IL GRANDE VIAGGIO
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Che cosa prova una tomba etrusca ad essere profanata da un raggio di luce dopo secoli di oscurità e di silenzio?
Ma una tomba è uno spazio ricavato nella roccia, non prova sentimenti.
E’ vero! Ma la tomba, per come è stata ideata, è una porzione dello spazio connessa ad una vicenda umana che non può mai essere indipendente da essa. Così quello spazio propriamente assume il concetto di “luogo”, di locus. Ovvero uno spazio cui sono stati conferiti e condensati significati umani. Uno spazio al quale è stata concessa una “sacralizzazione”. Sacralizzare uno spazio, cioè farne “luogo”, per il mondo antico significava delimitare, distinguere dal resto, separare dallo sfondo naturale: spazio come recinto sacro, tèmenos la cui soglia è protetta da un custode divino.
Lo spazio per l’uomo antico non può essere “omogeneo” e, dunque, esistono lembi di spazio che sono fratture rispetto al resto. L’area della necropoli si presenta come uno spazio che interrompe nettamente la neutralità geometrica così che l’oltre dello spazio sacro è considerato profano (oggi tutto è solo geometrico spazio omogeneo).
Profanare in tal senso è il termine giusto: essere fuori o davanti a qualcosa che si considera fanum, tempio.
Ed allora, che cosa si offende penetrando ciò che non dovrebbe, secondo le intenzioni originarie, essere contaminato?
In linea generale si offende il rispetto che si deve ad un luogo che accoglie corpi umani deceduti. Ma nel caso in questione esiste qualcosa di più specifico.
La teologia omerica, di cui lo spirito etrusco era debitore, subiva il fascino del “doppio”: esiste in noi un ego alter che l’io cosciente sente, avverte, intravede. Lo intravede nell’ombra che il corpo proietta, lo avverte nell’immagine speculare, lo sente nel sogno. In particolare è il sogno, ònar, che incarna il doppio, l’altro io, un vero e proprio èidolon.
Il sogno di cui parliamo non è il semplice ripetersi dei residui diurni, le scorie dei ricordi giornalieri, per gli antichi il sogno, con tutto il suo significato simbolico, veicola anche un valore profetico (l’interpretazione dei sogni prima di Freud è opera di Artemidoro di Daldi, 180 d.c. circa).
Come si è detto il doppio ha lo stesso statuto del sogno! L’uomo è il sogno di un ombra( Pindaro) e quando Odisseo, disceso nella tenebra scura, tenta di abbracciare lo spirito (psychè) della madre per tre volte gli vola via simile a un ombra o a un sogno.
Il corpo ubbidisce alla morte, ma l’éidolon, il doppio, resta in vita (per ogni homo religiosus la morte è solo un altro aspetto dell’esistenza). Una vita ridotta ad un alito di nebbia immersa in un universo senza luce, gemente , vagolante, stridente come pipistrelli ed assetata di nero sangue che le permette di ricordare e di parlare. Merce rara è nell’Ade la memoria. Quando subentrerà l’Orfismo spetterà al lago gelido di Mnemosyne di evitare l’oblio (léthe) per le anime elette.
L’antichissima usanza della cremazione mirava ad accelerare il processo di liberazione del doppio dall’ingombro del corpo evitando la lenta putrefazione dell’elemento materiale.
Quando l’èidolon di Patroclo ghermisce nel sonno Achille, dicendo: Tu dormi Achille e ti sei scordato di me: mi amavi da vivo, ma mi trascuri da morto. Fa che io entri nelle case dell’Ade”(Iliade XXIII), significa che il doppio di Patroclo reclama la liberazione definitiva dal corpo ormai cadavere.
Ma nella tomba etrusca il corpo è inumato non cremato. Dunque il processo di liberazione del doppio è molto più lungo. La tomba etrusca ha qualcosa di specifico, dicevamo. L’ambiente richiama la casa, il focolare domestico pieno di suppellettili, di beni affettivi, di corredo, di beni di consumo, di cibo. E’ uno spazio che sembra ideato per ospitare una vita seconda, una sorta di semicoscienza crepuscolare. Ma tutto ciò è solo un transito. Il doppio deve solo attendere, predisporsi per il “grande viaggio”. Un viaggio per il quale non è previsto alcun ritorno, un viaggio accompagnato da uccelli ed effettuato per mare o per terra su un cavallo o su un carro. Un viaggio che è sempre guidato da uno psicopompo, Vanth (l’angelo della morte) o Charun (il Caronte greco-romano).
La tomba è dunque luogo di stazionamento, di attesa, luogo intermedio tra la vita umbratile del sepolcro e l’Ade.
Quando il momento giusto (kàiros) accade, la porta di Ade si apre e l’ombra varca la soglia per raggiungere la sua meta. Charun , che lo accompagna, possiede il grande martello, un malleus attraverso il quale batterà i chiavistelli per chiudere una porta che non potrà mai più essere riattraversata!
