L’OCCIDENTE E LE DEMOCRAZIE DEL MALESSERE
di NICOLA R. PORRO ♦
Più che indignare, lo spettacolo stringe il cuore. Vedere un gruppo di adolescenti sfilare inneggiando alla causa palestinese e issare al contempo un cartello che definisce Liliana Segre “agente sionista” è uno spettacolo che suscita sconcerto prima che indignazione. Eppure quei ragazzi sono i nostri figli, nipoti o allievi. Non possiamo liquidare la faccenda con un metaforico buffetto e un indulgente “so’ ragazzi”… No, non questa volta. Domandiamoci piuttosto quale significato essi attribuiscano alla parola democrazia, forse la più abusata del vocabolario. Interroghiamoci sulla qualità e la serietà della formazione loro impartita se, anziché educare allo spirito critico e invogliare alla conoscenza, riduce a slogan questioni complesse e degrada la militanza a tifoseria. È una filosofia da curva calcistica: noi e loro. Sostenere le sacrosante ragioni dei palestinesi autorizza forse a fare di Liliana Segre – reduce di Auschwitz e limpida figura di antifascista – una “agente sionista”? Quale sarà il prossimo passo: riabilitare i forni crematori nazisti che ripulivano il mondo dai figli di Giuda? Non è una scusante il fatto che di queste cose non parlino le chat “antagonistiche” voracemente frequentate dai nostri eroi. Inquieta invece constatare che evidentemente non ne parlano nemmeno molti dei loro professori. In tempi lontani ho insegnato per un paio d’anni in un liceo e ricordo le chiacchierate di fine corso con i colleghi. Manco uno che avesse completato il programma di Storia. Però ammiccavano tranquilli: ti pare che agli esami lo bocciano perché è insufficiente in Storia? Altro che magistra vitae: la Storia continua a rappresentare un optional nei programmi ministeriali. Una materia fatta di chiacchiere, una perdita di tempo. Meglio occuparsi di cose più importanti: l’aoristo, le cotangenti, gli aminoacidi…

Purtroppo, però, la conoscenza della Storia è ancora l’unico antidoto all’orrore che abbiamo a disposizione. Un filosofo del XVIII secolo, Edmund Burke, ammoniva che “chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla”. Quelle parole, nella versione proposta da George Santayana – ”chi non ricorda il passato si condanna a riviverlo” – campeggiano oggi all’ingresso di quello che fu il campo di sterminio di Dachau. La Storia, tuttavia, non ci consegna un modello univoco e universale di sistema politico. Ci sottrae però a ogni determinismo, ci insegna a dubitare. Come Socrate sappiamo di non sapere ma Platone ci sollecita anche a immaginare la nostra Repubblica. E Bacone, riabilitando il valore dell’utopia, prova addirittura a tracciare la mappa di una nuova Atlantide. Anche il pensiero democratico allo stato nascente, d’altronde, si è nutrito di utopie fantasiose che in qualche caso hanno alimentato ideologie aberranti. La democrazia non è dunque una panacea per tutti i mali ma rappresenta il solo strumento che l’umanità abbia elaborato nel corso millenario della civilizzazione per consentirci di convivere nella dantesca ’”aiuola che ci fa tanto feroci”. Pur viziata da una quantità di limiti, contraddizioni e persino difetti – argomento privilegiato delle narrazioni di ogni totalitarismo – la democrazia rimane insomma il sistema migliore (o il meno peggio) fra tutti quelli che l’umanità abbia sperimentato nel corso dei secoli. Più volte ha subito attacchi che non provenivano solo da nostalgici dell’assolutismo o da dichiarati reazionari, ma anche da studiosi progressisti preoccupati della fragilità che discenderebbe dalla complicata architettura del sistema democratico. Alla sua vera o presunta complessità venivano opposte la semplicità, la celerità e la presunta efficacia dei regimi autoritari. Non mi riferisco soltanto ai teorici dei totalitarismi di ogni colore: la necessità di “ridurre la complessità del sociale” ha costituito a lungo, negli ultimi decenni del Novecento, un tema ricorrente della politologia europea. [1] L’insoddisfazione per i limiti e le vere o presunte fragilità dell’ordine democratico rappresenta d’altronde un sentimento diffuso e trasversale anche nella più vasta opinione pubblica. Accomuna la vecchia destra qualunquista, le nostalgie fascistoidi sopravvissute al fallimento dei totalitarismi e gli spacciatori di massimalismo a buon mercato. Spesso si tratta del riaffiorare di latenze subculturali prive di sostanza che tuttavia segnalano un malessere pronto a convertirsi in rabbia sociale. Non si tratta, insomma, di umori volatili bensì di segnali da non sottovalutare e da analizzare con gli strumenti propri della ricerca.

