“PESCI, PESCATORI, PESCIVENDOLI E CONSUMATORI” DI GIORGIO CORATI – Cenni di storia sulla tutela del consumatore e sul mercato
di GIORGIO CORATI ♦
Il contesto socio-economico e la relazione tra produttore e consumatore sono aspetti di tutto rilievo e, senza ombra di dubbio, da tempo sono inseriti nel modello del mercato dominante. La questione che, per molti aspetti socio-economico-ambientali, ruota intorno alla contrapposizione di visione relativa a produzione-consumo locale, cosiddetto “a Km0”, e produzione-consumo “globale” è quanto mai viva, sostenuta come è da legittime idee e teorie nell’ottica della crescita, dello sviluppo e del benessere. Sintetizzando, nel significato del termine, il benessere è concepito materiale o immateriale a seconda del punto di vista personale.
Gli effetti causati da produzione e consumo solo in tempi recenti assumono rilevanza e l’attenzione su essi determina dei principi come quello di precauzione e quello ecosistemico.
In questo articolo propongo parti di testo che riporto dalla piacevole lettura dei saggi di Fanfani, Le origini dello spirito capitalistico in Italia del 1935,1 e di Polanyi, La grande trasformazione del 1954.2 Possono destare interesse quali cenni storici sulla tutela del consumatore e sul modello di mercato.
In Le origini dello spirito capitalistico in Italia (Fanfani, 1935) è riportato che, a tutela del consumatore, gli statuti “delle arti e dei mestieri” ma anche delle città medievali statuiscono norme e regole che proibiscono abusi in senso lato nei confronti e nei rapporti economico-sociali con il consumatore stesso.
Uno dei pericoli che sovrastano “il compratore” [è] “subire esagerate pretese del venditore; la regola morale del giusto prezzo ne verrebbe colpita a morte”.3 Nel difendere tale regola, non soltanto al fine di tutelare il “prezzo giusto” ma anche al fine di evitare concorrenza, gli statuti prescrivono che per ogni “panno” [deve essere segnato] “il costo e a più riprese minutamente” [indicato] “nel costo di quali elementi si deve tener conto”, [affinché] “il pubblico possa accertarsene”.4
È da aggiungere e sottolineare che soltanto nella seconda metà del 1800 gli economisti definiti “marginalisti” enunceranno le loro teorie sulla determinazione del prezzo di scambio di un bene nella relazione tra domanda e offerta.
Nel periodo tra il 1280 e il 1340 circa, come riporta Fanfani, le disposizioni contenute negli statuti di alcune città medievali, come ad esempio Padova, Firenze, Prato, Chianciano, prevedono dei divieti finalizzati ad evitare l’accaparramento di prodotti alimentari e la speculazione su di essi (in genere sul sale, sul vino, sul grano, sul pane) e per “garantire il naturale svolgimento dei fatti economici”.5 Così come a Verona, è proibito fare incetta di prodotti alimentari nei sobborghi per rivenderli in città. “È la vecchia idea dei Padri e di S. Tomaso che l’intermediario nel commercio deve esserci il meno possibile: è inutile che vi sia quando, come a Chianciano, sul luogo di produzione trovandosi il consumatore, questo direttamente può acquistare la merce del produttore”.6
In La grande trasformazione, Polanyi (1954) riporta che nei secoli quindicesimo e sedicesimo, l’intervento dello stato nell’Europa occidentale determinò la creazione del commercio interno. “Fino al tempo della rivoluzione commerciale, quello che può esserci apparso commercio nazionale non era nazionale ma municipale”.7
Nel testo, è da notare che […] “in contrasto con il commercio esterno e con quello locale, il commercio interno è” […] “essenzialmente concorrenziale; oltre agli scambi complementari esso include un numero molto maggiore di scambi nei quali merci simili provenienti da fonti diverse sono offerte in concorrenza l’una con l’altra”. […] “Soltanto con l’emergere del commercio interno o nazionale la concorrenza” [nel corso del tempo, come ricorda Polanyi] “tende ad essere accettata come uno dei principi generali del commercio”.8
