SANTA FERMINA DISVELATA
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
PARTE DOVE SI NARRA LA PASSIO AMERINA
Avvenne un giorno che una ancilla dei venisse tolta dall’oblio ed illuminata sì tanto da farne devota ed imperitura memoria.
Avvenne un giorno che in una pieve umbra a poche leghe da Ameria laboriosi monaci farfensi, vantando possessi in quelle lande mettessero mano ad antichi carteggi e da quei carteggi venisse fuori la stesura di una passio ove si narrava del truce martirio della ancilla di nome Ferma. Correva un anno del Signore compreso nella seconda metà dell’XI secolo (tra il 1050 ed il 1100).
Avvenne un giorno, si diceva in quel martirologio, che la fanciulla fosse figlia di magistrato romano e che datasi al nuovo credo, felicemente regnante Diocleziano, fosse dipartita da Roma per ritirarsi ad Ameria vivendo colà secondo la santa legge di Nostro Signore.
Avvenne un giorno che il prefetto di quel luogo umbro bramasse, a motivo della nobiltà di sangue della detta fanciulla, al culto degli antichi dei farla ritornare. Oh tripudio dei cieli! Oh vanto della nostra religione! La vergine rifiutò con veemenza ed il prefetto, Olimpiade si chiamava, la minacciò di morte. Ma, nel contempo, le indirizzò sentimenti d’amore proponendole un talamo nuziale. Ma come poteva Ferma tradire lo sposo divino? Non poteva! Olimpiade perseverò ed un giorno, satollo di vino, si approssimò a lei tentando un volgare laido abbraccio. Ma tu, o giustizia divina sempre presente, colpisti il reo paralizzandogli le braccia! Ferma, allora, volse trepidante lo sguardo ai cieli ed i cieli risposero solerti, mentre il prefetto miserabilmente gridava. Chiese ella grazia e grazia fu! Olimpiade colpito dal prodigio lesto convertì scienza e coscienza al vero credo.
Avvenne un giorno che il nuovo prefetto, Megizio si chiamava, ponesse a morte l’infedele Olimpiade attraverso l’orrido instrumento detto cavalletto di ferreo aculeo dotato. Un novello santo in tal guisa guadagnava il cielo. Fu dunque la volta della misera ancilla ma il flagello che doveva straziarla non osò offendere quel corpo dal momento che il flagellatore, Ursicino si chiamava, fu colpito, ancora una volta, dalla provvidenziale paralisi. Ed una volta ancora Ferma invocò il prodigio ed il prodigio non mancò di elargire i suoi effetti. E di nuovo un novello santo preparava a se stesso la strada celeste. Giunto era alfine il momento (ahinoi!) che il sentiero del martirio spalancasse le sue orride fauci alla vergine amerina.
Avvenne dunque che la misera fosse denudata ed il corpo martoriato con pugni nella bocca e fosse da catene percossa e fosse per i capelli appesa e che fiaccole lambissero i suoi fianchi acciocché si allungasse il tormento. Tutto questo fu, fino a che la Pietà si mosse per porre il termine al penoso strazio. Con estremo coraggio, Ferma rese l’anima al suo creatore glorificando con la sua testimonianza il Cristo.
Avvenne alfine il suo seppellimento il dì 24 novembre in luogo detto Aguliano non lontano da Ameria. Correva l’’anno domini 303 d.c. Il 24 di novembre, dunque, si palesava quale dies natalis per la mirabile fanciulla, il giorno non dell’entrare in questa valle di lacrime, bensì il momento di nascere a nuova vita, quella eterna.
PARTE DOVE SI NARRA DEL RICICLAGGIO AGIOGRAFICO
Si narra che i benedettini di Farfa avessero a patir torto dal vescovo di Ameria. Costui leggendo del martirio della santa fu preso dal desio di ritrovar le sacre spoglie. Pregando con fervore l’Onnipotente questi rispose concedendo all’episcopo felice “oniromanzia” attraverso la quale la santa Ferma, sepolta nei pressi di Ameria, poté entrare una notte occultamente nella sua scena onirica palesandole le coordinate della sepoltura. Il presule amerino, rinvenute le reliquie, le depositò nella cattedrale di fronte alla quale ribolliva un tripudio di folla osannante e salmodiante. Il tutto arricchito da prodigi ulteriori che qui tralasciamo per non troppo gravare il lettore.