Inutile nasconderci la verità: la democrazia – intesa come visione del mondo e non solo come sistema istituzionale – è oggetto già da qualche decennio di un attacco su più fronti. Vale per l’ordine internazionale come per quello interno ai singoli Paesi e rischia di erodere la legittimazione stessa di molti regimi democratici. Forme di disimpegno civile sono testimoniate dal crescente astensionismo elettorale e, specularmente, dall’avanzata elettorale delle destre radicali. La democrazia sembra un’istituzione paralizzata, ripiegata su sé stessa, incapace di difendersi. Priva inoltre di un blocco sociale simile a quello che la sostenne, pur fra mille contraddizioni, negli anni a cavallo fra i Sessanta e i Settanta. All’epoca un robusto movimento operaio e combattive avanguardie giovanili seppero fare fronte comune. Il movimento sindacale rimane oggi in Italia un pilastro democratico ma è privo del protagonismo politico e della capacità di mobilitazione di allora. Gli stessi movimenti giovanili non posseggono certo il ruolo di avanguardia culturale e di attore sociale ricoperto dalla generazione dei padri nella stagione del ciclo di protesta e delle minacce eversive. Non dobbiamo però cedere allo sconforto o contrapporre ritualmente, come in un vecchio leitmotiv, l’ottimismo della volontà al pessimismo della ragione. La democrazia occidentale è certamente sotto attacco, ma il suo destino non è segnato. Già nei primi decenni del dopoguerra, dopo aver sconfitto i totalitarismi fascisti, seppe far fronte alla minaccia staliniana. Nel 1990, quando Saddam Hussein invase il Kuwait minacciando gli equilibri internazionali, le democrazie non vacillarono e seppero rispondere. Prima di allora leader occidentali di formazione democratica ma di assai diversi orientamenti ideologici – da Churchill a Roosevelt sino a Kennedy e De Gaulle – furono all’altezza delle sfide del loro tempo, talvolta contrastando gli umori prevalenti nell’opinione pubblica dei propri Paesi.

La Storia – quella con la esse maiuscola – insegna che, sul lungo periodo, le democrazie sono più forti sia delle dittature sia delle offensive terroristiche. I colonnelli greci, pur disponendo del monopolio della forza, non riuscirono a governare più di sette anni. Da noi il terrorismo nero e le brigate rosse condussero un’offensiva protratta contro l’ordine democratico ma persero miseramente la partita. Ciò dimostra come la democrazia finisca quasi sempre per prevalere, ma questo non basta: le sue istituzioni non dovrebbero mai essere costrette a combattere battaglie del genere.Per prevenirle occorre forse sfidare due pericolosi luoghi comuni della politologia. Il primo, ispirato all’economicismo anglosassone, riduce la democrazia alle logiche che presiedono al suo funzionamento con il risultato di ridurla a una specie del genere mercato politico. Il secondo, specularmente, la identifica tout court come una delle possibili arene del potere, dove si consuma il conflitto schmittiano amico-nemico e ci si contende il diritto di decidere dello stato d’eccezione. Non è questa sede per ricostruire adeguatamente l’intricato panorama della questione. Basti segnalare quanto appaia problematico ridurre la democrazia tanto a un ruolo ancillare dell’economia quanto a una variabile funzionale del gioco del potere, scomodando disinvoltamente di volta in volta, secondo le convenienze, Luhmann o la teoria dei giochi.

