C’è un futuro per la democrazia?

di NICOLA R. PORRO

L’incubo della guerra lo avevamo rimosso. O meglio: l‘avevamo accantonato. Ci sono voluti il conflitto fra Russia e Ucraina a un passo dal cuore dell’Europa e poi la sanguinosa crisi di Gaza per destarci dal torpore delle coscienze. Come di consueto, ci siamo legittimamente divisi nel merito rimuovendo del tutto altri scenari di guerra, come quello che oppone (o ha opposto, stante il ripiegamento militare armeno) Armenia e Azeirbagian. Senza dimenticare tutte le altre crisi affrontate armi in pugno e che coinvolgono attualmente più di settanta Paesi: una vasta porzione dell’umanità. Prima di sviluppare qualche riflessione è però opportuno definire preliminarmente l’oggetto della questione: Che cosa intendiamo con la parola guerra? L’enciclopedia Treccani ne fornisce una definizione sintetica a asettica: “un fenomeno collettivo che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi organizzati”. Non è perciò necessario che il conflitto riguardi solo due o più Stati sovrani. Anche la repressione violenta condotta in armi da uno Stato contro una fazione ribelle oppure contro un’organizzazione criminale appartengono a rigore alla categoria di guerra. Lo stesso linguaggio giornalistico, d’altronde, fa un uso ampio ed estensivo della categoria di guerra. Intanto, alla tragica contabilità delle guerre ci siamo assuefatti. Il numero delle vittime, le distruzioni materiali, la dissipazione di risorse materiali e morali scivolano sulla nostra indifferenza, assuefatti come siamo a convivere con il minimo indispensabile di partecipazione a tanto dolore. Poca attenzione viene però prestata agli effetti che una costellazione tanto estesa di guerre di ogni natura e di ogni tipo, combattute in ogni angolo del mondo, narrate e spettacolarizzate dal sistema planetario dei media, produce sulla democrazia. Un valente politologo italiano, Carlo Galli, ha preso di petto la questione in un suo lavoro recentissimo (Democrazia, ultimo atto?, Torino, Einaudi, 2023, pp. 144). La riflessione muove da una constatazione: la democrazia appare ovunque stremata e, in qualche caso, palesemente malata, quasi fosse espressione di un tempo passato e di una visione incapace di governare il secolo della crisi e persino di descriverlo. La democrazia occidentale, in particolare – quella che aveva dato forma politica alla stagione del benessere crescente e di una seppur parziale redistribuzione della ricchezza – sta forse per essere consegnata alle memorie del Novecento? Dove sono finite le istanze egualitarie che avevano attraversato il XX secolo, identificandosi sia in pulsioni rivoluzionarie sia in esperienze di riformismo socialdemocratico? Gli stessi governi progressisti sono ancora in grado di dare risposta alle maggiori emergenze del presente, dall’economia globalizzata alla sanità intesa come diritto pubblico agli equilibri geopolitici sconvolti dal ritorno delle guerre? Interrogativi che interpellano l’Italia ma anche le altre democrazie.

