QUELL’IRRESISTIBILE BISOGNO DI PREMIERATO

di NICOLA R. PORRO ♦

21 NOVEMBRE 2023

1_COPERTINA

Non nutro un’ostilità pregiudiziale a eventuali riforme che accrescano l’efficienza e la democraticità delle istituzioni. Nemmeno coltivo qualche forma di feticistica venerazione per lo stato di cose esistente. Credo però che la nostra Costituzione – che osservatori internazionali in tempi non sospetti avevano definito “la più bella del mondo” – meriti la cura e il rispetto che le si devono. Non dimentichiamo mai come essa abbia rappresentato la principale credenziale che nel secondo dopoguerra ha permesso a un Paese devastato, umiliato e diviso dalla dittatura e dalla guerra di ricostruirsi, di partecipare da protagonista al grande disegno dell’europeismo democratico, di raggiungere un benessere paragonabile a quello dei Paesi più prosperi dell’Occidente e, più tardi, di respingere con gli strumenti dello Stato di diritto una micidiale offensiva terroristica. Ciò premesso, è del tutto legittimo e utile interrogarsi senza infingimenti e timidezze sulle criticità della nostra democrazia, sui difetti dell’ordinamento istituzionale, legale e amministrativo che si sono manifestati nel tempo, sui possibili interventi correttivi e sui miglioramenti che potrebbero essere adottati.

Di recente le forze al governo del Paese hanno avanzato come “la madre di tutte le riforme” un progetto di premierato – più o meno “temperato” – che dovrebbe garantire trasparenza ed efficacia all’azione dell’esecutivo aggiornandone gli strumenti con interventi di rilevanza politica e costituzionale tutt’altro che secondari. Come si dirà, e come hanno sottolineato i nostri maggiori costituzionalisti – compresi alcuni politicamente lontani dall’opposizione parlamentare -, si tratta invece di una proposta di autentica e profonda trasformazione dei princìpi costituzionali e non solo di ritocchi apportati all’architettura funzionale del sistema di governo. 

Al cuore del progetto vi è una singolare idea di premierato. Singolare perché l’elezione diretta del premier – in atto in molte democrazie consolidate – si troverebbe da noi a convivere con la figura di un Presidente della Repubblica di investitura parlamentare, cioè indiretta. Una combinazione che ha un solo remoto precedente nel caso di Israele, che però la abrogò in un breve lasso temporale avendo constatato come, una volta esautorata di molti poteri, la figura del Capo dello Stato fosse  divenuta irriconoscibile e avesse dato adito a complicazioni burocratiche e conflitti di competenza. Secondo Francesco Clementi, ordinario di Diritto pubblico comparato, «L’elezione diretta del premier produrrebbe un solo effetto: quella di rendere il cittadino un tifoso, secondo un modello trumpiano o bolsonariano. E a noi non servono tifosi ma, al contrario, cittadini consapevoli che il loro voto sarà ascoltato». Sabino Cassese, pur dichiarandosi non pregiudizialmente ostile alla proposta, ha però segnalato con forza la necessità di accompagnarla all’introduzione della sfiducia costruttiva: in una democrazia, infatti, nessun premier può essere sfiduciato senza aver contestualmente individuato un altro governo garantito da una maggioranza.

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In materia l’articolato prevede che «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere». Tale procedura, però, ha senso solo nella fase iniziale di una legislatura: essendo l’elezione del premier contestuale a quella del Parlamento, il premier sarà infatti necessariamente un parlamentare. Ma cosa succederebbe qualora si aprisse una crisi in corso di legislatura? «In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto – si legge nel testo – il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere». Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, ha stroncato sul nascere tale proposta in quanto introdurrebbe eccessiva rigidità in una questione che, in determinate circostanze, potrebbe richiedere, al contrario, il massimo di flessibilità. Francesco Clementi ha addirittura paventato il rischio del “gioco dei tre ostaggi” con un premier ostaggio della sua maggioranza, una maggioranza ostaggio del premier e un Presidente della Repubblica ostaggio di regole che lo privano del potere di nominare il Premier e di sciogliere le Camere in caso di crisi. Avremmo così un Presidente di pura facciata, ridotto a fare da notaio di scelte altrui. Impossibilitato a esercitare il ruolo di “motore di riserva” che si attiva in momenti di crisi, non sarebbe neppure autorizzato a comporre eventuali crisi che dovessero insorgere fra il premier e la sua maggioranza. Invece dell’agognata governabilità, avremmo esecutivi quanto mai instabili e precari e un Paese che potrebbe essere chiamato alle urne anche più volte in uno stesso anno. Ha commentato in proposito Giovanni Maria Flick, individuando il cuore del problema: «…  la creazione di due fonti, una parlamentare per la nomina del capo dello Stato e l’altra elettorale per la legittimazione del premier, è destinata a creare una prima notevole frattura tra i due soggetti istituzionali». 