Nel contesto della civiltà urbana medievale, continua Polanyi, […] “per gli approvvigionamenti alimentari, la regolamentazione implicava l’applicazione di metodi come la pubblicità obbligatoria delle transazioni e l’esclusione di mediatori per controllare il commercio ed evitare i prezzi troppo alti. Una tale regolamentazione, tuttavia, era efficace soltanto relativamente al commercio tra la città e i suoi dintorni immediati”. Merci, come quelle che Polanyi evidenzia quali spezie, pesce salato o vino implicavano trasporti da luoghi lontani per giungere a quelli in cui erano consumati. Tali merci “rientravano quindi nel dominio del mercante straniero e dei suoi metodi capitalistici di commercio all’ingrosso”. In questo contesto tale tipo di commercio “sfuggiva ai regolamenti locali e tutto ciò che si poteva fare era di escluderlo dal mercato locale”,9 proibendo ai mercanti stranieri la vendita al minuto. Riguardo alle importazioni, all’aumentare del volume del commercio capitalistico all’ingrosso, corrispondeva una più rigorosa sua esclusione dai mercati locali.
Nei secoli quindicesimo e sedicesimo, continua Polayni, […] “l’azione deliberata dello stato impose il sistema mercantile nelle città e ai principati ancora ferocemente protezionisti”. Polanyi sottolinea che “il mercantilismo distrusse il consunto particolarismo del commercio locale e intermunicipale abbattendo le barriere che separavano questi due tipi di commercio non concorrenziale ed aprendo quindi la strada ad un mercato nazionale che ignorava sempre di più la distinzione tra città e campagna così come quella tra le varie città e province”.10
Era evidente, tuttavia, che […] “il sistema mercantile” [si rivelava come] “una risposta a molte sfide. Politicamente lo stato centralizzato era una nuova creazione sollecitata dalla rivoluzione commerciale che aveva spostato il centro di gravità del mondo occidentale dalle coste mediterranee a quelle atlantiche e questo obbligava le popolazioni arretrate dei maggiori paesi agricoli ad organizzarsi per il commercio e per gli scambi. In politica estera la costituzione del potere sovrano era la necessità del momento, di conseguenza la politica mercantilistica implicava il controllo delle risorse dell’intero territorio nazionale per fini di potere negli affari esteri.
In politica interna l’unificazione delle regioni spezzettate dal particolarismo feudale e municipale era il necessario sottoprodotto di un tale sforzo”.11
Molto altro ancora è riportato nei citati saggi scritti da Fanfani e da Polanyi sul consumatore, sulle “origini dello spirito capitalistico in Italia” e sulle origini economiche e politiche dell’epoca che viviamo. In particolare, quanto riporta Polanyi sulla politica estera e su quella interna è di peculiare e indiscutibile interesse. Considerando la scarsità o la limitatezza delle risorse, il controllo o la gestione di quelle disponibili e proprie di uno stato è una questione sempre più centrale nel mondo contemporaneo che influisce, ad esempio e in estrema sintesi, sulla capacità di uno stato di essere, per molti aspetti, autonomo o facilitato nella strutturazione di alleanze con l’estero. Il tema certamente è anche connesso alle sfide relative alle varie tipologie di “transizioni” in atto nel sistema economico, a partire dalla “transizione energetica”. Ovviamente, le azioni definite nell’ottica e nel contesto produttivo dell’economia circolare sono estremamente strategiche. In tema di politica interna, lo stesso ragionamento conduce a ritenere che la più ampia collaborazione, la più stretta cooperazione e la condivisione delle migliori conoscenze tra territori di uno stesso stato, anche se per molti aspetti possono essere o sono diversi tra loro, possa generare un ampio “sistema di simbiosi unitario”, al fine di facilitare la distribuzione delle risorse e la ri-allocazione delle stesse o meglio di materie prime seconde utili se non strategiche per lo stato.
GIORGIO CORATI