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A dare consistenza alle preoccupazioni di Galli ci sono argomenti concreti. La disaffezione di massa per le sorti del bene comune si manifesta, ad esempio, nella continua crescita dell’astensionismo elettorale, una contestazione silenziosa espressione di un ri-sentimento sociale che Galli battezza «solitudine repubblicana». Le diseguaglianze crescono ovunque e insieme si modifica il profilo dell’esclusione sviluppando aree sempre più estese di disperazione sociale. La crisi colpisce infatti più duramente fasce di popolazione che si ritenevano al riparo dal rischio del declassamento di status. La ricerca di un qualche capro espiatorio, sbrigativamente individuato nel soggetto più debole, i migranti, è alimentata ovunque da una destra sempre più incline a un populismo sbracato quanto aggressivo. Le sinistre, dal canto loro, non sembrano comprendere fino in fondo le cause e le possibili conseguenze della crisi in atto. La democrazia, ultima religione civile dell’Occidente – la sola sopravvissuta alla fine delle ideologie – sembra una fortezza assediata e pericolante. Confinata in quella parte d’Europa che conosce il più massiccio declino demografico del pianeta, rischia di morire per consunzione proprio lì dove era nata. Persino l’idea forza di libertà, inscindibile da quella di democrazia, sembra aver perso vigore insieme al sogno della “pace perpetua” vagheggiata da Immanuel Kant alla fine del XVIII secolo.  Ritengo però che non vada trascurato qualche segnale in controtendenza che si è manifestato di recente proprio nel contesto europeo. Nel luglio 2023, ad esempio, il voto degli spagnoli non ha alimentato, come si temeva, la fiammata sovranista. Tre mesi più tardi la destra polacca antieuropeista ha subito una pesante battuta d’arresto. Nello stesso periodo tutti i sondaggi segnalavano in Gran Bretagna una robusta crescita dei consensi ai laburisti di Starmer. Anche l’estremismo sguaiato della ultradestra populista, cui Salvini ha fornito l’imprinting, stenta a incassare i dividendi elettorali dell’insicurezza diffusa generata dalla crisi ucraina e poi da quella palestinese. Il panorama si presenta perciò frastagliato e le prospettive non scontate. La democrazia, del resto, non conosce destini obbligati e irreversibili: è l’istituzione garante della libertà, ma la stessa idea di libertà è stata declinata nel tempo e nello spazio nelle forme più disparate riuscendo sempre a trasformarsi e a risorgere dalle proprie ceneri. La sua forza potrebbe risiedere proprio nel trasformare in duttilità e capacità di adattamento la propria apparente fragilità. Nel tempo presente la sfida consiste nella sua capacità di (ri)pensarsi al di fuori degli schemi del Novecento. Dopo aver a lungo convissuto con le logiche del conflitto e della forza, deve rigenerarsi come un potere disarmato, capace di civilizzare la globalizzazione e di contenerne gli spiriti animali. Ciò significa combinare libertà individuale e uguaglianza civile, principio di legalità e Stato di diritto, libertà economica e solidarietà. E occorre farlo adottando i linguaggi della rivoluzione digitale e governando quella complessità del sociale che, ci piaccia o no, costituisce il luogo in cui si esprime e si esercita la domanda di libertà.

