VESPINA ED IL SOLENGO. Storia d’animali e d’una bestia.
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
S’avvicinava l’estate di San Martino. Dopo la calura che aveva arso la terra e flagellato i corpi con la perniciosa riempiendo di poveri esseri giallastri i lettucci del Fatebenefratelli di San Sisto ecco le prime piogge a spazzar via polvere ed ammollare la dura cotica erbosa. Era allora che i bifolchi cominciavano a cavar fuori dalla Banditella i buoi pascolanti preparandoli alla nuova faticosa stagione. Controllavano il gioco, i sottogola, il timone, ungevano le cinghie di grasso, tutto si disponeva per iniziare le grandi arature.
L’aria era schietta e rinfrescata dalle prime brezze della tramontana. I mosti cominciavano a spargere gli odori dell’autunno mescolandosi al forte dei graspi e delle bucce e delle sanse accumulate lungo le strade del Paese. L’antico miracolo di Martino sopraggiungeva improvviso come ogni anno aprendo il cielo per far penetrare un sole non più maligno in un autunno ormai già iniziato.
Ma San Martino non portava solo gioia, olio, vino e tepore. Sonava come campana a morto per il re della macchia che, sgrufando tra il fogliame e scavando di zanna e d’unghia il nero terriccio, rompeva il silenzio delle forre interne . Era il momento della cacciarella tanto attesa.
Il verro, protagonista del nostro racconto, pascolava rufolando accanto al fosso del Paternale quando il vento gli portò l’olezzo dell’ umano e della canea in movimento. Con la sua mole enorme s’era dritto a fatica dall’acquitrino che fiancheggiava il corso d’acqua. Da tempo divenuto solingo, dopo la morte di tanti suoi congiunti e carico d’ anni, aveva mostrato di cavarsela bene nei tanti attacchi da parte della più scaltra e più impietosa bestia della macchia. Ma sapeva altrettanto bene che la bestia alla lunga lo avrebbe sopraffatto con quel fuoco che sapeva sprigionare da lontano e che frangeva le ossa e maciullava le carni.
Fece fatica a rizzarsi in piedi anche per via di un antico piombo ficcatosi nel coscio destro che spesso gli cuoceva all’interno procurandogli fitte acute. Il solengo alzò in alto il grifo per sentire dal vento da dove proveniva il pericolo. Intercettò la posizione del nemico: era giù nel fondovalle che la turba dei demoni s’apprestava a risalire il fianco della montagna costellato d’un vasto ginestraio che in cresta si tramutava in un bosco di querciole impenetrabile mano a mano che ci si avvicinava al Paternale. Aveva tempo, dunque, di preparare il suo piano di fuga, come sempre.
Mentre la canea risaliva l’irsuto fianco, la Vespina s’era allontanata dal branco della canizza e si dirigeva veloce ad incontrare il fosso a valle. Da lì la vecchia cacciatrice aveva l’intenzione di seguire l’argine del corso d’acqua per giungere silente a cospetto del porcastro. Una vecchia esperienza di lotta aveva insegnato alla Vespina di aggirare la direzione di marcia del branco piombando senz’allarme sulla preda per poi dar sfogo all’ululato d’avvertimento e tener il più possibile fermo il verro.
Figlia d’un incognito sodalizio di padri, la seconda protagonista del nostro racconto vantava ben quattro quarti di bastardaggine. Scorreva nelle sue vene sangue di spinoncino mescolato al segugio a pelo forte meticciato con qualche volpino di passaggio. Coda corta, pelo riccioluto bianco maculato di nero o forse nero maculato di bianco. La Vespina sapeva essere temeraria in tana ed alzare la lepre lungo le maggesi, ma la sua maestria era scorrere nel bosco intercettando la passata dei porcastri.
Moveva l’animosità canina della nostra protagonista il ricordo d’un antico strazio causato dalle zanne d’un porco agguerrito che le aveva lacerato il ventre con una lunga ferita dalla quale le viscere erano presto fuoriuscite. L’immediato intervento con ago e filo del cacciatore suo padrone aveva rimesso tutto a posto.
Due animali con le loro cicatrici stavano per ingaggiare un combattimento, una lotta che forse non avrebbero mai intrapreso. Incontrandosi in piena libertà, se il caso così avesse deciso, al grugnito dell’uno avrebbe corrisposto il ringhio dell’altro ma difficilmente avrebbero scelto la sfida mortale. Ma Vespina non era libera, doveva dare soddisfazione a chi le forniva alimento e copertura e che richiedeva da lei tenacia, temerarietà, spietatezza. Ella doveva solo compiacere, andando anche oltre l’istinto.
Quando la cagna raggiunse la sommità, del verro era rimasto solo il forte tanfo. Si vedeva, al di là del fosso, il tracciato che l’animale aveva lasciato penetrando giù a rovina tra i rovi di ginepro protetto da quel musone a forma di cono penetrante e dalla durissima cotenna irta di dure setole .