Si narra che i benedettini di Farfa trangugiassero un amaro boccone per via di quel colpo di mano. Ma la vendetta, come risaputo, è una pietanza da assaporare fredda e fredda fu essa gustata. Qualche decennio trascorse. Gli interessi farfensi si concentrarono sulla costa tra Corneto e Civitas Vetula. Il sale delle saline cornetane, il cornetano Porto Clementino e quello scalo portuale più a sud di traianea memoria, erano le mete ambite dal grande centro sabino. Ma come radicare, diffondere, proteggere, consolidare e poi espandere gli interessi farfensi nel nuovo territorio? Formula antica era a loro disposizione, corroborata ed arricchita nei secoli. Essa consisteva nel disporre di santi locali così da trasformare un culto popolare in qualcosa che fosse anche “funzionale” all’interesse abbaziale.
Si narra che fu la vicenda di Ferma ad essere rivisitata nella sua historia gloriosa (ciò avvenne agli inizii del 1200). Una seconda passio esibita come autentica versione dei fatti fu presto redatta. Ogni dettaglio “amerino” venne mantenuto, ogni nome, ogni atto della antica violenza. Ma non fu così per due dettagli. Diverso fu il luogo della sepoltura indicato ora nel sito della romana Centumcellae . Diverso fu il dies natalis, non il 24 novembre ma il 20 dicembre. Vendetta venne così consumata attraverso un vero spregiudicato atto di“riciclaggio agiografico”.
PARTE OVE SI NARRA DELLA PRIMA CRIPTA IN CENTUMCELLAE
Ed avvenne che Farfa acquisisse una porzione della nostra città portuale. Rimase in mano comunale l’abitato cinto dalle mura medievali. Andò ai benedettini quella metà che da tempo era quartiere degli “Agareni” che un tempo (813) avevano invaso il porto costringendo alla diaspora gli abitanti. Quel quartiere abitato da gente di origine saracena era il “Prato del Turco”con la Darsena quale approdo.
Ed avvenne che in questa porzione i farfensi, nuovi proprietari, erigessero un tempietto per custodire le sacre reliquie che erano, “di colpo”, miracolosamente apparse. Quella chiesa dotata di cripta, a ridosso della Darsena, nasceva nel luogo della “presunta sepoltura”: una cripta iuxta mare, si scrisse.
Ed avvenne che su quell’atto spregiudicato cadesse una manciata dell’ira celeste. Negli anni successivi si lesse male quella passio e al posto del 20 dicembre si errò leggendo 13 gennaio. Falsa la prima data, falsa la seconda. Per decenni e decenni e decenni quest’ultima fu la data del dies natalis della” Ferma civitavecchiese” (Camporsino deriva forse da Ursicino?).
PARTE OVE SI NARRA DELLA SECONDA CRIPTA IN CENTUMCELLAE
E fu così che la presenza di Farfa si affievolisse nel tempo. Ed i cistercensi di San Giusto in Toscanella prendessero il loro posto. Ma non fu così per il culto di Fermina: era ormai la santa del luogo!
E fu così che il porto, antica vestigia d’un tempo remoto, ridotto a miseria fosse investito dalla ventura. Nelle viscere tolfetane una pietra preziosa permise allo Stato della Chiesa di rivaleggiare con i commerci del turco. L’allume concesse al porto una insperata rinascita.
E fu così che Fermina dovette abbandonare il vecchio sito della darsena per offrire al bacino portuale degna protezione. Una novella chiesa, con annessa cripta, fu costruita nei pressi dei resti romani della caserma dei classarii.
E fu così che volendo porre a difesa il porto, ormai arricchito dei commerci dell’allume e sede della flotta pontificia, l’area antica dei classarii romani fosse scelta quale appropriata sede d’una potente fortezza.,
E fu così che la nuova chiesa della Santa, divenuta protettrice dei naviganti, fosse inglobata all’interno della fortezza in un punto in cui le mura trovano appoggio sul baluardo di sud-est.
E fu così che la cripta, detta “grotta di Santa Fermina”, fosse meta di pellegrinaggi dal momento che il suolo di calpestio fosse ambita reliquia utile alle guarigioni.
