Autobiografie di donne del Novecento: storie di corpi e menti difformi: 2.1 – Alda Merini e Margarete Buber-Neumann

di VALENTINA DI GENNARO ♦

2.1 Alda Merini

Di Alda Merini (1931-2009) artista e poetessa affetta da diversi disturbi psichici si è molto parlato negli ultimi anni. E soprattutto per la sua opera in poesia, mentre dei suoi lavori in prosa, che sono per lo più profondamente autobiografici, si è detto di meno.

«Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa»

(Alda Merini, da L’altra verità. Diario di una diversa)

Come è noto ai più Alda Merini ebbe una vita sofferta e soffocata dalla diagnosi di bipolarismo nonché dai lunghi soggiorni nei manicomi, strutture di alienazione e annientamento del corpo e della mente.

La giovane poetessa fu ricoverata in una clinica per la prima volta nel 1947, a sedici anni, e fu in quella occasione che le venne diagnosticato un disturbo bipolare e vi rimase per poco tempo. Mentre nel 1972, quando era già madre delle sue prime due figlie, fu internata per volere del marito nel 1964: vi rimase per ben otto anni.

Dopo anni di lungo silenzio, Merini riprese a scrivere solo nel 1978. 

Durante la permanenza nell’istituto psichiatrico di Taranto Alda Merini ultimò la stesura appunto di “L’altra verità, diario di una diversa” nel quale la poetessa racconta, con la sua prosa sempre in bilico tra lucidità e crudezza, i suoi terribili anni trascorsi in manicomio. Alda Merini vi entrò con l’animo ancora innocente, ma ne uscì completamente cambiata: la privazione di ogni libertà, la pratica di procedure mediche invasive come l’elettroshock, il senso di totale distacco dal proprio corpo, che ormai non sentiva più suo, furono esperienze che la segnarono per sempre. E, nonostante questo, nell’inferno del manicomio, ormai completamente emarginata, la poetessa imparò a godere della libertà del suo spirito, per cui non c’erano catene, e ad amare ancora la vita e la pura percezione di ogni cosa esistente.

«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio […] ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò, e morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire».

Il 1978 è in Italia un anno di vera svolta per la cura delle malattie psichiatriche, grazie all’impegno e alla tenacia dei medici psichiatrici Franco Basaglia e Franca Ongaro e le loro esperienze ai manicomi di Gorizia e Trieste, fu promulgata la legge n.180/78 che chiudeva per sempre i manicomi così come li aveva conosciuti Alda Merini. Prima di allora gli istituti psichiatrici erano luoghi in cui l’opinione pubblica non entrava, non aveva accesso, sembravano quelle che erano torture a tutti gli effetti, cure inevitabili, somministrate in un confine labile tra reale e un luogo sospeso.

«Noi, i campioni della grande civiltà occidentale che rivendica i valori dell’individuo, dello spirito e della ragione, ci troviamo indeboliti e distrutti da un sistema la cui logica sopravvive sulla nostra debolezza, sulla nostra acquiescenza e sulla manipolazione di questa debolezza e questa acquiescenza. I valori assoluti che ci sono stati sempre proposti (vanto della nostra civiltà popolata di santi e di eroi) hanno agito – nella loro irraggiungibilità e disumana perfezione – come strumento di dominio attraverso il gioco della colpa in chi non riesce a realizzarli, e come addestramento al compromesso e all’accettazione della propria impotenza negli ostinati che tentano di farlo. La distanza fra assoluto e relativo, quando il valore proposto come unico sia assoluto, serve come strumento di soggezione, dipendenza, manipolazione; serve a rendere assolutamente relativa (quindi vuota, inutile, priva di significato) ogni azione agli occhi di chi agisce; serve a far accettare supinamente e acriticamente la condizione disumana in cui si vive.»

A Franca Ongaro Basaglia.

(Venezia, 15 settembre 1928 – Venezia, 13 gennaio 2005) è stata un’attivista e politica italiana e, assieme al marito Franco Basaglia, tra i protagonisti del movimento della Psichiatria Democratica.
VALENTINA DI GENNARO
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  • L’immagine di copertina è di Elisa Talentino