Come eravamo. La vigilia de “ i morti”
di MARIA ZENO ♦
In questi giorni in cui assistiamo nelle nostre strade alla presenza di streghe, zombie, stregoni e zucche vuote/piene di ogni età, prepotente si affaccia alla mia mente un vivido ricordo dell’infanzia: la notte dei morti, ovvero la notte fra il 1 e il 2 novembre, caratterizzata dall’attesa della visita dei defunti e dalla scoperta, al mattino, del sacchetto con le fave da morto, come le chiamiamo a Civitavecchia.
Si tratta di un ricordo in cui prepotente è la memoria olfattiva, stimolata dall’ odorino amaro delle fave (non saprei descrivere meglio quest’odore, quindi rubo l’espressione dal prunalbo di Novembre di Giovanni Pascoli).
Ricordo che pescavo nel sacchetto alla ricerca della fava ricca, quella di pasta reale, a ben vedere anticipazione del Natale, in genere verde, rosa, gialla con un sottile filetto marrone sulla chiusura del dolce; non so se qualche pasticcere ancora la confezioni, ma quando io ero bambina era una presenza obbligata, un tocco di dolcezza e di colore all’interno del sacchetto abitato da fave marroni e dal sapore prevalentemente amarognolo dato delle (poche) mandorle amare obbligatorie nell’impasto.
Già: un bel simbolo a ben vedere. Dolce e amaro che si mescolano, colore festoso e colore spento insieme, il festoso da cercare, quello spento prevalente… come la vita, un insieme di gioie e dolori, le gioie di cui spesso non ci si accorge, ci si passa attraverso, e i dolori in cui si cade e del cui perdurare ci accorgiamo, eccome!
La notte dei morti era una delle poche notti di attesa, nella nostra mitologia di fanciulli, l’altra, altrettanto misteriosa, era quella dell’Epifania, dove il bel significato etimologico dell’apparizione viene storpiato nell’affettuoso, popolare “Befana “.
In entrambi i casi, ad incaricarsi di fare felici i bambini con un dolce sono quelli che la vita considera vinti: una vecchia brutta e malvestita nel caso della Befana, coloro che non sono più nel caso dei morti.
Nel caso dei defunti, ricordo che per lo più, essendo molto piccola all’epoca dell’attesa, quelli da cui ricevevo in dono le fave erano persone che non avevo conosciuto, mi chiedevo perché si prendessero la briga di portarmi le fave e mia madre rispondeva che volevano bene ai bambini, erano i morti di tutti, che per una notte venivano di nuovo sulla terra.
Queste presenze / assenze ci sfioravano senza spaventarci e ci lasciavano in dono un ricordo e un pezzo di vita: un insieme di dolcetti dolci e amari, croccanti e morbidi, colorati e “smorti”.
E io ricordo ancora il misto di paura e speranza che popolava quella magica notte di bambina.
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Un suggerimento:
Una suggestiva lettura, per questa ricorrenza è “Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I racconti quotidiani di Andrea Camilleri (Mondadori, 2008, pp. 103 )
MARIA ZENO

Anche da noi in Sicilia era lo stesso ma i morti portavano i “pupi di zucchero “ che erano i paladini a cavallo tutti di zucchero; chiaramente non si mangiavano e li tenevi esposti su una mensola a squagliarsi poi all’arrivo del caldo estivo che da noi in Sicilia era precoce, allora li vedevi cambiare forma a poco a poco e il colore macchiare la mensola; poi a fine settembre, come se avessero esaurito la loro funzione protettiva, li buttavi in attesa della successiva “notte dei morti”.
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a proposito di Sicilia, ecco un link allo scritto che ho citato di Camilleri, poetico e bello:
https://www.agi.it/cultura/news/2016-11-01/il_giorno_dei_morti_raccontato_da_andrea_camilleri-1210972/
Maria Zeno
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Una ancestrale tradizione che ancora rispetto mettendo le fave da morto sotto il cuscino dei miei quattro nipotini , con quel tocco di dolce della pasta reale.
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confesso: alla mia “diversamente verde” età mia madre aspetta che io lasci il letto in favore della doccia per mettere sul cuscino il sacchetto di fave…che mi premuro di comprare io, insomma una specie di partita-di-giro, direbbe un Ragioniere
Maria Zeno
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Haec ego mitto, his redimo meque meosque fabis. Il Pater, l’ultimo giorno dei Lemuria, si leva nel cuore della notte. Ogni cosa tace. Da solo, a piedi scalzi per assorbire la potenza della Terra Madre, scrocchia con le dita del pollice e del medio. L’ombra soffice, vaga, tremula del defunto si scosta e più non lo para innanzi. Le mani lava per tre volte acquisendo purezza. Ha alle spalle la porta di ingresso. Si pone nella bocca tre, quattro nere fave. Poi le getta dietro di sè senza mai voltarsi. Pronuncia il riscatto per sè e per i suoi. L’ombra della Larva del dii Parentes, dunque del Lemure, è ghiotto di quel cibo. Placato il Lemure lo invitava ad uscire: Manes exite paterni. Solo ora voltandosi constatava la loro assenza
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Caro Carlo, mi fai tornare in mente anche i divieti di Pitagora nei confronti della fave, da cui ordinava ai suoi allievi/discepoli di astenersi.
E li inseriva fra i cibi che inducono sogni nefasti…il che è anche vero, sono difficilmente digeribili!
Grazie del tuo bellissimo commento
Maria Zeno
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