Una dimora di attesa, dunque è la tomba etrusca, dove il doppio, simile al soffio di vento, satura nel corso del tempo tutta l’aria del sepolcro mentre le suppellettili , cariche di affetti, si impregnano, a loro volta, del tenue pulviscolo dovuto al dissolvimento del corpo.
In quello spazio consacrato avvolto in un silenzio sordo di secoli appena sfiorato dagli avvenimenti della storia ecco che un giorno un raggio di oscena luce si insinua come folgore a dissolvere l’incantesimo del tempo ed un clangore di ferraglia sconvolge la quiete.
Mani sconosciute dissolvono il velo che avvolge i crateri e il vasellame vario e i bronzi e i corredi carichi di antichi amori, mentre il suolo è oggetto di calpestio frenetico . Ovunque è contaminazione di orme estranee.
Il luogo, qualsiasi sia la finalità dello scavo, è ricondotto ad essere l’originario spazio, un ambiente scavato nella roccia tufacea, un oggetto si studio, una cavità sottoposta alle intemperie o custodita per essere oggetto di curiosa visitazione. E tutto ciò che aveva una stretta relazione con quell’anima in attesa del grande viaggio è ora semplicemente reperto, oggetto osservabile da mille occhi, custodito in una anonima teca collocata in un estraneo ambiente del tutto avulso rispetto al doppio ed al suo corpo mortale.
Quel raggio di luce ha distrutto d’un colpo il temenos e lo spazio è ritornato a dominare dissolvendo quel mondo della vita che aveva generato il sepolcro.
CARLO ALBERTO FALZETTI

Mi viene in mente il finale del Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui il personaggio- dopo essersi tormentato per trovare un senso alla vita e aver invano interrogato la natura- diviene poi un corpo morto che, mummificato, viene esposto in un un qualche museo d’Europa. Ciò che conta per gli studiosi non è il travaglio esistenziale cha ha accompagnato l’islandese in vita, ma lo stato di conservazione del suo corpo.
Ettore
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Non avevo mai pensato alle tombe etrusche come luogo di attesa e di passaggio ma a pensarci bene non potrebbe essere diversamente per chi crede.Noto caro Carlo un atteggiamento piuttosto crepuscolare negli ultimi tempi nei tuoi scritti; a tratti lo avverto anche dentro di me, e mi chiedo se sia legato agli anni che passano o ad una condizione dei nostri tempi che lascia a tutti poche speranze per un futuro gioioso e costruttivo?
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Mio padre rimase orfani quindicenne, dopo 30 anni morì anche il padre. Lui comprò una tomba di famiglia e spostò i resti della madre affinché giacessero vicino al padre. Quando andavano al cimitero andava lo stesso anche davanti la tomba dove la madre fisicamente non c’era più.
Diceva: “Qui l’ho pianta. Qui si è consumata.”
Solo ora capisco che saggezza di amore avevano le sue parole. Ora che sono io che davanti alla tomba dove ci sono i suoi di resti, e che grazie ad un operaio gentile e delicato, ho fatto in modo che fossero vicino a quelli dell’amata mamma, ora so che significa. Lì trovo consolazione, gli parlo, lo saluto. Ciao papà. Chi viene nominato, esiste, no?
Avrei voluto darlo al fuoco, sparso nell’acqua. Avrei commesso un errore.
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Dopo la lettura dell’intrigante ed erudito scritto di Carlo Alberto mi è venuta una specie di curiosità complementare: quali sono le sensazioni provate da un tombarolo quando profana una tomba etrusca nel momento in cui entra insieme al fatidico raggio di luce?
Ebbene da un racconto trovato in rete un vecchio tombarolo di Cerveteri parlando dei suoi ricordi, mentre descrive il dopo come una strana sensazione di prostrazione e di pentimento come per uno stupro, un atto di cui non si finisce mai di vergognarsi, dice che l’emozione più grande, nel “mestiere”, si provava nel momento in cui si apriva una tomba, e non quando se ne usciva con il sacco pieno, e che quando si trovava una tomba vergine si era assaliti da una sensazione che forse solo un archeologo può capire. Nei suoi ricordi rimane quindi indelebilmente scolpita l’emozione del fascio di luce che rompe le tenebre e mette a nudo un segreto ormai violato e lo svela ad occhi sacrileghi.
Per completezza: il racconto è “Il tombarolo e il brigadiere”, nella raccolta “Tombaroli per caso in terra etrusca”, racconti su quella realtà scritti da Vittorio Berardino (1970). Paolo Ferrazzi
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Talmente chiaro e oscuro questo scritto, a tal punto che non riesco a fare rimandi, dato che il lavoro è di pura descrizione, o meglio un drama, e come in una drammatizzazione io mi trovo con i defunti in viaggio nella terra nostra, l’Etruria, ” come se” le idee di anima, mondo e Dio avessero un’ unità di senso, per il loro uso non costitutivo, ma regolativo, non trascendente, ma ” trascendentale”. Paola.
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