PERCHE’ LA GUERRA: SECONDA RIFLESSIONE.

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

Non riesco a distaccarmi da questo incubo. Come potrei? Vorrei scrivere di tante cose salutari per lo spirito ma gli eventi mi violentano. Quanti sarebbero gli argomenti edificanti da accarezzare? La bellezza salva il mondo, si dichiarava  appena qualche anno fa. Chi poteva immaginare che il bello, allora decantato, avrebbe potuto essere l’inizio del tremendo (d’altra parte il fascinans  è sempre il tremendum , Rudolf Otto)!

Apro con una dichiarazione che  oggi dovrebbe essere imperante in ogni coscienza che voglia dirsi sincera: “sono certa- dice la coscienza- che quanto affermo non sia nel giusto, ma sono altrettanto certa che l’obbiezione a me rivolta non sia anch’essa nel giusto!

Condannati all’incertezza?

Ha torto l’occidente? Ha torto l’asse russo-cinese-iraniano?

Forse fra breve dovremmo prender tutti una posizione e se ciò avverrà significa che il dramma è iniziato.

Per ora, per fortuna, prima di questa decisione di parte esiste solo una posizione da assumere: stare dalla parte degli oppressi.

Ma chi sono gli oppressi? Lo sono i palestinesi come popolo inerme ed oppresso da angherie permanenti ed ora da bombardamenti, ma lo sono anche gli innocenti del 7 ottobre, lo sono i civile ucraini, lo sono le fin troppo oppresse donne dell’Iran, lo sono i giovani russi mandati al macello e le loro madri che non possono che piangere in silenzio.

Scrivo e, come tutti, non so che cosa accadrà domani.  Non ho certo competenze nel discutere di geopolitica, materia esaustivamente illustrata da tanti ottimi commentatori. Dunque cosa scrivo? Posso solo testimoniare il pensiero di chi pensava di lasciare alle nuove generazioni un  mondo come la nostra generazione lo ha ereditato. Un tempo il pensiero dell’anziano presentava un valore, oggi non è proprio così!

Vita attiva, vita riflessiva. Forse dovremmo dare un po’ di valore a questa ripartizione in fasi della vita e pensare che la fase finale abbia veramente qualcosa a che fare con la riflessione che permette una de-situazione, ovvero il vedere il mondo da un punto di osservazione fuori dalla immediatezza. Come ci indica quella metafora second cui il pesce non credeva che esistesse il mare, dal momento che vi si trovava dentro! Perché il pesce creda nel mare deve sortir fuori per osservarlo. Ma se ne esce non può durare a lungo in vita. Dunque, il riflettere sembrerebbe appartenere a chi avverte l’ esaurirsi il ciclo vitale. Esistono certo spiriti elevati che riescono nella vita attiva a riflettere ma per i comuni mortale il tempo più appropriato sembra essere quello finale, il tempo della meditazione dopo il tempo della vita attiva.

Appurato come risulti  appropriato per l’anziano il tempo della riflessione, quale riflessione si può fare rispetto all’attuale accadere?

Un fatto nuovo è maturato nell’età del post-moderno rendendo non comparabile passato e presente.

Il fatto nuovo si  è già detto: l’incertezza!

Viviamo il tempo caratterizzato dall’assenza di un punto stabile di riferimento, ciascuno fa ciò che sente essere la regola indiscussa della sua vita. Dalla incertezza nasce il disincanto, dal disincanto scaturisce lo spaesamento, vera malattia mortale del momento.

Il mondo intero ha perso il senso della vita nel momento in cui la tecnica ha acquisito il dominio planetario.

La capacità di fare che la tecnica ci permette è enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti del nostro fare ( Gunther Anders). La tecnica è il superamento del limite ( si deve fare ciò che si può fare !!). Quel vertice sapienziale che il mondo greco ha insegnato, il rispetto delfico del limite(“niente di troppo!” e “tutto secondo misura”) , è vanificato drammaticamente. Prometeo è stato “scatenato”dalla scienza e dall’economia attribuendogli una forza senza precedenti (scientia est potentia, Bacone).

Ed ancora, la capacità di fare della tecnica è tale che ogni possibile decisione popolare sia resa impossibile: il mondo è talmente complesso che spinge le comunità ad affidarsi  alla irrazionalità dei giudizi per dichiarata incompetenza tecnica. Da qui nascono i populismi ovvero i sistemi dove il persuasore riesce a dare soluzioni banale e semplici a problemi tecnicamente complessi.

La conclusione di tutto ciò è incertezza nel giudizio. L’uomo primitivo subiva incertezza a causa della non conoscenza. L’uomo del periodo della tecnica subisce incertezza per la troppa conoscenza!

Questa profonda incertezza mina alla base la possibilità di ogni possibile etica. Quale etica si rende lecita dal momento che il dominatore dell’umano, la tecnica, non ha scopi da perseguire se non fare al meglio e di più? Comprendiamo bene che significa non disporre di un etica appropriata a questa fase storica?

La tecnica, come tante volte ha chiarito Umberto Galimberti (l’ultimo  testo fornisce una sintesi dei suoi argomenti in proposito, L’etica del viandante, 2023), funziona e basta. Ed allora, per fare un esempio, l’etica più appropriata dovrebbe essere quella della “responsabilità”(agire tenendo conto delle ragionevoli “conseguenze”, Weber, Jonas) ma come è possibile agire correttamente quando la tecnica è totalmente indifferente alle conseguenze?

Con il trionfo della tecnica si è superata del tutto la grande fase della “modernità”, ovvero il primato della ragione secondo cui : pensare bene significa fare bene, e fare il Bene.  Nella fase attuale della tecnica non vale più “ciò che  fai”, vale solo “come lo fai”.

Non vale lo scopo, vale l’efficienza, ovvero  il modo migliore con cui si agisce. Forse il punto di svolta tra le due fasi nasce con il nazismo. Nei campi di sterminio si è dimostrato che pensare bene (efficienza del capo del campo) può anche significare fare il Male. Dunque, usare la massima razionalità non conduce necessariamente a fare il Bene, nonostante conduca a “fare bene” le cose.

In che modo allora si sopravvive a questo stato di incertezza latente? Forse grazie alla spasmodica ricerca del denaro, del successo, del sesso, della fede fondamentalista, della tifoseria politica, del calcio, della militanza, dell’evasione, del gioco, dell’indifferenza, della droga, del disincanto. Ma quanto questi surrogati del senso potranno reggere?

Penso che esista una certezza in questo dominio dell’incertezza. Necessita restituire la cultura del limite perché il delirio di onnipotenza può condurre a soluzioni, stante il livello raggiunto dalla tecnica, che coinvolgono l’intera esperienza umana nella storia del nostro pianeta:  la minaccia di una guerra totale.

Restituire uno scopo al processo umano che, certo,  non potrà più essere quello “antropocentrico”(la Natura che è solo un mezzo a disposizione dell’uomo).

A questo punto la domanda  -terribile a dirsi-  è : esiste il tempo per questa inversione dell’agire umano?

O forse siamo ormai entrati nel tempo inquietante evocato da Paolo quando afferma che verrà un giorno in cui “il potere che frena” sarà dissolto togliendo ogni ostacolo all’assalto del devastante. Ma di questo ne parlerò successivamente.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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