RUBRICA “BENI COMUNI”, 57. COME ET IN CHÉ MANIERA QUESTO SIA PERUENUTO AL CONUENTO… (2)

di FRANCESCO CORRENTI

(2 – continua dalla puntata precedente)

La scorsa settimana, accingendoci a ripartire dalla “piazza” di Civita Vecchia, mi ripromettevo di tornare sull’argomento trattato nella prima parte di questa puntata della rubrica n° 57, dedicata alle informazioni sui Beni Stabili del Convento domenicano di Santa Maria, quali risultavano dal cabreo “Campione”, opera imponente compilata dal padre Giuseppe Maria Fazi O.P. dal 1710 in poi. Ci eravamo soffermati, in particolare, su un episodio messo in luce da una annotazione ricorrente del cabreo e dalla spiegazione datane dal sacerdote, circa la scomparsa di antichi libri e registri della Libreria conventuale, gettati in mare – diverso tempo prima – da una finestra affacciata sul porto da frate Ambrogio, improvvisamente impazzito. Possiamo ragionevolmente ritenere che il frate sia stato punito con molta severità, ma su questo aspetto non abbiamo altra certezza che quella che ci danno i casi analoghi noti, così come è nata da una mia sensazione attribuire al suo “folle” gesto uno scopo caritatevole del tutto disinteressato e generoso, sempre che i beneficiati non fossero suoi parenti. Altrettanto ipotetico – come ho già chiarito – l’aver attribuito a padre Fazi ed a padre Labat quei sentimenti di simpatia che ho descritto ripetutamente l’altra volta ed in altre occasioni.

Tornando al punto di partenza, ossia in quella zona della nostra Civita Vecchia da dove abbiamo visto in procinto di partire una carrozza di posta con alcuni viaggiatori, tra i quali quella che avevo definito una “nostra vecchia conoscenza”,

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i gentili Lettori hanno certamente riconosciuto alcuni elementi caratteristici della città, sia pure resi “pittoricamente” in forme quasi più simboliche che realistiche. Ho voluto replicare la stessa veduta, ma qualche tempo dopo la scena precedente. Siamo nello spazio aperto tra le due Porte Romane, quella di Pio V Ghisleri del 1569/71, che non vediamo ed è alla nostra destra, e quella della Torre detta – come ormai tutti sanno – del Barone, nella cinta chiamata “castellana”. Ossia in quel recinto di mura che non si suole definire medioevale ma che in effetti lo è a pieno titolo, che ha visto comunque un intervento costruttivo o semplicemente di rafforzo da parte di papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, come prova il suo stemma dai cinque crescenti di luna su in alto alla cortina verso monte, oggi di fronte alla chiesuola di San Giovanni che darà nome a quella piazza. E qui voglio dire che se parlo di “piazza San Giovanni”, di “piazza d’armi”, di “piazzetta del Pesce” o ancora di “piazza Leandra”, “piazza San Francesco” o “piazza Padella”, mi riferisco ad uno dei rari “slarghi” della viabilità nel tessuto urbano.

I Lettori possono andare a rileggere in proposito l’articolo “La città senza piazze” del 24 maggio 2022, dove è riportava l’introduzione da me fatta alla mostra di Paolo Portoghesi in Fortezza il 14 novembre 1996, all’origine di qualche divergenza tra amici a proposito di questa mancanza, a Civita Vecchia, di un luogo tipico dell’urbanistica italiana nei “secoli d’oro” dei Comuni e delle Città Capitali (ringrazio ancora Annalisa Tomassini per le sue parole di apprezzamento di quel discorso su sguardi e ciarle). Perché, repetita iuvant, c’è poco da dire, nella città portuale mancavano le piazze quali luoghi di vita civica o comunque di partecipazione popolare ad eventi, attività ed espressioni “politiche”:

  • non la piazza religiosa, la piazza/sagrato: l’antica piazzetta di santa Maria era un piccolo slargo di fianco alla chiesa parrocchiale, senza alcun rapporto con essa. Vi si teneva in certi giorni il mercato del pesce ma non era neppure il secondo tipo di piazza,
  • la piazza commerciale, perché non ne aveva le dimensioni né l’animazione, l’atmosfera, l’importanza economica: i pescatori non erano civitavecchiesi, ma pozzolani e gaetani, napoletani. Venivano dal Regno di Napoli e avevano fretta di portare il pesce migliore alle “Case nuove” (verso l’attuale largo Caprera), dove potevano venderlo a buon prezzo ai mercanti che rifornivano Roma;
  • tanto meno esisteva la piazza civica, consacrata alle adunanze del popolo, perché solo alla fine del Seicento la città ebbe un palazzo comunale, che tuttavia era espressione e sede del Governatore prelato, più che dei rappresentanti della Comunità democraticamente eletti da una minoranza che infatti divenne una aristocrazia “senza antenati” (tutta da inventare, come fu infatti inventata).

