RUBRICA BENI COMUNI, 84. QUANDO L’ARTE ERA THÈIA MÒIRA. UN PRETESTO PER DIVAGARE E PARLAR D’ALTRO
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
Al liceo, con la mia classe di cui ho parlato qualche puntata fa, il nostro professore di greco, Raffaele Rienzo, ci fece tradurre tra l’altro Le Eumenidi, tragedia di Eschilo, e il dialogo Ione di Platone. Ricordo bene alcuni brani sia dell’una sia dell’altro e così pure, ogni tanto, mi frullano in capo certi versi, come (non giuro sulla correttezza della traslitterazione) «en dorì men mòi màza memagmène, en dorì d’oìkos ismaricòs, pìno d’en dorì keklimènos», immaginando ancora la scomodità di bere appoggiato, ripiegato, sulla lancia, ma quello era il mestieraccio del soldato, secondo Rienzo. Mentre invece adesso leggo su Wikipedia che il termine δόρυ si può anche tradurre con ‘legno’ e, per estensione, con ‘nave’, meno scomoda a berci sopra e quindi il senso del frammento di Archiloco cambia un po’.
Quanto al dialogo in cui Platone fa discutere Socrate con il rapsodo efesino Ione, allo scopo di dimostrargli e convincerlo che la sua attività, come la stessa poesia, non derivano dalla conoscenza (thècne), ma sono frutto di “ispirazione divina”, thèia mòira (θείᾳ μοίρᾳ) appunto. Su questa “ispirazione”, che mi aveva colpito per certe mie elucubrazioni del tempo, ricordo d’aver scritto un tema di italiano (il professore era Aurelio Alciati, penso) di cui non rammento lo svolgimento e che non ho più ritrovato tra i ricordi liceali, e di esserci tornato sopra diverse volte, in vari scritti.
Credo (e già questa parola è significativa) che all’origine delle manifestazioni in cui alla soluzione di esigenze funzionali e pratiche si sovrapponga “un di più”, un senso di altra natura, la soddisfazione d’un “gusto” (del tipo “buono, bello”) si possa ritrovare una derivazione da istanze “immateriali” riferite in diversa misura al sentimento “spirituale”, “religioso”, o comunque vogliamo chiamare quell’insieme di credenze, fantasie, invenzioni e deduzioni, timori e speranze, su cui l’umanità ha immaginato un mondo sovrannaturale in risposta alle proprie domande esistenziali, di rimedio alle proprie paure e di conforto alle aspirazioni, di soluzione ai problemi insolubili con i mezzi normali della quotidianità. Discorso non facile da esporre, in cui mi avventuro a tentoni.
Per abbreviare il percorso e rifarmi semplicemente al titolo della puntata, si può dire che l’arte era, sia stata, sia ancora, a volte, «ispirazione divina». Nuotando in rete senza particolari accorgimenti (“navigare” presume altri mezzi di spostamento), mi sono imbattuto nel blog di Vittorio Casale, laureato e insegnante di Storia e Filosofia, con un titolo che mi ha incuriosito e attirato: «La religione nell’arte». Ne ho preso qualche frase, senza attingere a fonti più celebri e altisonanti, dato che riportava anche dei riferimenti ad un dibattito in cui erano intervenuti studiosi ed esperti di chiara fama, tra cui l’amico e collega Luca Zevi..
«Da sempre l’arte vive una profonda relazione con il sacro, forse perché le persone più facoltose della storia (come ad esempio nobiltà e clero) ottenevano consenso sociale attribuendo al loro potere una giustificazione divina, oppure per la loro capacità di suscitare empatia nelle persone, spingendole a ricercare il bene comune o dando forma alle profondità dell’animo umano.

«Possiamo così ritrovare atavici connotati religiosi nelle pitture rupestri, emblematiche fattezze divine negli oggetti sacri utilizzati dalle prime civiltà umane, o imponenti strutture sacre e funerarie, come ad esempio templi, piramidi e catacombe, pensate per rendere più sottile la distanza tra il mondo dei vivi e quello dell’oltretomba: la religione, qualsiasi essa sia, ha così influenzato l’opera di artigiani, scultori, architetti e musicisti, uomini di scienza e di fede.
«Facendo un passo avanti, la maggior parte delle religioni monoteiste del passato prevedevano il divieto di rappresentare la divinità oggetto di venerazione, e questo argomento è stato al centro del dibattito “L’Arte nel dialogo tra le Fedi” svoltosi nel 2018 presso la grande Moschea di Roma, evento di chiusura della mostra “Lo Spirituale nell’arte: Espressioni di Armonia tra le Fedi”, a cui hanno partecipato grandi esponenti religiosi di fedi differenti».
A proposito della manifestazione “L’Arte nel dialogo tra le Fedi”, Casale ripercorre sommariamente gli interventi degli esperti intervenuti nel dibattito, esponendo una interessante disamina relativa all’arte nelle religioni monoteiste: ebraismo, buddismo, islamismo e cristianesimo. Tra queste, la religione cristiana è quella che ha maggiorente contribuito – certo non senza aspetti fortemente negativi – alla diffusione di forme artistiche in continuo progresso, che hanno portato, anche attraverso movimenti e reazioni di contrasto, al pieno affermarsi dei valori di umanità e civiltà, di libertà, uguaglianza e fraternità che sono alla base delle nostre convinzioni laiche e sociali. Il blog riporta in proposito l’intervento del critico d’arte Giorgio Palumbi: «l’arte è un mezzo che spinge chi la crea e chi ne fruisce al bello. La ricerca della bellezza, nelle varie forme artistiche, comporta e produce sensibilità, bontà, altruismo…».
