LA DEMOCRAZIA E I SUOI NEMICI. I COMPLOTTISTI
di NICOLA R. PORRO ♦
Tutte le cosiddette teorie del complotto (o della cospirazione) sono accomunate da una rappresentazione a tinte paranoiche del conflitto. A misteriosi «poteri forti» si attribuisce l’intenzione e la capacità di tramare contro il popolo, la classe, la nazione o le istituzioni con l’obiettivo di abbatterli e sostituirli con altri poteri (altrettanto «forti» e ancor più misteriosi).
Il pensiero complottista si accredita per negazione: più che opporre proprie teorie o convinzioni ad altre teorie o convinzioni tende a negare preventivamente qualsiasi validità alle spiegazioni più logicamente plausibili e più condivise. Ciò vale anche quando esse siano suffragate da autorità competenti o dall’evidenza stessa delle cose. Qualsiasi versione “ufficiale” che non collimi con la propria visione è sbrigativamente liquidata dal complottista come espressione di interessi occulti o ad essi asserviti. [1
Si tratta peraltro di una visione composita, che include dinamiche socio-politiche, psicologiche e comunicative. In questa sede l’attenzione sarà concentrata sulla prima sfera senza tuttavia rimuovere la rilevanza delle altre componenti e dei processi di interazione che ad esse presiedono. La relazione fra inclinazione al complottismo e personalità paranoica, ad esempio, è ben nota ed è stata da tempo indagata dagli studiosi del ramo. [2] I cosiddetti neopopulismi, in particolare, hanno trovato il proprio habitat e il proprio megafono socio-culturale nel sistema dei media digitali più permeabili dalla subcultura complottista. L’identità complottista è anche fortemente segnata da un rapporto con la scienza che tradisce la contraddizione propria dell’intera architettura ideologica del populismo. Il complottismo, anti-scientista per definizione, non esita infatti a far ricorso alle più strampalate fantasie contrabbandandole per verità taciute o artatamente negate da poteri occulti o fantomatici gruppi di pressione. Obbligato a sottrarsi al principio di falsificabilità, non può che affidarsi a procedure logiche di tipo circolare e assertivo: proprio l’impossibilità di fornire prove delle proprie affermazioni consente di sostenere le tesi più bizzarre come rivelazioni di qualche verità negata, taciuta o manipolata. Viene in questo modo spacciata per contro-verità una professione di fede di tipo dogmatico, sottratta all’onere della prova e quasi sempre di forte impronta settaria.
Secondo alcuni studiosi, il complottismo – o meglio la sua primaria forma mentis – avrebbe origini remotissime. Risalirebbe addirittura all’età del Neolitico (fra l’8000 e il 3.500 a.C.) e alle influenze del pensiero magico che avrebbero permeato via via il più complesso sistema di relazioni sociali generato dall’invenzione dell’agricoltura, dalla sedentarizzazione e dal costituirsi di quell’idea di confine e di possesso che produrrà «l’invenzione della guerra». Il fenomeno ha peraltro conosciuto nel tempo variazioni e trasformazioni che si faranno più significative quando entrerà in relazione prima con le ideologie politiche del Novecento e poi con la transizione culturale in corso dalla modernità alla cosiddetta post-modernità. Ciò non ne ha però alterato i tratti costitutivi. Suggestiva ma difficilmente dimostrabile, ad esempio, è la teoria secondo cui la cultura del sospetto costituirebbe un esempio di quelle azioni non-logiche descritte da Vilfredo Pareto nel suo Trattato di sociologia generale (1916, § 161). Esse risponderebbero non a ragionamenti e dimostrazioni bensì a stati psichici propri della condizione umana e rinvenibili in tutti i tempi e ad ogni latitudine. Le azioni non-logiche paretiane, come quelle messe quotidianamente in atto da tutti noi, necessitano tuttavia di qualche forma di argomentazione giustificativa che fornisca loro una parvenza di razionalità. In un’ottica paretiana, dunque, il conflitto politico costituisce il terreno privilegiato del complottismo e delle dinamiche di invenzione, giustificazione e conferma cui esso dà vita. L’idea di una società composta di masse anonime e incapaci di governarsi genererebbe specularmente quella di un potere necessariamente élitario. La circolazione delle élites che presiede alla conquista e all’esercizio del potere, per quanto concepita in chiave ‘darwiniana’, non basta però a rimuovere conflittualità e incertezza. È dunque prima di tutto un’insicurezza diffusa che alimenta le cosiddette culture del sospetto. Esse assorbono, metabolizzano e riproducono all’infinito «residui e derivazioni» della storia politica dell’umanità rappresentando il male come il prodotto di subdole e consapevoli cospirazioni e macchinazioni, ispirate e attuate da nemici spesso occulti e sempre per finalità illecite o comunque contrarie ai nostri interessi.
