I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 36: Gli sbiaditi epigoni della civiltà occidentale, ormai solo spettatori sul ring dell’inferno.
L’epilogo e la (inutile) ricerca delle cause e dei rimedi
Il mondo del 2022 è un inferno!
Dopo la pandemia, che ancora presenta strascichi allarmanti, il debito mondiale è salito a quattro volte la ricchezza prodotta e ciò ha determinato contraccolpi in tutti gli angoli della terra, all’interno e all’esterno di ogni singolo paese, come se i percorsi fossero disseminati da mine vaganti.
Noi occidentali vediamo soltanto la guerra in Ucraina e ci siamo accorti degli effetti che produce in vaste aree del globo solo quando abbiamo capito che la loro sopravvivenza alimentare dipendeva dal grano e dai cereali prodotti in Ucraina e in Russia. Oggi le derrate dei raccolti dell’anno scorso sono stoccate nei porti del Mar Nero, impraticabili, a meno di complessi accordi. Il grano di quest’anno non è stato ancora raccolto, ma dubito che gli ucraini, impegnati a difendere la propria terra, abbiano il tempo e la voglia di farlo. I cereali russi, a causa delle sanzioni, se ne andranno per altri lidi.
Fame e migrazioni segneranno il tempo di molti popoli.
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Gli europei, primi tra tutti gli italiani, si sono svegliati a febbraio 2022, in coincidenza dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, da un profondo stato di atarassia, non nel senso meraviglioso di «perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione dalle passioni», tramandatoci dai filosofi greci, ma di imperturbabilità o con espressione volgare, che meglio rende l’idea: «a noi di quello che accade fuori d’Europa non ci frega un cazzo».
Ed in effetti se il mondo del 2022 è orribile non è che i trenta anni precedenti fossero stati migliori.
Altre guerre e conflitti civili insanguinano il mondo[1]. In Etiopia sono 3 anni che è in corso la rivolta del Tigrai; Sudan e Sudan-sud, quest’ultimo Stato di nuova formazione creato proprio allo scopo di evitare i massacri sistematici perpetrati dalla popolazione musulmana del nord su quella animista e cristiana del sud, sono in guerra da anni; nello Yemen, estremo lembo dell’Arabia, è diventata endemica la rivolta contro il governo di ribelli finanziati dall’Iran; sempre in Africa, il 2022 è stato l’anno dei colpi di stato nei paesi subsahariani, messi a segno prevalentemente da forze di ispirazione islamica; la Somalia, ormai da tempo immemorabile, è nelle mani di terroristi islamici e di pirati del mare; in Asia, Libano e Siria, un tempo perle dell’Impero romano e del Mediterraneo, sono devastate dagli scontri che hanno reso irriconoscibili città meravigliose come Beirut e Damasco; in Iran una teocrazia orribile tiene in ostaggio il suo popolo, l’Afghanistan è nelle mani di un regime che non si può neppure definire feudale per non offendere la mitica istituzione da alto medio evo nata in Europa, nel Myanmar i militari golpisti di matrice comunista non hanno bisogno di rivolte per schiacciare il proprio popolo, in Corea del Nord un satrapo da operetta affama il suo popolo e terrorizza i suoi vicini con il lancio di missili sui quali potrebbe montare, se solo gli prude, ordigni nucleari, la Cina meriterebbe un discorso a parte, accennato già nel corso di queste riflessioni.
In Africa e in Medio Oriente la persecuzione dei cristiani è un sempreverde, come ai bei tempi di Nerone, e i genocidi hanno il pregio di essere diventati tascabili, come quello degli Yazidi, un piccolo popolo con alle spalle migliaia di anni, forse il primo ad abbracciare una religione monoteista con caratteri originali zoroastriani, contaminata nei millenni da suggestioni cristiane, islamiche e sufiste, e con il solo torto di vivere in un fazzoletto di terra schiacciato tra Turchia, Siria e Iraq.
Sri Lanka e Pakistan hanno dichiarato default e non si vede come possano uscire dalla crisi. L’Iran, malgrado le sofferenze del suo popolo, ha gli occhi e la fede puntati sulla bomba atomica.
Solo l’India, la più grande democrazia del mondo, pur tra mille contraddizioni e non sempre con metodi accettabili, riesce a garantire la sopravvivenza del miliardo e quattrocento milioni dei suoi figli.
