«CONOSCERE PER AGIRE»: LA LEZIONE DI FRANCO FERRAROTTI
di NICOLA R. PORRO ♦
La recente scomparsa di Franco Ferrarotti ha trovato adeguata risonanza anche nella stampa non specializzata e nei maggiori media nazionali oltre che nel mondo universitario e della ricerca scientifica. Mi sono sentito in obbligo di ricordarlo anche sul nostro blog perché in anni lontani aveva istituito un rapporto speciale con Civitavecchia. La Scuola di Guerra, impegnata a costruire un curriculum formativo più aggiornato per i propri corsisti, lo invitò a tenere un ciclo di lezioni nella propria sede. Lui si lanciò con curiosità nell’impresa. Lo stimolava il confronto con un pubblico così diverso da quello che affollava i corsi universitari, sedotto dalle sue capacità comunicative e dalle suggestioni “antagonistiche” della ricerca sociale. Avremmo ricordato quelle giornate anni dopo nelle chiacchierate che di tanto in tanto ci concedevamo nel suo studio di Galleria Esedra al temine delle lezioni. A Civitavecchia aveva fatto ritorno altre volte, sempre onorando con puntualità piemontese gli impegni presi e riempiendo di un pubblico eterogeneo le aule che ci ospitavano. Nelle sedi universitarie romane – prima in quella di Piazza Esedra poi in quella di Via Salaria che ospitava l’appena costituita Facoltà di Sociologia – ci concedevamo di tanto in tanto, terminate le rispettive lezioni, qualche chiacchierata informale. A Ferrarotti piaceva commentare in tempo reale l’attualità politica e dissertare su vicende curiose o fatti di costume. Nel tempo si cementò un’amicizia rispettosa dei ruoli: parlavamo a lungo, ci scambiavamo idee, commenti e giudizi su pubblicazioni recenti. Sempre dandoci rigorosamente del lei, con le nostre chiacchierate informali spaziavamo disordinatamente per l’universo mondo. Anche quando lasciai Roma per altre destinazioni accademiche conservammo un rapporto di stretta collaborazione che si sarebbe cementato più avanti quando volle farmi condirettore della rivista da lui fondata: La Critica sociologica.
Fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, quando le ricerche condotte da Ferrarotti ispiravano gli sviluppi in Italia (e non solo) della nascente sociologia qualitativa, era per me un privilegio confrontarmi di persona con le idee partorite dalla mente vulcanica del mio maestro. Tenere il passo della sua produzione scientifica e coltivare il sodalizio che avevamo costruito divenne però presto molto difficile per me. Prima di divenire titolare di cattedra avevo peregrinato per varie sedi universitarie, poi per nove anni avevo presieduto la più grande associazione nazionale di sport amatoriale e un centro europeo di ricerca sul settore. Per un certo periodo rivestii anche il ruolo di consigliere nazionale del Cnel. Di necessità con Ferrarotti ci si vedeva sempre più raramente. Non interrompemmo però i contatti e fu lui stesso a incoraggiarmi a esplorare territori lontani dall’accademia consegnandomi nuovi stimoli e suggestioni. Volle introdurmi alla tematica delle storie di vita e farmi partecipe della sperimentazione del metodo qualitativo. Sosteneva che i sociologi dovessero usare meno diagrammi ma prestare più attenzione alla vita quotidiana delle persone. L’approccio biografico, che divenne un aspetto distintivo della “scuola romana”, poteva costituire una formidabile chiave di lettura dei processi sociali ma esigeva che ciascuno di noi elaborasse la propria “equazione personale”. Non si possono comprendere le ragioni degli altri – ci spiegava Ferrarotti – senza preliminarmente analizzare le nostre. Per dare l’esempio attingeva alle proprie memorie private.

Apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri piemontesi che era stata rovinata dalla crisi finanziaria del 1927 (la famigerata “quota novanta”). Era riuscito però a completare gli studi superiori negli anni della Guerra. Poco più che ragazzo avrebbe militato come staffetta partigiana e poi nella Resistenza armata nelle colline del suo Canavese. Conseguita la laurea, nei primi anni Cinquanta partì alla scoperta dell’America. Fu negli Usa che si fece sedurre dalla sociologia non senza intuire i limiti dell’approccio allora dominante. Ritornato in Europa, avrebbe così elaborato per passi successivi una visione alternativa della ricerca sociale che battezzerà sociologia critica. Tale approccio era all’epoca del tutto inedito e in rotta di collisione con la scuola funzionalistica di cui criticava il conservatorismo e quel “formalismo metodologico” con cui non avrebbe mai cessato di polemizzare. Coerentemente, avrebbe invece osservato con curiosità e simpatia i movimenti di protesta a cavallo fra i Sessanta e i Settanta. L’osservazione del sociale, sosteneva infatti, non può prescindere da un’opzione valoriale: bisogna scegliere da che parte stare sapendo però che solo il rigore scientifico può conferire legittimità e capacità persuasiva alle nostre ragioni. “Conoscere per agire” vuol dire sporcarsi metaforicamente le mani e non rinchiudersi nella torre d’avorio di un sapere sempre più capace di descrivere il mutamento ma sempre meno in grado di spiegarlo.