La relazione fra populismo e complottismo si fa così evidente, presentando però due varianti significative. Per un verso, prende forma un complottismo populista che fa sistematicamente e spontaneamente leva sulla disinformazione, su una narrazione banalizzante della politica e sulla criminalizzazione del potere in quanto tale. Esso può così acquistare popolarità a buon mercato eccitando gli spiriti animali mai sopiti dell’insoddisfazione e del risentimento. Per un altro verso, però, si affaccia una versione più sofisticata del complottismo, intesa come una consapevole strategia di cattura del consenso orientata a finalità elettorali o a campagne di delegittimazione e/o denigrazione del «nemico». È questo il territorio proprio del complottismo professionale. Quasi sempre gestita da vere e proprie agenzie, lautamente retribuite e incistate nel sistema dei vecchi e nuovi media, questa incarnazione del fenomeno di cui ci occupiamo è al servizio di un sistema proteiforme a cavallo fra sfera economica, politica e comunicativa e a servizio di quelli che la politologia anglosassone ha battezzato vested interests.
È stata la carta stampata a rappresentare per almeno un secolo, nella stagione della modernità, il principale veicolo delle campagne, più o meno sistematiche, riconducibili al paradigma complottista. Più tardi esse si sono venute avvalendo di tutti gli strumenti messi via via a disposizione dalla rivoluzione dei media che ha attraversato il Novecento conoscendo una vertiginosa accelerazione a cavallo di XX e XXI secolo ed entrando in simbiosi con le applicazioni sempre più sofisticate della telematica e dell’innovazione digitale. Sconfinata è la galassia di quei social media che rappresentano l’habitat privilegiato di ogni tipo di complottismo contemporaneo. Un caso di studio esemplare è rappresentato dalla vittoriosa campagna nelle Presidenziali USA del 2016, condotta da Donald Trump contro la rivale Hillarry Clinton. In quell’occasione il tycoon repubblicano ottenne tre milioni di voti popolari in meno rispetto alla rivale che lo staccò nettamente anche nel voto dello Stato di New York dove entrambi risiedevano. Il candidato conservatore prevalse però grazie alla distribuzione dei seggi dei grandi elettori e a una campagna scientificamente pianificata dai suoi spin doctor. La propaganda trumpiana attivò tutti gli strumenti dell’allarme sociale declinandoli con l’enfasi e l’aggressività proprie di quel modello subculturale. Il populismo mediatico aveva conosciuto il suo battesimo del fuoco utilizzando peraltro ingredienti ben poco originali. Si faceva leva su un risentimento diffuso verso l’establishment: avere per avversaria una Clinton rendeva il gioco facile e remunerativo. Una polemica incendiaria investiva senza distinguo l’intero ceto politico, dipingendo un miliardario da sempre in combutta con la peggiore politica come l’angelo vendicatore di un popolo oppresso dalle tasse e indignato dalla corruzione. Un programma ispirato alla più vieta demagogia mirava a eccitare gli spiriti animali di una middle class timorosa di declassamento sociale. Per alimentare nei ceti popolari un’insicurezza elettoralmente remunerativa per il fronte repubblicano si faceva invece ricorso alla strategia della paura denunciando le presunte macchinazioni, l’irresponsabilità e l’incapacità di avversari pronti ad abbandonare al proprio destino i meno fortunati. La teatrale demonizzazione dell’avversario (ovviamente la Clinton e il Partito democratico, ma con essi l’intellighentsia liberal, i movimenti per i diritti, le minoranze attive) veniva sceneggiata adottando i codici e i mezzi propri dell’universo digitale. I più triti ingredienti propagandistici venivano efficacemente rivisitati e declinati tramite un’offerta mediatica di inedita potenza e capacità di penetrazione. Per la prima volta l’impiego dei social consentiva di selezionare e persino di personalizzare in una certa misura l’offerta politica esasperandone i tratti ansiogeni e sottraendosi sistematicamente al confronto con l’avversario. Pratica quest’ultima ricorrente nelle campagne a elevato tasso di demagogia e di personalizzazione, come già nel caso della propaganda berlusconiana. [3]
Allo scopo di drammatizzare il confronto, i registi della campagna trumpiana utilizzarono, talvolta persino enfatizzandoli, proprio quei tratti della personalità del tycoon che potevano rappresentare altrettanti talloni d’Achille per un candidato a governare una grande potenza. L’istrionismo e l’aggressività verbale, l’evocazione degli spiriti animali dell’antipolitica, il rifiuto sprezzante del politically correct, il ricorso sistematico alla menzogna, la continua violazione delle regole del gioco rompevano deliberatamente gli schemi tradizionali. Lungi dal rappresentare possibili handicap, essi agirono come moltiplicatori dell’impatto comunicativo del leader, sostenuto da una costellazione di social media capaci di comunicare con fasce di elettorato difficilmente raggiungibili con i classici strumenti della propaganda. La campagna trumpiana del 2016 disegnò insomma l’archetipo di un complottismo “di potere”, incarnato