Lo scrittore Yusuf Idris, ripreso anche da Duccio Demetrio, nel suo libro “Alla fine del mondo”, ci propone di far parlare i molti innumerevoli, sterminati silenzi di chi emigra, per esempio.
Di limitare lo spreco di storie che potrebbero esseri raccontate e che dovremmo nelle nostre città e ovunque incominciare ad aggregare comparandole avvicinandole, scambiandole con le nostre. Ci attende un progetto-utopia di banche della memoria interculturale dove non sia necessario contrattare, distinguere tra le ragioni degli une e degli altri, in una sorta di dare per avere e del commercio regolato da norme di solito sfavorevoli per una delle parti. Yusuf ci dice che soltanto quando il silenzio “si mette a parlare” (e l’istante prima del racconto ci chiede la pausa per suscitare l’incantesimo dell’attesa), quando, prima dei vincoli e delle aspettative, si accetta quello stato di sospensione del tempo e dello spazio; quando ciò accade si sperimenta “di tutti” i silenzi il più profondo. Perché è quello dove converge l’accordo più forte che esista. L’accordo concluso senza alcun patto. L’esperienza narrativa è sempre al di sopra di ogni faticosa trattativa di merci, idee, vite. Nel suo divenire è la capacità del narratore di spiegare ed evocare ad annichilire ogni distanza e differenza. L’arte del racconto orale o scritto, il linguaggio e i linguaggi della narrazione ci restituiscono, la disarmante umanità delle storie e dei volti. Dalle quali e dai quali scaturisce un impulso naturale e culturale che non conosce frontiere, un invito a rallentare, a sostare, a pensare.
Il silenzio di Gaza e di chi muore. Bambino, bambina, prima di parlare.
La parola sguaiata, di chi usa mezzi social per denigrare, odiare: il silenzio non si fa mai compassione.
Ecco allora come non pensare allo splendido racconto di Italo Calvino “Prima che tu dica pronto”.
“È in questo silenzio dei circuiti che ti sto parlando.
So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno ad incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; non è per dirti qualcosa che ti sto chiamando, né perché creda che tu abbia da dirmi qualcosa. Ci telefoniamo perché solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, in questo scandagliare il silenzio e attendere il ritorno di un’eco, si perpetua il primo richiamo della lontananza, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s’è aperta sotto i piedi d’una coppia di esseri umani e gli abissi dell’oceano si sono spalancati a separarli, mentre l’uno su una riva e l’altra sull’altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile, finché il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza. Da allora la distanza è l’ordito che regge la trama d’ogni storia d’amore, come d’ogni rapporto tra viventi, la distanza che gli uccelli cercano di colmare, lanciando nell’aria del mattino le arcate sottili dei loro gorgheggi, così come noi, lanciando nelle nervature della terra sventagliate d’impulsi elettrici traducibili in comandi per i sistemi a relais: il solo modo che resta agli esseri umani di sapere che si stanno chiamando per il bisogno di chiamarsi e basta».
Tornare ad una comunicazione che sia attesa, un minuto prima Pangea. Poi continente. Poi nazione, persona.
Il bisogno di chiamarsi e basta, magari per nome.
Improvvisamente.
Non c’era stato alcun comando, ne artificio, ne pandemia.
Nessuno più parlava attraverso la bocca. I rumori dal mondo erano sempre quelli, artificiali e naturali, ma erano le voci umane che non più si udivano.
Il silenzio!
La gente viveva, si affaccendava, lavorava, accarezzava, odiava, litigava, pregava. Ma in silenzio. Ci si intendeva solo con il cuore, con i gesti, con i sentimenti. Niente più chiacchere, niente più notizie felici o brutte, niente.
I politici non erano più ascoltati, i parlamenti erano isole del silenzio. I preti gesticolavano e le giaculatorie erano solo mentali. Gli spettacoli sembravano esser ritornati al tempo del film muto. Per le strade non una voce.
Presto la gente cominciò ad abituarsi. La vita scorreva meglio. Era del tutto inutile litigare, il motivo veniva meno. Le guerre s’erano fermate. I grandi sacerdoti dall’alto delle torri, dagli altari, dai microfoni avevano cessato di esprimere i loro pensieri. Era del tutto inutile incitare, minacciare, blaterare.
Col passar dei mesi il mondo sembrava essere in una pace estrema.
Ognuno faceva ciò che doveva, l’essenziale. Il pensiero umano aveva cessato del tutto di essere comunicato.
Si cominciò ad intuire che l’umanità aveva oltrepassato un punto di svolta: tacere!
Bastavano gesti, intese intuitive, accordi mentali. E tutto filava liscio.
Il pensiero dopo millenni e millenni di trionfo nel bene e nel male, in conquiste e lotte fratricide, in carneficine e trionfi scientifici, artistici, letterali era sparito del tutto.
Oh! Se avessimo scoperto prima tutto questo!
Quanti orrori, quanti delitti, quanti pianti, quante sofferenze, quanti atrocità avremmo risparmiato all’essere umano.
Scoprire che l’ evoluzione dell’homo sapiens è semplicemente un semplice cerchio: alla fine si è al punto di partenza.
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