E fu così che ai cistercensi subentrarono i domenicani che assunsero controllo e gestione della Santa trasferendo le reliquie (terzo trasloco) nella loro chiesa Matrice di Santa Maria in Prima Strada.
PARTE DOVE SI NARRA IL RITROVAMENTO DELLE SPOGLIE AD AMERIA E SI PROVVEDE A DONARNE UNA PARTE A CIVITAVECCHIA
Con gaudio, tripudio e tanto clamore nel 1642 sotto l’altare della cattedrale amerina avvenne l’ evento mirabile: furono rinvenute le ossa della Santa! La giustizia divina rendeva falsa la vecchia pretesa farfense. Tuttavia, non si poteva ignorare la devozione espressa dalla città marinara. La saggezza ispirò gli amerini che spedirono una parte, seppur minima, delle “vere reliquie “. Si superava, così, in modo definitivo le pretese di chi ancora pervicacemente sosteneva essere il nostro porto il luogo del seppellimento e addirittura del martirio. Accettando quei resti Civitavecchia accettava il fatto che quelle e non altre fossero le reliquie e che il luogo della sepoltura fosse Ameria e che il luogo del supplizio fosse ancora una volta Ameria.
Con gaudio, tripudio e tanto clamore ma altresì con un certo imbarazzo il 27 aprile del 1647 giungevano ben custodite le sante “vere reliquie” in Civitavecchia.
Con gaudio, tripudio e tanto clamore accesi lumi e candele e fiaccole, al suono di tutte le campane a festa, intonando il Te Deum laudamus ed altre preghiere acconcie, si procedette ad esaminare la pisside inviata da Ameria. Un osso simile ad una nocella ed una piccola quantità di capelli e niente più. Ma ciò bastava avendo le reliquie, finalmente, il dono della “verità”(pur sempre ”relativa”).
Con gaudio, tripudio e scarso clamore si dovette annullare la processione perché vento e pioggia tempestavano quel giorno del 27 aprile. Tutto si rimandò all’indomani sperando che il cruccio del cielo volgesse alla benevolenza dopo secoli di incerta devozione.
L’indomani, giorno 28, tutto era tranquillo.
Con gaudio, tripudio e tantissimo clamore di artiglierie, frastuono di folla acclamante, serpeggiò per le vie la sacra pisside e Fermina ebbe il suo trionfò senza macchia. Porta Campanella, Porta Romana , Darsena, Fortezza e di nuovo Porta Romana per finire in Prima Strada ed entrare trionfante in Santa Maria dove l’attendeva dignitosissima nuova cappella. Il dies natalis era ormai affare amerino! Rimaneva a Civitavecchia una unica possibilità; dare dignità simbolica all’arrivo delle vere reliquie. Per festeggiare non più il dies natalis ma una sorta di dies veritatis seppur aggiustato in funzione metereologica : il 28 aprile.
Che cosa, ordunque, ha impedito alla città di esibire un santo “indigeno” e non di importazione? Eppure qualche possibilità esisteva. Secondiano, Marcelliano e Veriano furono processati a Centumcellae decapitati e gettati in mare forse a Colonia Iulia Castrumnovum (Santa Marinella). Eppure divennero santi acquisiti di Tuscania. Ed ancora, il papa San Cornelio (21°papa) finì i suoi giorni in carcere a Centumcellae ma di ciò non si fece mai memoria.
Affiora ardita, alla fine della storia fin qui esposta, una seconda domanda: quale il ruolo della nostra città nella vicenda di Firmina? In breve, come il culto qui trova degna giustificazione?
PARTE FINALE DOVE SI REDIME LA TRADIZIONE DI CIVITAVECCHIA
Eppure, la nostra città aveva da tempo gridato al soccorso della Santa quando il mare minacciava morte per le furiose procelle e, soprattutto, per le minacce delle galeotte turchesche (le testimonianze sono molteplice riguardo ai pirati libici, tunisini ecc.) .
Eppure, in tanti avevano venerato Firmina con ex voto per grazie ricevute.
Eppure, il simbolo che univa i dimoranti era lei, Firmina (Firmina non più Ferma, così si stabilì nel 1696).
Dunque?
E fu così che si racconciò una storia attraverso la quale Firmina doveva pur avere un legame con la città marinara.