Politiche efficaci hanno in ogni caso bisogno di leadership efficaci, animate da convinzioni salde ed eticamente motivate. La crisi di ruolo e di identità che l’Occidente sembra attraversare, al di là delle banalizzazioni giornalistiche, non incoraggia l’ottimismo. Non di rado, ad esempio, il ruolo cruciale delle leadership è surrogato dalla (pur importante) capacità di comunicazione mediatica dei leader e della loro propaganda: un territorio strategico che è stato radicalmente trasformato prima dalla rivoluzione informatica e poi da quella telematica. Con il rischio di ridurre a tecnologia del consenso le risposte a nuove e vecchie domande. Occorre invece affermare una pedagogia civica, definendo l’idea di civiltà e di progresso cui vogliono ispirarsi le democrazie occidentali e l’Italia fra queste. Riflettendo magari con la dovuta preoccupazione sulle parole rivolte dal leader cinese Xi Jinping all’amico Putin nel marzo 2023: «Sono in corso cambiamenti che non si sono visti per cento anni e noi siamo coloro che assieme guidano questi cambiamenti». Ha ragione Xi? Spetta a lui, all’amico Putin e alla galassia di dittatorelli che da loro prendono ordini, decidere i destini delle nostre democrazie?
NICOLA R. PORRO

se non si comprende il valore della storia non si comprenderà neppure quello della vita. Deprimente sapere che dei professori si comportino al pari di studenti che collezionano bocciature consecutive, Hanno sbagliato mestiere avrebbero potuto lasciare il posto a chi nella propria materia ci crede e la divulga il meglio possibile. Nei comportamenti riprovevoli dei ragazzi concorre anche la famiglia, perchè l’educazione inizia dai genitori che non dovrebbero preoccuparsi solo di alimentazione abbigliamento e capricci vari, ma dialogare e consigliare, pretendere attenzione e suscitare interessi, che non siano solo di seguire uno sport
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A volte , Nicola, sono portato a pensare che i nostri ragazzi facciano una scelta estetica più che politica. La kefiah palestinese, che va di moda fra i giovani da decenni, è molto più attraente dello shtreimel o del peòt ebraico; e francamente lo è. Affascinava di più, d’altronde, la famosa foto del Che che le austere facce dei burocrati del pcus.
Anche i nazisti avevano capito benissimo-lo spiega Hitler nel Mein Kampf- quanto il fattore estetico avesse più capacità di coinvolgimento per i giovani di qualsiasi programma politico. E Goebbels applicò efficacemente questo principio.
Gli slogan, quando funzionano (il “dal fiume al mare” ripetuto nei college americani) prevalgono sulla conoscenza storica.
Non dimentichiamo poi l’acuta osservazione di Pasolini sull’assoluta casualità di scelte di campo: dipendono da quale bar si frequenta, altro che coscienza di classe..
Ettore
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Credo che il problema delle democrazie odierne sia legato all’incapacità di coinvolgere i cittadini; la metà della popolazione non vota perché lo ritiene inutile e pensa che tanto destra o sinistra sono la stessa cosa. Un poco di verità in questo forse c’è nel senso che non si ravvisano spesso politiche e scelte tali da imprimere alle nostre vite reali cambiamenti. Essendo per natura una pessimista, diciamo che non vedo un gran futuro per l’Occidente.
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Cari amici, l’Occidente è un dramma! Ma nonostante il pessimismo che la ragione suggerisce è un dovere dell’animo difenderlo per un banale asserto: è il minore dei mali in circolazione sul mercato della mercanzia umanoide oggi esistente
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Una delle questioni, pensando su un orizzonte globale, è che l’idea di democrazia che abbiamo noi “occidentali”, europei, o come vogliamo definirci (un sistema certo sempre perfettibile, se non addirittura messa in discussione da populismi et alia, ma che reputiamo senza dubbio “il meno peggiore”), non è affatto la stessa che si ha in gran parte del mondo. Intendo dire che noi siamo portati a pensare che laddove democrazia non c’è, allora in quel paese ci deve essere per forza qualcosa che non va, o c’era ma l’hanno tradita, o sicuramente governa qualcuno che opprime il popolo, o che non accetta il nostro modello (come osa?!), ma la realtà è che noi veniamo da un cammino storico che ci ha portati a una determinata visione, mentre altrove (scil. la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) la democrazia non è affatto una parola imprescindibile, non foss’altro che per la ragione (ad esempio) che molti stati non hanno mai vissuto momenti di democrazia vera nella loro storia, e che dunque non percepiscono affatto l’autocrazia, il monopartitismo, la durata sine die di un presidente in carica, come oppressione, bensì come sicurezza, come realtà normale delle cose. Ps: senza contare quanto negativa sia l’accezione in cui “democrazia” viene intesa grazie a certe disastrose iniziative occidentali di esportazione della stessa…
Michele
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