Nei decenni che hanno preceduto il fatidico 2022 il solo evento positivo è stato la crisi finanziaria del 2008. Non è un paradosso, quella crisi ha fatto aprire gli occhi al mondo intero in particolare a quello occidentale: la maledetta finanza, per una singolare eterogenesi dei fini, ha permesso a circa mezzo miliardo di esseri umani di uscire dalla povertà estrema e dalla fame.
Sono passati 14 anni e quell’opportunità è stata dispersa. Nessuno voleva aprire gli occhi.
All’epoca il mondo galleggiava su un debito sovrano pari a tre volte la capacità di produzione ed era lecito attendersi che i governanti ne prendessero coscienza, avviando politiche di contenimento della spesa corrente.
Non accadde. Ormai spesa e consenso politico erano inestricabili, un cocktail di droghe letale; chi voleva essere eletto doveva promettere e, una volta eletto, il pensiero era la riconferma, che richiede sperpero di soldi pubblici per fidelizzare l’elettorato. Un circolo vizioso dal quale non si esce e, potete anche non credermi, l’unico paese d’Europa che sta seguendo una strada virtuosa è l’Albania e quando io sento o leggo qualche intervento del Presidente della Repubblica o dal Sindaco di Tirana, mi chiedo, ma perché da noi, in Italia, di quegli uomini si è perso lo stampo?
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Un anno dopo, nel 2009, Barak Obama, fresco di nomina alla Casa Bianca, in un discorso al Cairo, lanciò un forte appello ai musulmani di tutto il mondo per «un nuovo inizio».
Il discorso suscitò entusiasmi planetari, ma nessuno comprese, neppure chi l’aveva fatto, che quello sarebbe stato un detonatore per rivolte popolari, represse nel sangue o disilluse tout court.
Tutto iniziò in Tunisia nel 2010 con un giovane che si diede fuoco per protesta contro la polizia che gli aveva sequestrato le poche cose che vendeva come ambulante. Morì pochi giorni dopo, ma la sua morte scatenò un movimento di popolo che riuscì a rovesciare il dittatore Ben Alì, al potere da decenni. I giornalisti occidentali, che di queste cose vanno pazzi, la chiamarono «rivoluzione dei gelsomini». Sono passati 12 anni e di quella rivoluzione si è perduta memoria. Il paese è nelle mani di un autocrate che aveva fatto la trafila ai tempi di Ben Ali.
La rivoluzione si trasferì in Egitto, generando speranze, presto disilluse. A un uomo forte, Mubarak, ne subentrò un altro, fotocopia del primo, al-Sisi. Per fortuna non ci furono i temuti bagni di sangue, ma la libertà e la società aperta restarono un miraggio.
Le formazioni terroristiche islamiste, più e meglio organizzate pensarono, che quello fosse il loro momento. Siria e Iraq furono presi alla gola dall’Isis, movimento intenzionato a resuscitare il Califfato, e da Al Qaeda, che vantava innumerevoli azioni terroristiche, tra le quali l’attacco alle Torri Gemelle a New York. La Siria era governata da un dittatore «ereditario», per così dire, che teneva in pugno il suo popolo con la violenza ed il terrore. L’Iraq era una democrazia solo sulla carta, divisa in una miriade di gruppi a contendersi il potere a suon di attentati.
In quell’area per dieci anni ci fu veramente un bagno di sangue, di dimensioni che nessuno riuscirà mai a valutare.
Sul terreno l’Isis venne sconfitta dagli eroici combattenti Curdi e nei cieli dalle aviazioni americana e soprattutto russa, ma ormai il genocidio degli Yazidi e delle poche comunità cristiane rimaste era stato consumato. In Siria, intorno a Damasco, restarono solo macerie, particolarmente impressionanti quelle di Aleppo, una delle città più importanti della Siria fin dai tempi dell’Impero Romano, ricca di storia e di un invidiabile patrimonio storico e culturale.
In Libia all’uomo forte subentrò … il caos. Dopo la morte violenta di Gheddafi, la terra di Didone[2] non ha più conosciuto un giorno di pace, con il risultato strabiliante che sotto la Sicilia c’è un territorio dove russi e turchi la fanno da padrone.
Questo il bilancio del «nuovo inizio» predicato da Barak Obama, che non aveva ancora scaldato la poltrona dello Studio Ovale e già aveva ricevuto il Nobel della pace.
EZIO CALDERAI