E fu così che se Ameria doveva essere il suo luogo di santità e di seppellimento si ebbe cura e sagacia di cambiare l’iter del suo viaggio da Roma alla volta di Ameria: non più per diretta via terrestre ma per via di mare seguita da via terrestre. Un allungamento del viaggio, un tortuoso percorso, certo, ma utile alla buona causa civitavecchiese.
E fu così che un “domenicano” fissò per la prima volta (1707) in un testo questa ipotesi “marittima”.
E fu così che la nostra santa, partita da Roma, veleggiasse verso il porto e che la nave fosse colta da possente tempesta e che pregando calmasse le acque e che scegliesse il porto quale dimora provvisoria e che designasse la grotta portuale per abitazione e che compisse tanta taumaturgia benevola da suscitare perenne affetto da parte del popolo afflitto per la sua partenza verso il luogo di martirio umbro.
E fu così che Centumcellae ebbe in Ferma, ancilla romana diretta ad Ameria sua precisa meta, la possibilità di lucrare un vantaggio spirituale per averla ospitata con devozione e colmandola di tanto affetto e rammentandola nel tempo e vezzeggiandola con il nominarla non più Ferma ma la bella Firmina.
Imperciocché, redatta quest’ultima memoria, per ogni altra diversa versione di essa che si ardisca proporre come vera sia anàtema!!
. . .
Il mito e la storia. La storia spesso confligge col mito. Il personaggio della storia può apparire ben diverso dal personaggio che desidera la fede.
Il segno è certezza perché univoco e logicamente chiaro. Il simbolo è equivoco perché esprime una ricchezza di significati anche contraddittori.
Il segno è freddo e non fertile. Il simbolo è caldo e fertilissimo.
Firmina come storia ci lascia interdetti, imbarazzati, sdegnati.
Firmina come simbolo è una forte valenza della nostra identità cittadina, come lo è l’albero di Leandro o “l’Ottimo Consiglio”(che è inutile falsificare come simbolo, mentre è giusto come segno)
Ho potuto scrivere queste righe grazie agli studi redatti dall’agiografo Enrico Susi, da Carlo De Paolis. Francesco Correnti, Giovanni Insolera , Sandro Angioni ed altri. A tutti loro grazie!
CARLO ALBERTO FALZETTI

Il commercio e l’uso politico delle reliquie è uno degli aspetti più imbarazzanti nella storia della chiesa cattolica. Sul tema trovo illuminanti alcune pagine di Sebastiano Vassalli nel suo La chimera. Però, come avrebbe detto James, qualsiasi convinzione-per quanto infondata- se smuove energie e ottiene risultati è da considerarsi positiva. Non è infine questo anche il senso del mito?
Ettore
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Il senso del mito è anche questo, certo.
Però quanto è bella la consapevolezza storica e quanto è triste essere tacciati di ” eresia” se si prova a raccontare ” le cose come stanno”.
Grazie a voi tutti per il corposo studio sulla Santa.
Maria Zeno
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E’ la realtà intravista nella storia.
E’ una come noi, come me, come mia madre, nata il “28 aprile” dell’annus orribilis per Civitavecchia, il 1921, chiamata Fermina, con secondo nome.
Come noi nasce dalla terra, rientra dal mare, libera dalle catene della mente, ferma, ferma nelle liquide acque, riemerge in parole d’acqua,
come un significato che si ricerchi là dove erano i Classiarii, il Prato del Turco, minima parte della nostra minima e nascosta identità turca…
tentando ripetizioni, ripetizioni, ripetizioni…
O forse è solo “nonna Fermina Gargiullo”, Firminella che mi accoglie nella sua onesta casa in Piazza Leandra,
ricordata in un istante, con la zuppa inglese, un’epifania così fugace, appena arrivi a San Giovanni.
E Giovanni Insolera , che fa fatica a “presenziare”, con il suo tic nervoso sulle labbra che ci dice quanto sia colmo di tante bestemmie archivistiche date in pasto nelle mondane presentazioni…
Il sincretismo religioso ora ridotto ai costumi di un’improbabile epoca della Pro Loco: l’assoggettamento della dimensione della Charis a quella del nomos: di fronte a questo la tua parola tace e vuole trasformarsi in grido ( ma non puoi).
Firmina, Firminella, più che un segno , è il segno della forma profondamente ir-religiosa di questa religione. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, p.309.
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