Il solengo aveva così scanato ripetendo un vecchio modulo di successo. Invece di proseguire in alto verso la cima del monte, dove presumibilmente erano le poste, aveva giocato d’astuzia sforando lateralmente in parallelo della linea delle stesse.
La Vespina non perse tempo e si intrufolò lungo il percorso aperto dal suo nemico.
Giunto ormai sul pulito, sotto la grotta del Paternale, il solengo invaso dalla stanchezza si fermò decidendo di dar battaglia. S’accovacciò sul posteriore, gli arti anteriori allargati ed infissi sul terreno, la testa bassa pronta a proiettare con estremo vigore le zanne affilate verso l’alto per squarciare la carne. Soffiava di rabbia come un toro, tutto il suo massiccio corpo era in tensione apparendo come una roccia nera nella radura. Di fronte si parava il corpicino intrepido di Vespina che aveva iniziato il suo compito scanando con vigore al fine di di comunicare la posizione al resto della canea.
Un copione più volte sperimentato, una prassi di successo della cacciata. Ma, qualcosa doveva andar storto.
Forse fu l’istinto acuto di Vespina, forse il ricordo dell’antica ferita, forse il suo animo quel giorno era troppo rabbioso. Parve alla cagnetta che il verro in atto di combattimento fosse proprio lui, quel vecchio animalaccio che nel passato l’aveva colpita a morte. Nella testa di Vespina balenò allora una sola idea: il conto, l’antico conto, era da saldare! All’istante!
E lui, il verro, avrebbe potuto rinselvarsi uscendo dalla radura e far perdere le tracce. Ma era stanco. Stanco per gli anni, stanco perché sentiva l’ora del limite. La belva, la vecchia nemica di sempre, forte di una folta pattuglia di vampe fiammeggianti, con la muta agguerrita e con la spietatezza consueta l’avrebbe vinta una volta per tutte: era giunto il momento di soccombere.
Fu così che il solengo predispose l’animo alla fine.
Fu così che, Vespina, prima che giungesse la canea, volle iniziare la contesa.
Il verro soffia e grugnisce attendendo l’assalto col protendere il testone in avanti. Vespina mostra i denti, abbaiando con furia.
Vespina si slancia per l’azzanno al fianco posteriore. Il porcastro reagisce scrollandosi di dosso il cane. Ancora un assalto della cagnetta intrepida. Poi, il tentativo di massimo rischio: azzannare la gola, ma è azione impossibile. Evita di essere colpita dalle veloci torsioni del musone dell’animale. Riprende rabbiosa l’assalto afferrando saldamente l’anteriore. Ma a questo punto è gioco facile per il verro: dimena con estremo vigore il testone disegnando nell’aria un velocissimo semicerchio che scaraventa la cagnetta a tre metri di distanza. La lotta è terminata.
Nel mentre, ecco che la canea irrompe nella raduna e, circondando l’animale irsuto, lo costringe all’immobilità. I braccaioli irrompono con le loro urla e le fucilate in aria gettandosi avidi al massacro. Due, tre, quattro doppiette colpiscono il solengo che si schianta a terra irrorando di nero sangue il fogliame. Un ultimo slancio di vita: il muso si rizza e le fauci, emettendo un fiato di sangue, si aprono, si chiudono, si aprono ed infine stramazza a terra con un tonfo acuto.
Vespina è là immobile. Bava alla bocca, scalcetta sollevando il terriccio molle, la linguetta in mezzo ai denti, tutta è tremolante. Lo strido disperato del primo momento s’è tramutato in un rantolo sempre più fievole.
Ancora una volta le budella sono fuoriuscite facendo macabra mostra di loro. Il padrone s’ avvicina coll’ago in mano ma dopo poco s’accovaccia. Sputa rabbioso. Stende una mano sul muso dell’animale moribondo dicendo: T’ha morto quel maledetto! Sarà n’impresa sostituitte, Diobbono!
Due esseri lasciavano questo mondo senza sapere il perché. Per un altro essere si era presentato solo un inconveniente da risolvere. Niente di più!
. . .
Da quanto mi risulta (posso essere smentito da qualche serio zoologo o biologo) l’unico essere del creato ad uccidere in modo sadico, efferato, ingegnoso, straziante, raffinato è l’essere che “dovrebbe essere simile a Dio” (Homo simia Dei). Per uomo si intende il genere umano senza distinzione di sesso, colore, etnia, religione, ideologia generica.
Quindi, il senso del mio racconto che trae spunto dal momento presente è che l’animale non è bestiale, solo l’uomo può esserlo (come può essere angelo, musico, poeta, artista, saggio). L’uomo è l’unico essere al mondo che può essere bestiale (o angelo), l’unico a sperimentare il “peccato” (assente nell’animale). L’animale a fronte del “peccato” è innocente, sempre. Può essere pericoloso, mortalmente pericoloso, ma….
…………….NON POSSIAMO MAI CONFONDERE IL PERICOLO CON LA FEROCIA!!
CARLO ALBERTO FALZETTI

Racconto drammatico emozionante ; molto bello!
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