da un rozzo outsider miliardario capace persino – come sarebbe avvenuto qualche anno più tardi con l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021 – di dare fisicamente corpo all’aggressione alla democrazia. In quell’occasione a dar fuoco alle polveri sarebbe stata ancora una volta una sorta di leggenda metropolitana che descriveva la sconfitta di Donald Trump, dopo una presidenza scandita da disastri politici e promesse non mantenute, come l’esito di una congiura planetaria ordita nell’ombra da misteriosi poteri a favore del candidato democratico John Biden. Quella delle Presidenziali 2020 rappresenta dunque, in questa chiave, una vicenda davvero esemplare se, come ha scritto Breton Brotherton, «…Una teoria del complotto non è semplicemente una delle possibili spiegazioni fra altre parimenti plausibili. La formula va piuttosto riferita alla pura e semplice negazione di un resoconto più plausibile e ampiamente accettato… [Le credenze cospiratorie] sono invariabilmente in contrasto con le affermazioni che godono del più ampio consenso fra scienziati, storici o qualsiasi altro giudice in grado di valutare con competenza la veridicità dell’affermazione». [4]
Il fenomeno, come si è accennato, ha conosciuto nel tempo non poche metamorfosi. In qualche caso la narrazione politica populista si confonde con la parodia di sé stessa e alcuni osservatori americani l’hanno impietosamente associata a episodi ridicoli, ma non per questo meno inquietanti [5] Per alcuni aspetti, d’altronde, il complottismo assomiglia a un grande gioco di ruolo collettivo. La parodia è sempre border-line con l’affermazione di verità fittizie che vengono tuttavia declinate variamente a seconda dei contesti nazionali. In Italia, ad esempio, sono abbastanza rari casi che richiamino le più plateali bufale made in Usa. La politica nazionale ha rappresentato però non di rado il terreno di una rappresentazione complottistica della politica nazionale. Non va dimenticato, d’altronde, come l’Italia abbia rappresentato a lungo il Paese europeo più martoriato da insorgenze terroristiche. Una storia sanguinosa che conserva aspetti mai completamente chiariti alimenta ancora ipotesi e narrazioni inquietanti come quelle relative alle “stragi di Stato”. Il filo insanguinato degli attacchi alla democrazia si è da noi dipanato nel tempo per quasi un decennio, a partire dalle stragi del 12 dicembre 1969 (a Milano, Piazza Fontana, e a Roma) per arrivare sino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro fra il marzo e il maggio del 1978. Troppi interrogativi non hanno trovato a tutt’oggi risposta. La stagione del terrorismo ha così rappresentato l’ideale brodo di coltura per una sorta di complottismo di massa che la ricerca storica e l’analisi socio-politica non hanno ancora saputo dissipare come sarebbe ancora necessario. [6]
NICOLA R. PORRO
Caro Nicola sono attratto dal lato epistemologico della questione e su tale dimensione cercherò di riflettere.
Il punto debole dell’asserto complottista è , come hai indicato, la sue “non-falsificabilità”.
Seguendo le indicazioni popperiane ciò significa che siamo di fronte ad un asserto pseudo-scientifico e come tale “dovrebbe” essere rigettato. L’accoglienza dell’asserto è però dovuta al fatto che non siamo nell’ambito di una comunità scientifica ma, al contrario, siamo nel pieno delle masse attratte dal fascino della opinione sofistica.
Perchè l’asserto è non scientifico? Perchè non è “falsificabile”. Ovvero la classe dei suoi falsificatori è vuota. Una proposizione è scientificamente accettabile, dunque seria, se e solo se è posta in termini logici come “modus tollens: “se piove le strade sono bagnate, le strade non sono bagnate, dunque non piove!Se l’enunciato del complotto non possiede quest aspetto formale è allora impossibile controllare la veridicità dell’asserto.
Ma, riconosco, che tutto questo è risibile a fronte di masse eccitate, avide di comunicazione formale: non interessa sapere se il concetto sia vero o falso, ne se le parole che vengono utilizzate siano appropriate. Interessa solo la morte dell’avversario e la persuasione dovuta alla capacità tecnica del “retore” (si fa per dire). L’eristica è la strada maestra, non la logica. E qui il criterio paretiano da te citato fa bella mostra di sè.
Noi viviamo in un mondo controllato dalla sofistica ma a differenza di Atene non esiste alcuna “paideia”. Il populismo nostrano è sofistica senza virtù!
Carlo alberto
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Leggendoti, mi è venuta in mente la teoria gnostica degli arconti, entità invisibili responsabili dei mali del mondo, un male che non è appartenente alla struttura stessa del reale soggetta anche al caso, ma è riconducibile a una perversa volontà di dominio.
In tal senso il complottismo è una religione secolarizzata in cui le masse si autoassolvono individuando il Grande Nemico, senza le cui oscure trame non vi sarebbe sofferenza. L’idea di storia come conflitto di classi viene sostituita da uno scontro morale, se non addirittura metafisico, fra il Bene il Male.
Ettore
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