IL PROFUMO DEI TIGLI

di CLAUDIA SFILLI ♦

 Insonnia, maledetta insonnia, odiosa nemica, persecuzione silenziosa della mia esistenza.  Hai cominciato quando ero ancora una ragazza: ti infilavi nel mio letto per descrivermi tutti i pericoli e gli ostacoli che avrei incontrato il giorno dopo e i fallimenti che avrei dovuto affrontare nella vita. Me li sussurravi all’orecchio, con cattiveria. Già allora, quando avrei dovuto sognare divertimenti, successi, conquiste, mi venivi a domandare “ma che senso ha tutto quello che fai? Tanto poi muori…”. E io sopportavo quella tortura, incapace di cacciarti via, e ho continuato ad accettarti passivamente per tanti, tanti anni. Quando mi coricavo, aspettavi con pazienza che terminassi la mia lettura notturna, mi guardavi sonnecchiare sulle ultime righe prima di riporre il libro e, dopo il click dell’interruttore, arrivavi con il buio. Riprendere a leggere, come tutti mi consigliavano, non serviva a nulla: tu mi rubavi la mente.

Ho viaggiato tanto e mi hai seguito ovunque, fedelmente. La tua cura a non mancare mai nelle mie notti e quel tuo stringermi il corpo in una specie di abbraccio voluttuoso…  ah! Era tutto così intimo, così profondo fra noi, che a volte penso che il tuo sia stato amore e che anch’io, in qualche modo, ti abbia amata, tant’è che, nel percepire l’arrivo del sonno, le rare volte in cui accadeva, sono venuta io a cercarti nei vicoli oscuri dei brutti pensieri.

Per colpa tua la mia pelle era più sciupata di quanto avrebbe dovuto essere e quegli sgradevoli segni sotto gli occhi che un po’ alla volta il tempo regala a tutti, in me erano più evidenti. E poi ero sempre nervosa e dovevo combattere non poco per evitare di scaricare sugli altri il mio cattivo umore, come vedevo fare troppo spesso intorno a me, in modo davvero ignobile.

Mi stavo quasi rassegnando a vivere con te, metabolizzando il disagio che mi davi e i relativi danni fisici, stavi vincendo tu, insomma, ma poi…

Una volta hai davvero esagerato. Mi hai punzecchiato braccia e gambe obbligandomi a muovermi come una forsennata per ore e ore, hai infierito con una ferocia che… no, non era sopportabile. Mi hai parlato dell’età che avanza. Ti rendi conto? Mi hai chiesto cosa potevo aspettarmi ancora dalla vita… a cinquant’anni! Continuavi a chiedermi di tirare le somme di quanto avevo vissuto, e nel silenzio assoluto ti ho sentita ridacchiare, in attesa della risposta che non avevo il coraggio di darmi. No, cara mia, quella notte hai davvero esagerato. Hai preso uno a uno i miei piccoli programmi per il futuro e con un soffio… fffff… hai eliminato ogni minimo residuo di illusione. Hai tolto i colori dai miei ricordi e, in quel misero mondo in bianco e nero che era rimasto, mi hai chiesto di collocare Leo. Leo, che quattro mesi prima era venuto ad abitare nell’appartamento difronte al mio, grazie a un destino che finalmente era sembrato benevolo nei miei confronti. Ci siamo piaciuti subito, Leo e io. Le cose stavano procedendo bene, ma tu… tu hai cominciato a insinuare il dubbio che forse dietro ai suoi modi gentili, dietro al suo bel sorriso, si poteva nascondere una realtà ben diversa. Mi hai detto che intelligenza, bellezza e simpatia non possono coesistere in una persona e non dovevo farmi troppe illusioni. Mi stavi distruggendo Leo e io stavo quasi per crederti, ma… no, questo era davvero troppo.

Faceva caldo. La tua voce sottile mi diceva che eri tu la mia compagna e che Leo avrebbe dovuto scontrarsi con te. Mi diceva che eri pronta ad aumentare la tua morsa e allora… allora l’ho fatto. Sono scesa dal letto, mi sono vestita senza nemmeno accendere la luce, e sono uscita di casa. Ho chiuso la porta a tre mandate per impedirti di seguirmi e me ne sono andata. Erano le due.

