“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – IL DIVINO CALCIO (parte 2)
di STEFANO CERVARELLI ♦
Dicevamo: globale il mondo, globale il pallone, globali le religioni. Leggiamo, a tal proposito, cosa dice don Riccardo Robella, dal 2015 cappellano del Torino: “Oggi le squadre sono multinazionali, dentro alle quali c’è un po’ di tutto; tra i granata c’è un ceppo italiano, generalmente cattolico, uno sudamericano protestante, uno dell’area ex jugoslava, vuoi ortodosso ovuoi musulmano”. Detto del ceppo cattolico, in ambito protestante, è oramai particolarmente noto il gruppo degli “Atleti di Cristo”. Il movimento ha visto come fondatori negli anni ottanta i brasiliani Baltazar Maria de Morais Junior, già attaccante dell’Atletico Madrid, e da Joao Leite da Selva Neto, già portiere dell’Atletico Mineiro. Diffuso sopratutto in Brasile i suoi seguaci, appassionati di Bibbia e ferventi evangelizzatori, contano una buona base anche in Italia; la loro pagina Facebook è seguita da oltre 5.500 followers.
Per quanto riguarda i calciatori musulmani nel 2014 il giornalista sportivo francese Nicolas Vilas pubblicò una ricerca intitolata DIEU FOOTBALL CLUB nella quale esaminava i problemi davanti ai quali si trovano, e si trovano, i calciatori di fede islamica.
Ad esempio come armonizzare il digiuno prescritto durante il Ramadan e gli altissimi livelli di performance ai quali sono chiamati? Come conciliare gli obblighi alimentari dell’Islam con una dieta adatta ai professionisti? E nello spogliatoio come fare la doccia senza restare nudi davanti ai compagni di un’altra o di nessuna fede?
A tale proposito non va dimenticato che problemi più grandi si toccano nell’ambito del calcio femminile; tanto per fare un caso limite pensiamo alle giocatrici dell’embrionale Bastan Football Club di Herat, in Afganistan. Queste si vedono costrette a dover scegliere tra un minimo di emancipazione tramite appunto il calcio ed i DIKTAT dell’Islam politico dei talebani – vale a dire tra la fuga e il continuare a giocare – autocomandosi così alla morte; diverse di loro sono riuscite a scappare all’estero; di queste alcune vivono in Italia, ospiti del centro storico Lebowski, popolare squadra dilettantistica della Caritas di Firenze.
Infine anche nel mondo del pallone c’è un “terzo livello”, quello della fede personale dei singoli, anche se quest’ultima, non di rado, appare, più che come fede, come superstizione.
Spesso sui rettangoli verdi sembra di osservare l’antico “Dio è con noi”, ovviamente non più in chiave bellica ma sportiva.
Qui immediato è il ritorno con il pensiero ai Mondiali del 2002, allorché il commissario tecnico di allora, Giovanni Trapattoni, sparse acqua benedetta sul campo per propiziare la vittoria azzurra.
A fronte di tali episodi, si può soltanto sorridere oppure ricavarne materia per alimentare il proprio agnosticismo, come fece il grande campione Johan Cruyff che disse: ”Se in ventidue si fanno il segno della croce prima della partita, se contasse qualcosa, perché allora questa non finisce pari?”.
Restando su questa linea mi piace far ricorso alle intuizioni di sapienza popolare come quelle, ad esempio, lasciateci da Guareschi nei suoi indimenticabili racconti di DON CAMILLO.
Al famoso parroco di Brescello Guareschi faceva dire: “Signore, perché non mi hai aiutato? Ho perso” al termine di una partita disputata dalla sua squadra, democristiana, contro quella comunista di Peppone. Il Signore a questa domanda rispose: “E perché dovevo aiutare te e non gli altri? Ventidue gambe quelle dei tuoi uomini, ventidue quelle degli altri. Io non posso occuparmi di affari di gambe. Io mi occupo di anime”.
Eppure con il sentire dei calciatori bisogna andare a fondo, come spiega chi vive a contatto con loro; sentiamo ancora don Robella: “Non siamo davanti a qualcosa di patologico. Il calcio è un mondo superstizioso, ma non sulla religione; le scaramanzie non toccano i cuore della fede, toccano altro”.
Che cosa? Ce lo spiega Massimo Camisasca, oggi vescovo benemerito di Reggio Emilia e negli anni ottanta e novanta cappellano del Milan di Sacchi, la famosa squadra degli olandesi: “La superstizione esteriore è visibilissima; spesso i giocatori vivono con la paura che in un attimo – un gol mancato, un infortunio – si giochi la loro esistenza. Da qui questa dimensione che sfiora la magia, ma che non diventa una credenza magica e che interiormente è molto sfumata”.
Emblematiche le parole di Marco di Vaio, 142 reti in serie A, rivolte ad un sacerdote che gli chiedeva cosa ci facesse un prete in mezzo a loro: “Non siamo diversi dagli altri, forse noi giocatori ne abbiamo più bisogno di altri, data la nostra condizione” riferendosi al fatto che successo ed ampie possibilità economiche possono davvero portare fuori strada ventenni baciati dalla fortuna. La conferma viene ancora dalla parole del vescovo Camisasca: “I calciatori hanno bisogno di qualcuno a fianco; alcuni di loro, davanti a relazioni precoci, matrimoni precoci, e anche fallimenti precoci, si portano dentro domande veramente inquietanti alle quali cercano, e devono trovare, risposte”.
Senza poi parlare quando la malattia grave entra prepotentemente nel mondo del pallone, nella vita dorata di un calciatore che forse si sentiva immune da tutto.
In definitiva il mondo del pallone non sembra un mondo impermeabile alla fede e credi religiosi. Per capire meglio servirebbe, forse, l’apporto di un teologo capace di fornire periodicamente una lettura “sapienziale” dell’attualità calcistica; esperimento questo già compiuto nel tennis per merito del biblista Ludwig Monti, curatore di una rubrica dal titolo La Bibbia del Tennis pubblicata sulla rivista Il Tennis italiano.
Per concludere ricordiamo ancora una volta le parole di Don Camillo rivolte nientepopodimeno che al Cristo: “Non potete capirmi, lo sport è una faccenda tutta speciale. Chi c’è dentro c’è dentro e chi non c’è dentro non c’è dentro”. E’ così.
Con la sua ironia l’aveva capito bene il cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003: “Di tutte le fedi, quella calcistica è la più misteriosa”.
(Fine)
STEFANO CERVARELLI

Che bel contributo! Mi fai tornare in mente l’epoca del padre spirituale del Milan, il controverso Frate Eligio ed il soprannome icasticamente affibbiato dal grande Gianni Brera a Gianni Rivera, l’Abatino…altre epoche, forse anche il rapporto calcio- fede era all’epoca meno complicato, meno variabili combinatorie, meno complessità sociale.
Ho trovato veramente molto stimolante questo tuo scritto.
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