Ferrarotti contestava soprattutto l’uso e l’abuso della nozione di complessità del sociale. Considerava la società tutt’altro che complicata da analizzare sostenendo che allo scopo bastasse indagare come produce e perpetua il potere. Per farlo occorre però fare appello alla storia e chiedere aiuto alle discipline dell’uomo arbitrariamente separate dallo scientismo positivistico. Non si dà perciò autentica sociologia senza interrogare la storia – e con essa l’economia e il diritto – e senza rimuovere i confini con la psicologia sociale e l’antropologia culturale.

Questa visione, insisteva, non è banalmente interdisciplinare e non va ridotta all’opera del rilegatore che assembla in un solo volume contributi eterogenei senza costringerli a “contaminarsi”. Quello che serve, diceva, è un approccio transdisciplinare, fatto di discipline che dialogano fra loro producendo nuove sintesi. Ciò avrebbe rappresentato l’approdo del percorso intrapreso in anni lontani da Vilfredo Pareto (1848-1923) e Achille Loria (1857-1943). Quei dimenticati pionieri rappresentavano per Ferrarotti dei protosociologi che avrebbero potuto fare dell’Italia, a cavallo fra Ottocento e Novecento, un avamposto della nascente ricerca sociale. A vanificare le loro intuizioni, soffocando in culla la nascente sociologia italiana, avrebbe provveduto il regime fascista, timoroso che studiosi non asserviti ficcassero il naso nei meccanismi di produzione del potere e di riproduzione delle disuguaglianze. Ferrarotti ricordava in proposito come il fascismo avesse addirittura tentato di appropriarsi, manipolandole, di alcuni intuizioni di Pareto e come negli anni Cinquanta, Benedetto Croce e le cariatidi dell’idealismo avessero ingaggiato una battaglia senza esclusione di colpi contro quella “americanata” della ricerca sociale. Si comprende meglio in questa prospettiva il significato anche simbolico e polemico che avrebbe rivestito nel secondo dopoguerra il ritorno della sociologia italiana nella patria che l’aveva rinnegata.
Chiamato ancora giovanissimo a ricoprire la prima cattedra universitaria in Sociologia, Ferrarotti aveva negli stessi anni dato vita, insieme a un imprenditore visionario come Adriano Olivetti, al movimento Comunità orientato a promuovere una sorta di alleanza in chiave progressista fra ceti popolari, capitalismo illuminato e intellighentsia antifascista. La stagione della militanza rappresentò una preziosa opportunità di osservazione partecipante attraverso l’esperienza parlamentare (1959-1963). Nella stessa stagione vede la luce la Critica sociologica, la prima rivista del settore pubblicata in Italia. L’insegnamento accademico, la ricerca sul campo, l’attività pubblicistica e una sterminata produzione editoriale avrebbero concorso via via a indagare un intero sistema sociale, il suo ordine e il suo disordine, i suoi fermenti e le sue miserie. Più che di descrivere si trattava ancora una volta di conoscere per agire senza recintare territori o erigere gabbie disciplinari. La sociologia, sosteneva, è una perenne incompiuta ed è condannata a una contraddizione insolubile. Vuole e deve esercitare un ruolo pubblico ma non può rinnegare sé stessa rinunciando a prendere posizione quando occorra schierarsi. E nemmeno può abdicare alla propria vocazione critica senza smarrire la propria identità. Non può perciò sorprendere che le vestali dell’idealismo, gli ectoplasmi dello spiritualismo e persino i seguaci di un marxismo dogmatico abbiano guardato a lungo con sospetto a quella che Croce aveva chiamato l’inferma scienza. Non per caso, d’altronde, le prime “ricerche romane” erano state condotte, fra i Settanta e i Novanta, nelle borgate di una periferia dimenticata. Ancora prima, nel fatidico 1968, era stato pubblicato quel Trattato di sociologia che rappresenterà per generazioni di studenti e ricercatori il primo viatico alla ricerca sociale.
