annovazzi,281: «Il bastione della Vista, dove si scopre il tramonto, ecc.;» 280: «Il bastione della Campanella, perché è vicino all’albergo di questo nome.»
FRANCESCO CORRENTI