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Fra i dichiarati obiettivi strategici del disegno di legge c’è quello di rendere impossibile il ricorso a quei governi tecnici cui l’attuale maggioranza parlamentare è visceralmente ostile. Ancora Flick, però, ha osservato sulla Stampa come la cosiddetta “norma anti-ribaltone” renda possibile una situazione paradossale e palesemente anticostituzionale perché «… il secondo premier della legislatura, che non riceve un mandato popolare a governare, avrebbe più poteri del premier eletto dai cittadini, disponendo solo lui dell’arma dello scioglimento delle Camere». Uno specialista come Massimo Luciani ha fatto notare, inoltre, un’altra paradossale incongruenza, che produrrebbe effetti opposti rispetto alle intenzioni dei proponenti. Infatti, prevedendo la possibilità di subentro di un “secondo premier” – eletto come parlamentare di maggioranza ma non designato dagli elettori come Presidente del Consiglio –, si certificherebbe in maniera lampante l’inapplicabilità di qualsiasi norma “antiribaltone”. Cesare Pinelli, esponente di primo piano dell’Associazione nazionale dei Costituzionalisti, ha giudicato l’ipotesi di premierato avanzata non solo giuridicamente indifendibile ma anche eticamente scorretta: «… L’elettore – ha scritto – è il primo a essere stato ingannato. Perché nel corso della legislatura gli cambiano le carte in tavola: lui voleva X, lo ha votato, invece arriva e un certo punto Y. Non funziona, è evidente». Il regime che viene delineato sollecita altri rilevantissimi interrogativi. A quale autorità di controllo e di garanzia potrebbe appellarsi un Capo dello Stato eletto dalle Camere nei confronti di un leader eletto direttamente dal popolo? E in concreto, una volta privato del compito di conferire l’incarico di Presidente del Consiglio, a cosa servirebbe un Capo dello Stato ridotto a passacarte della maggioranza parlamentare? La questione è tanto più inquietante se si analizza la procedura che dovrebbe presiedere all’elezione diretta del Premier. Essa prevede infatti un premio di maggioranza conferito al vincitore per garantirgli la possibilità di governare qualora non consegua la maggioranza dei consensi popolari. Soluzione di per sé non priva di criticità ma che, soprattutto, si rivela sostanzialmente impraticabile o pericolosamente autoritaria. L’ipotesi di lavoro circolante, infatti, appare modellata su un confronto rigorosamente bipolare ignorando l’eventualità – del tutto compatibile con la Costituzione vigente – di una competizione cui prendano parte tre o più schieramenti. Nell’ipotesi bipolare, il vincitore non avrebbe a lume di logica bisogno di alcun “rinforzo”. In alcuni contesti nazionali, tuttavia, gode di una specie di bonus o premio di maggioranza per garantire la stabilità nel tempo dell’esecutivo e scoraggiare operazioni trasformistiche. A una coalizione che abbia raggiunto il 51% dei voti popolari, ad esempio, può essere assegnato il 55% dei seggi, come ipotizzato da noi dalla proposta governativa.  Questo premio di maggioranza, seppure oggetto di qualche contestazione, non costituisce di per sé ragione di scandalo. Presenta però un difetto insormontabile: è applicabile soltanto a un sistema elettorale rigidamente bipartitico. Se anziché due robusti blocchi antagonistici si misurassero tre, quattro o più forze – si tratti di singoli partiti o di coalizioni – il quadro muterebbe radicalmente. Qualora, per esempio, in una “corsa a quattro” lo schieramento prevalente non raggiungesse nemmeno il 30% – come è statisticamente possibile – e gli altri tre si attestassero ciascuno attorno al 20-25% , i vincitori godrebbero di una rappresentanza sproporzionata rispetto ai voti ottenuti mentre le altre forze sarebbero altrettanto sproporzionatamente penalizzate. 

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Con meno di un terzo dei voti si conseguirebbe il 55% dei seggi mentre le altre forze dovrebbero spartirsi il 45% subendo una vistosa sottorappresentazione. Una riforma di tale portata, per di più, necessiterebbe di una legge elettorale con premio di maggioranza che modificasse l’articolo 92 della Costituzione in questo modo: «La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura». Uno scenario che è, puramente e semplicemente, incompatibile con il nostro dettato costituzionale e che è già stato giudicato improponibile dai maggiori costituzionalisti perché altererebbe in maniera sostanziale la volontà del corpo elettorale. La logica che presiede al disegno di riforma nel suo insieme è necessariamente tortuosa e piena di incongruenze perché si prefigge non un miglioramento e un potenziamento degli strumenti legislativi bensì un’alterazione delle regole del gioco a favore delle attuali forze di governo. Non si interviene, insomma, sulle criticità presenti in una Carta redatta in anni lontani – e inevitabilmente bisognosa di interventi e non di un semplice restyling – ma si tenta piuttosto di modificarne l’intera ispirazione democratico-rappresentativa. Il sistema proposto, del resto, può funzionare solo se esiste una chiara e certa maggioranza alla quale si assegna un premio in seggi per mettere al riparo la sua navigazione istituzionale da imboscate parlamentari. Se però una maggioranza sicura non c’è, quella che si propone non può che rappresentare una specie di protesi ortopedica. Una maggioranza che non rappresenta il Paese beneficerebbe impropriamente di un premio in seggi, alterando proprio il principio costituzionale di “adeguata rappresentatività” che è stato solennemente (e certo non casualmente) richiamato dalla Corte costituzionale” pochi mesi or sono. Come concludere? Non servono isterismi e proclami. Servono però vigilanza attiva, chiarezza di idee e, possibilmente, un’opposizione che non si limiti a commentare e che ritrovi la voce di cui il Paese ha bisogno. 

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NICOLA R. PORRO

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