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Anche l’idea ispiratrice di progresso non va ridotta al sogno di un immaginario “sol dell’avvenire”. Osserva anzi Galli come – a dispetto delle retoriche anticonsumistiche – siano stati soprattutto la società dei consumi e i sistemi di Welfare a trasformare anche in Europa i sudditi in cittadini. La «società opulenta» descritta da Galbraith coinciderebbe così con la «società aperta» di Popper e l’esplosione demografica conosciuta dall’Occidente nelle prime decadi del secondo dopoguerra ne fornirebbe una conferma probante. In quella stagione, infatti, la ricostruzione democratica avrebbe seppe regolare in forme non repressive il conflitto sociale e garantire i diritti fondamentali calpestati dai totalitarismi fra le due guerre. Un processo che si sarebbe esaurito nel 1971, quando l’allora Presidente Usa Richard Nixon cancellò la convertibilità del dollaro in oro. La fine del gold standard, motivata dalla crescente difficoltà degli Stati nel sostenere i costi delle politiche sociali, rinnegava infatti la filosofia sociale del welfare con il consenso delle aree più radicali degli opposti schieramenti politici. Da una parte, infatti, la destra liberista rappresentava lo Stato sociale come anticamera del nichilismo e del collettivismo. Dall’altra, il massimalismo della sinistra radicale tornava a denunciare l’“inganno del welfare” come insidioso strumento di compromesso fra capitale e lavoro, fra borghesia e proletariato. Naufragato il sogno della palingenesi comunista, consumatasi nell’orrore l’esperienza dei fascismi fra le due guerre, svaniva così anche l’illusione liberal-democratica. Negli anni Ottanta Ronald Reagan e Margaret Thatcher avrebbero imposto la filosofia della democrazia liberista, radicalmente opposta, a dispetto dell’assonanza lessicale, alla liberal-democrazia. Il capitalismo duro e puro tornava a occupare la scena atteggiandosi a interprete di un nuovo modello di civiltà. Nel concreto, avrebbe più prosaicamente perseguito politiche economiche fondate non più sul contrasto alla disoccupazione bensì su una guerra senza quartiere all’inflazione. Costrette sulla difensiva, le stesse sinistre occidentali si sarebbero non di rado limitate al tentativo di contenere gli eccessi del liberismo e di lenirne gli effetti sociali. Le conseguenze dell’offensiva liberista fra gli Ottanta e i Novanta, proseguita con alterne fortune sino ai giorni nostri, si sono via via concentrate su settori strategici come la conoscenza e il potere. Si è così creato un universo sociale di nuovi esclusi, che richiama la «folla solitaria» descritta da David Riesman agli albori degli anni Cinquanta: una società di persone desolatamente sole, private persino dell’identità collettiva e della dignità ideologica delle tradizionali categorie di classe o di massa. Ha preso forma per questa via un processo di de-democratizzazione che in Italia e altrove ha trovato un’eco paradossale nelle stesse forze di opposizione. Si pensi soltanto alla rabbiosa quanto politicamente innocua litania anti-élite intonata dai nuovi populismi, eredi e continuatori del vecchio qualunquismo postbellico. Sintomatico in questa chiave di lettura è anche il ricorso alla formula linguistica di post-democrazia. Al prefisso post, infatti, facciamo ricorso ogni volta che non sappiamo definire un oggetto se non riferendoci al suo banale ordine cronologico (qualcosa che viene dopo).

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Il futuro della democrazia, insomma, non è irreversibilmente compromesso ma la rappresentazione offerta dai maggiori politologi è certamente inquietante. La post-democrazia che si annuncia potrebbe tradursi in impunità di chi esercita il potere. Allo Stato di diritto potrebbe far seguito uno Stato securitario, generatore di paura come strumento di consenso politico. La rivoluzione comunicativa – nella fattispecie quella digitale – appare già in grado di costruire un immaginario di massa post-democratico. Galli utilizza in proposito come studio del caso la guerra di Ucraina iniziata con l’aggressione russa del febbraio 2022. Il suo retroterra ideologico risalirebbe a una forma di teologia politica, mai rinnegata dalle diverse incarnazioni del potere russo, dall’autocrazia zarista all’imperialismo sovietico fino al nazional-populismo putiniano. Non si tratta però soltanto dell’incompiuta democratizzazione di una potenza decaduta. Le “ragioni” di Putin sono infatti in sintonia con quelle di una specie di internazionale sovranista negatrice di quel diritto alla libertà dei popoli e alla sovranità degli Stati che fonda la liberal-democrazia. Solo vigilando sulle pulsioni populiste che lo percorrono e impedendo le derive populiste l’Occidente potrà sventare l’incubo di quella che Papa Francesco ha battezzato «guerra mondiale a pezzetti». Uno scenario materializzatosi tragicamente nell’ottobre 2023 con quell’aggressione di Hamas allo stato di Israele che potrebbe sfociare in un inedito conflitto planetario fra post-democrazie e democrature. In questo scenario drammatico ognuno deva fare la propria parte. Nessuna Intelligenza Artificiale ci salverà. Versione ipertecnologica della vecchia chiacchiera quotidiana, non potrà che assuefarsi alla banalità del male. A quella Intelligenza Artificiale non abbiamo bisogno di ispirarci: le assomigliamo già. Occorre piuttosto risvegliare e mobilitare l’uomo democratico condannato all’anonimato, ridotto a dato statistico, muto e impotente di fronte alla minaccia dell’apocalisse. La democrazia, però, non rappresenta soltanto la posta in palio di una sfida davvero epocale: rappresenta anche l’insostituibile risorsa per vincerla, quella sfida.

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NICOLA R. PORRO

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