L’ultima madre

di VALENTINA DI GENNARO ♦

In questo ultimo anno e poco più, ho visto morire due persone della mia famiglia. Dire che fossi solo presente è riduttivo, ho partecipato ad un rito che simile a quello del parto.

Nelle sale parto si viene investiti di emozioni, di magia antica. Durante il mio primo parto sono sicura di aver visto le mie nonne defunte ai piedi del letto, sono sicura di averle sentite.
In una genealogia del dolore che nessuna epidurale potrà mai lenire. Perché il dolore del parto non è quello della separazione delle viscere, dalla carne. E’, al contrario, la consapevoleza di una unione inscindibile, di una dipendenza reciproca. Per me, un legame troppo forte, questo sentirsi indispensabili per tutta la vita.
Allo stesso modo essere presenti quando una persona lascia per sempre questo mondo è essere una levatrice al contrario. Si da coraggio, conforto. Come per le spinte del parto. Mentre tenevo la mano di mio zio, in hospice oncologico in cui le misure restrittive del Covid erano ancora molto presenti, gli ho detto che quello era il momento, che poi altrimenti sarebbe stato solo. Lui ha inspirato come se dovesse andare sott’acqua e poi si è lasciato andare. Per sempre. Proprio come durante il parto si evocano chi prima di te ha svolto l’azione del riprodursi, così durante un trapasso si ripercorre la vita, la vita che è perfetta. E che in quanto perfetta, si chiude.
L’ho rivisto bambino nella divisa da giovane Balilla per andare a scuola, sulla vespa bianca che lo ha accompagnato per il resto della vita. Con gli occhiali e quell’aria scanzonata che gli dava la forte miopia. Il grembiule del lavoro, i gesti antichi. I fatti che mi ha raccontato, sicuramente colorandole di molti dettagli inventati.
Quando sono arrivata da mio padre morente, qualche ora prima che ci lasciasse definitivamente, gli ho preso l’avambraccio, aggrappata, come quando si risale dal mare su una barca. Gli ho detto: “Eccomi, sono qui, adesso andrà tutto bene”. Devo averglielo ripetuto così tante volte in pochi minuti che lui, che sono sicura che in quel momento mi avesse riconosciuto, mi ha ha guardato dritto negli occhi e con fare sarcastico mi ha detto: “Sai sempre tutto tu, vero?”.
Poi ci furono solo attimi di lucidità sempre più radi. Fino a quando nonostante il monitor cardiaco non rilevasse più niente, il medico che lo auscultava sentiva ancora battere il cuore.
Non poteva essere altrimenti.
La bellissima brillante e carismatica mente e il cuore generoso di mio padre smisero di esistere alle 3:10 di quella notte. L’ora della solitudine più nera. Eppure da quando lui non c’è più io ho meno paura della morte, so che qualsiasi cosa ci sarà, o non ci sarà dopo, lui sarà sicuramente ad aspettarmi. Le tre di notte sono un orario in cui spesso mi capita di risvegliarmi. Lo cerco. Lo sento. Me lo sento sempre vicino.
Se è vero che siamo fatti della stessa materia dei pianeti e delle stelle, è tornato su Saturno, da dove sicuramente lui proveniva.
E allora in quest’anno ho capito che sì, si può anche morire.
“Non mi si è mai aperto il ventre e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l’ho fatta.»
«E quale parte era?»
«L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.”

Accabadora, di Michela Murgia.

VALENTINA DI GENNARO
SPAZIO CLICK