Per inciso, ho omesso – nella mia veduta – proprio il Palazzo della Comunità o Palazzo Magistrale, costruito nel 1694-95 (chirografo di Innocenzo XII Pignatelli) proprio abbattendo l’«antico arco» e una piccola sede antecedente, aprendo l’imbocco della Prima Strada. Vi fu piazzato lì accanto l’albero marmoreo della demolita fontana di Sisto V Peretti (e sento già i commenti: “il Broccolo!”). Ho disegnato la porta di questo “Archetto”, come appare nei magnifici disegni di Carlo Fontana (Fondo Chigi P.VII della BAV), lo schizzo dal vero, appuntato sul posto, e la messa in pulito, a studio, sul tavolo da disegno, databili al 1662. Disegni che io ho avuto il privilegio (era l’uso di allora) in quegli anni fine Settanta delle mie più intense ricerche, di tenere in mano, alla Biblioteca Vaticana, potendoli maneggiare – certo con cura e reverenza – e scrutare da vicino, a scoprirne ogni dettaglio e confrontandone le differenze. La mia veduta riporta poi l’ingresso ad un vicolo che ricorda quello che portava a Camp’Orsino.

Mancano tratti di mura e di caseggiati con una torre, mentre ho disegnato l’ultima su questo lato meridionale, quella rotonda sull’angolo dietro la chiesa della Stella. Lì vicino ho raffigurato, come appare nell’affresco di Danti ma visto da dietro, il Lavatore che dava nome a quella via in salita, e altri particolari del medesimo dipinto, come il bucato steso e la Colonna votiva, su uno sfondo di spalti dei bastioni che riprende la veduta con l’Arsenale, mentre quell’accenno di scalinata a destra suggerisce la presenza del famoso “Monte delle Ciarle” e della prima, piccola chiesa di San Francesco. Queste annotazioni e questi riferimenti vogliono, nelle mie intenzioni, aiutare i Lettori “non addetti ai lavori” nel seguire con cognizione di causa e senza equivoci e confusione lo sviluppo urbanistico della Città. Nelle prossime puntate, quindi, proverò a ricordare quei collegamenti che possano tornare utili a tale scopo. Aiutandomi, appunto, con le immagini, partendo dalla immensa mole di documenti iconografici di grandi artisti giuntici dai secoli passati e apprendendo dalla fondamentale opera letteraria (ma accompagnata dai suoi stessi disegni, anche miracolosamente riconosciuti e ritrovati!) della nostra guida e maestro impareggiabile Jean-Baptiste Labat. Il quale, essendo architetto, per fortuna nostra, parla nelle sue descrizioni di quello che vede con i suoi occhi nei viaggi, cioè di città e di case, di come sono fatte, del loro aspetto, della loro “bellezza o laidezza”, con sguardo da esperto e non da turista o da cronista, riportando le sue impressioni, prima che le vicende storiche avulse dal “contesto”, anzi legando e collegando queste a quello. Ed è l’unico a farlo, tra le tantissime historie, storie e storielle di cui disponiamo.

Così, informeremo i Lettori dei contenuti dei documenti da cui abbiamo tratto le nostre interpretazioni, in attesa dell’auspicato ripristino del CDU, come appunto adesso, parlando della cinta tardo-quattrocentesca. Che tale cinta urbica fosse stata già iniziata da Niccolò V, eletto nel 1447, o da Callisto III, lo lascia pensare Giorgio Vasari, che fa eco alle parole del Manetti («A Civitavecchia fece molti belli e magnifici edifizj») riferendosi a Bernardo Rossellino, che di Niccolò fu l’architetto in quasi tutti gli interventi del suo vasto programma di rifondazione, anche materiale dello Stato e che ritroviamo fecondo e geniale collaboratore di Pio II in quella meraviglia di natura, paesaggio, arte, architettura e vita che è Pienza.

Con tutta la nostra ammirazione e devozione ai Rossellino, ai Piccolomini, ai Labat, ai Fazi ed a tutte quelle altre persone dalle quali abbiamo tratto insegnamento e ispirazione nelle nostre, certamente modeste ma non stupide, ricerche per la conservazione, l’uso e la valorizzazione dei nostri Beni Comuni.

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FRANCESCO CORRENTI

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