Tu eri rimasta nella mia stanza, fra le lenzuola calde e mi sono trovata sola, nella città addormentata. Ero sveglia, non insonne.

L’aria era fresca e i tigli ai lati della strada emanavano il loro intenso profumo; l’ho respirato a pieni polmoni e ho sentito che cominciavo a stare meglio.

Fra le vie deserte, il rumore dei miei passi a momenti si confondeva con quello del motore di una macchina o di un motorino. Dopo aver vagato un po’ mi sono fermata sui gradini del duomo. Qualcuno si era disteso davanti al portone d’entrata. Dormiva lì. Riuscivo a vedere sul suo viso un incredibile sorriso. Più in là, sulle panchine di un piccolo spazio verde, c’erano altre persone che dormivano… anzi no, non dormivano: parlavano e ridevano.

In quel mondo quieto, tutto era diverso. Delle paure, dei rimorsi, dei rancori e dei mille dubbi chiusi a chiave nel mio appartamento non sentivo più il peso. Guardavo la vita e la vedevo così com’è veramente. Non più una battaglia infinita per vincere la sofferenza. No. La sofferenza non si vince! È dentro le maglie stesse della vita, scorre in noi, come il sangue nelle vene. Perché rovinarsi l’esistenza cercando un’impossibile pace con il mondo?

Ho ripreso a camminare.

I pensieri ora avevano cambiato direzione e volavano alti. Raggiungevano i ricordi più lontani in cui amori, affetti, e una marea di parole buone, cattive o taciute mi avevano tolto il respiro, e li rendevano finalmente passato.

Era come stare su una roccia in cima a un monte e gustare il nuovo volto del mondo.

Ecco allora che Leo non suscitava più dubbi e perplessità. Il mio vicino di casa era davvero bello, intelligente e simpatico ed ero fortunata ad averlo incontrato. Fra noi stava per nascere una storia: punto. E poi presto i miei problemi finanziari si sarebbero risolti grazie a quel progetto che stava andando in porto; perché mai non avrebbe dovuto funzionare? Anche la mia salute andava bene, come no? In fondo lamentarsi dei dolori alla cervicale o del mal di schiena a un certo punto della vita è come lamentarsi di avere fame a mezzogiorno. Il percorso fin lì fatto era tutto sommato positivo. Sì, positivo. I risultati soddisfacenti c’erano e bastavano: i dispiaceri e le sconfitte non li oscuravano.

La mia era una bella vita, insomma, e non c’era motivo di non sperare che andasse avanti così.

Avevo camminato per più di un’ora nel silenzio di quella notte speciale. Dalle finestre, spalancate per ricevere un po’ di frescura, arrivavano i suoni della vita: il russare di qualcuno, un pianto di neonato, le grida di una lite trattenuta a stento. Un lamento, poi, per chissà quale dolore. Poi ecco il grande edificio del carcere con le sue squallide luci al neon sempre accese, dove la notte non significa riposo.

Era giunta l’ora di tornare a casa.

Ho aperto la porta. La paura di trovare la solita pena notturna ad aspettarmi c’era, sì, ma il profumo dei tigli e tutto quello che avevo vissuto durante quella passeggiata erano entrati profondamente in me: mi facevano sentire forte. Ero forte. Sono andata in cucina, ho bevuto un bicchiere di acqua e ho sorriso. Sorridere fa bene allo spirito, come un esercizio con i bilancieri fa bene alle braccia. E ho continuato a sorridere. Era così che dovevo tornare in camera.

Il letto aveva ancora i segni della mia sofferenza: le lenzuola buttate in un angolo, il cuscino di traverso. Ho provato pena per quella persona che lì aveva lottato con sé stessa.

Ho dato una veloce riassettata, allora, e mi sono coricata. Sentivo forte il pericolo che tu scivolassi accanto a me e mi rimproverassi della mia fuga insensata, ma la mente, invece di abbandonarsi a quella paura, è subito andata altrove. Non so come, ma ce l’ha fatta.

In un attimo mi sono addormentata.

CLAUDIA SFILLI

CLICK PER HOMEPAGE