A voler ricostruire oggi il senso di quel mio tema di liceale, credo che le mie riflessioni di imminente iscritto alla facoltà di architettura cercassero di interpretare in modo meno letterale la thèia mòira, nella convinzione che, in generale ma particolarmente nelle nostre contrade (della penisola e isole italiche, dell’Europa e terre collegate e della civiltà greco-latina e giudaico-cristiana) le maggiori espressioni d’arte in tutti i generi delle arti e nei secoli della storia siano state ispirate ed abbiano avuto forma dalla religione e in quanto interpretazione o rappresentazione di credenze, narrazioni e personaggi di natura religiosa. In altre parole, non da fatti e persone della storia vissuta, ma da idee e figure dell’immaginario “spirituale”. Le ulteriori applicazioni artistiche in altri campi e per altri scopi sono derivazioni dalle altre e non avrebbero avuto forma e motivo senza quelle, ovvero senza la sperimentazione “trascendente” del pensiero elaborata dagli artisti nel tempo, secondo influenze geografiche, ambientali o ”culturali” di volta in volta particolari ma di uguale ascendenza.
A questo punto, a tener fede (entra sempre la fede, in qualche modo, nei nostri discorsi, perché riteniamo fondamentale la «fedeltà» alle nostre idee) del “fumetto” di copertina, devo necessariamente trovare il pretesto per divagare dall’argomento e parlare d’altro. Il pretesto è già lì. Prefabbricato e premeditato. Tanto che per questa volta non mi attardo neppure a costruire una figura ad hoc per questa puntata, ma utilizzo quella della puntata n° 76, uscita l’11 luglio, con quel titolo – Adelante, si puedes… – che esprimeva esattamente lo stato d’animo del momento. Non ci sono stati commenti di amici del Blog a quella puntata, né sono seguite molte parole, ma quelle essenziali ci sono state e anche alcune risposte rassicuranti. La processione della Macchina di Santa Rosa s’è svolta.
Nel riproporre la figura, ne ripropongo il Nota bene che l’accompagnava:
«La figura della puntata – come sempre, si parva licet componere magnis – vuole essere, nelle mie intenzioni di curatore della rubrica ed anche nella mia veste di progettista, direttore e coordinatore generale e poi di responsabile unico e commissario “ad acta” di nomina ministeriale ed interregionale dei «Programmi innovativi in ambito urbano», la «Summa teologica» illustrata dei progetti di pubblico intervento di cui la Città di Civitavecchia potrà beneficiare, se saranno utilizzati in modo rigorosamente aderente alla disposizioni approvate ed immediatamente (senza alcuna possibilità di proroga) i fondi ministeriali residui. Tra l’altro, ho anche il più che impellente desiderio di procedere, finché personalmente “in tempo”, a quel «passaggio delle consegne» che ho inutilmente sollecitato fin dalle prime settimane del 2007 – cioè al momento del mio pensionamento dopo quasi quarant’anni di direzione dei Servizi Urbanistici comunali (e altri incarichi connessi o acquisiti) – ricevendo risposte negative e incuranti, ma anche dichiarazioni ostili e offensive (era il periodo della nota gestione commissariale Iurato). Risposte che si sono ripetute, da allora, per tutti i cambi di Amministrazione intervenuti, accompagnati dall’impossibilità di operare nella sede prescritta dagli accordi – dal che il trasferimento della sede in altri ambiti e la perdita del ruolo di ente capofila per il Comune di Civitavecchia –, con gravi ostacoli alla collaborazione, tranne che per un breve periodo di utili rapporti con l’assessore Alessandro Ceccarelli, favorito dalla sinergia per il progetto della “Macchina del Tempo” proposto da Roberta Galletta, ma terminato in modo tuttora incomprensibile. Ne è derivata l’ancora non avvenuta trasmissione di informazioni e materiale – con il relativo, notevolissimo, bagaglio di esperienze e di buone pratiche – riguardante il CDU e gli atti di vario tipo raccolti dopo l’istituzione del Centro con deliberazione consiliare n° 500 del 18 novembre 1977, predisposta per il Comparto interassessorile presieduto da Alfio Insolera ed Archilde Izzi.»
Con ciò, concludo questa puntata caratterizzata da una certa “pigrizia”, cercando connessioni e spunti, con una ulteriore riproposizione, ricollegandomi all’articolo pubblicato il 12 maggio 2017 (“Obici, affreschi e altre sorprese. Dal Catajo a Civitavecchia passando da Sarajevo”), essendo nuovamente negli stessi luoghi di allora: «Oltre a permetterci di dare un filo conduttore ai nostri pensieri, questi nessi dovrebbero servire ad affrontare tutte le cose con pacata serenità e, soprattutto, scoprendone gli aspetti divertenti (occorre senso dell’umorismo ed autoironia per vederli, ma ci sono sempre). Solo così è possibile divertere (e divergere, nel caso), nella vita come in un viaggio, avere una meta scelta con cognizione e determinazione, ma saper contemporaneamente divagare, svicolare, curiosare dietro l’angolo, guardare oltre la siepe. Quando ne capita l’occasione.»
FRANCESCO CORRENTI