Nel 1970 Roma da capitale a periferia avrebbe descritto le trasformazioni della condizione metropolitana inaugurando un itinerario che, nell’arco di mezzo secolo, avrebbe indagato con strumenti innovativi le trasformazioni urbane e le loro contraddizioni. Sempre attento all’attualità e pronto a carpirne gli stimoli già anni prima, nella stagione del terrorismo, lo sguardo del sociologo aveva perlustrato con lucidità l’inquietante nostalgia dei fascismi e il ritorno di una violenza del tutto estranea alle ragioni della protesta civile e della stessa contestazione politica.
Fra i Settanta e gli Ottanta (Alle radici della violenza è del 1977 e tre anni dopo sarà pubblicata L’ipnosi della violenza) Ferrarotti avrebbe invece sviluppato l’analisi di quel male oscuro che pareva insinuarsi nelle pieghe della “modernizzazione spuria” dell’Italia postbellica. Il malessere metropolitano e tutte le sue contraddizioni andavano indagati, diceva, con l’umiltà del pellerossa che posa l’orecchio al suolo per captare ciò che si muove prima che lo sguardo possa percepirlo. Allo scopo era però necessario aggiornare gli strumenti. La stagione delle storie di vita e dell’indagine biografica segnerà in questa direzione un passaggio cruciale inaugurando un approccio che ritroveremo anni dopo nell’attenzione riservata all’emergente questione migratoria. Problematica, quest’ultima, che la lente della ricerca sociale è chiamata a mettere a fuoco ridisegnando il profilo di un Paese di antica emigrazione trasformatosi in pochi anni in un terminale delle nuove dinamiche migratorie.
A uno sguardo d’insieme è impossibile riassumere una produzione scientifica fluviale, sollecitata dalla cronaca quotidiana e sempre animata da una sincera indignazione etica per le ipocrisie, i silenzi, le finzioni e le mezze verità del potere. Nel cuore, confessava, Ferrarotti era però rimasto il giovane anarchico della sua militanza giovanile, il polemista irriguardoso, l’esploratore del disagio sociale attento alle ragioni dei dimenticati. Sempre più spesso, negli ultimi tempi, manifestava l’esigenza e l’urgenza di produrre saperi capaci di dialogare e di proporre riflessioni inedite, libere da vecchi pregiudizi e da nuovi stereotipi. Nelle ultime conversazioni che abbiamo avuto nei locali di Corso Trieste, sommersi dai libri e da disordinatissime cataste di pubblicazioni, si era concesso una riflessione più filosofica che propriamente sociologica. Il sociologo, spiegava, non deve cercare scorciatoie: è condannato a vivere l’inquietudine della scoperta se vuole scrutare orizzonti inesplorati. Ha bisogno di curiosità, di fatica e qualche volta di solitudine. Non deve rinchiudersi nei recinti dell’accademia bensì rivendicare senza infingimenti l’ispirazione politica, nell’accezione etimologica di discorso pubblico, della ricerca sociale. La sociologia critica è tale – sosteneva – solo se non si accontenta di interrogare la storia, la filosofia, il pensiero dell’humanitas e di cumularne i saperi. Deve farli dialogare, quei saperi, ridisegnandone continuamente o addirittura cancellandone i confini.
Forse, aggiungeva, la sociologia che abbiamo ereditato dall’Ottocento e che ha cercato di spiegare il Novecento, ha esaurito la propria missione. È giunta al capolinea, ma non sono venute meno le ragioni che l’avevano ispirata e che ne hanno fatto una delle possibili chiavi di lettura anche della tarda modernità. Per non tradire la propria missione, la sociologia deve allora saper andare oltre la sociologia. Quello che Ferrarotti ci consegna, insomma, è un messaggio che ci interroga e insieme ci indica una strada da percorrere. Sperando di essere all’altezza della sua fiducia, anche di questo dobbiamo ringraziarlo.
NICOLA R. PORRO

Congratulazioni per il tuo ruolo di direzione della “Critica sociologica”.
Felice per la mia lontana tesi di laurea sul “Potere” nel solco delle innovazioni sociologiche di Franco Ferrarotti.
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Bellissimo ricordo del professor Franco Ferrarotti, costellato di avvenimenti che hanno segnato, significativamente, la vita dell’uomo, del docente universitario e dell’intellettuale. Grazie per aver ripercorso episodi e fatti altrettanto significativi per noi e per la nostra vita.
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