Innocenza e giustificazione

di VALENTINA DI GENNARO ♦

Caro Carlo, 
abbiamo introdotto nelle nostre ultime lettere la categoria dell’innocenza. Nella mia educazione sentimentale il sentimento dell’innocenza e della purezza è indissolubilmente legato all’immaginario pasoliniano. 

L’innocenza è una colpa, l’innocenza è una colpa! Lo capisci?
E gli innocenti saranno condannati perché non hanno più il diritto di esserlo.
Io non posso perdonare chi passa con lo sguardo felice dell’innocente tra le ingiustizie e le guerre, tra gli orrori e il sangue.
Come te ci sono milioni di innocenti in tutto il mondo, che vogliono scomparire dalla storia piuttosto che perdere la loro innocenza,
e io li devo far morire.
(Pier Paolo Pasolini, da “La sequenza del fiore di carta“)

Per omaggiare lo scrittore, Enzo Biagi  scelse di sottolineare un aspetto della personalità pasoliniana molte volte ingiustamente dimenticato: «Nel fondo della natura di Pier Paolo Pasolini c’era una grande innocenza, per quello che io l’ho conosciuto era una creatura indifesa.» 
Mi ha fatto scoprire il “San Paolo”: un’ipotesi di sceneggiatura sulla vita di Paolo di Tarso che aveva scritto Pasolini e mai realizzata.
L’idea poetica, dice Pasolini, e che sarebbe dovuto essere il filo conduttore del film – e anche la sua grande innovazione – consisteva nel trasporre l’intera vicenda di San Paolo negli anni ’60.
“Questo non significa che io voglia in qualche modo manomettere o alterare la lettera stessa della sua predicazione”- continua sempre Pasolini – “anzi, come ho già fatto per il Vangelo, nessuna delle parole pronunciate da Paolo nel dialogo del film sarà inventata o ricostruita per analogia. E poiché sarà naturalmente necessario fare una scelta dei discorsi apostolici del santo, farò tale scelta in modo da riassumere l’intero arco dell’apostolato (sarò aiutato in questo da specialisti, che garantiscono l’assoluta fedeltà all’insieme del pensiero di Paolo). Qual è la ragione per cui vorrei trasporre la sua vicenda terrena ai nostri giorni? È molto semplice: per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’impressione e la convinzione della sua attualità. Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che «San Paolo è qui, oggi, tra noi» e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia. Tale violenza temporale usata alla vita di San Paolo, così fatta riaccadere nel cuore degli Anni Sessanta, richiede naturalmente tutta una lunga serie di trasposizioni”. 
 
L’ambientazione è trasposta ai nostri giorni e cambia a più riprese: solo la Roma augustea come «sede del potere sul resto della terra» rimane invariata, viene invece identificata una volta per tutte con New York e lì infatti morirà Paolo.
La Roma degli anni Sessanta, per Pasolini, ha preso il posto della polis, di Atene – come centro culturale, ideologico e civile – per poi cederlo all Parigi sessantottina, che in un primo tempo incarnava invece Gerusalemme.
Allo stesso modo, Pasolini colloca Antiochia a Londra e Damasco dapprima a Barcellona e poi a Lugano, mentre il Mediterraneo dei viaggi paolini si allarga alla dimensione dell’Atlantico.
 Anche la realtà antropologica e sociale sono rivisitate dal regista,
È così racconta la vita, con passione e lucidità disarmanti, di un giudeo di Tarso, cittadino romano, divenuto discepolo di un nazareno che non ha mai incontrato.
 Questa «tragedia episodica», come Pasolini ipotizzava sarebbe stato il suo film, avrebbe rappresentato l’intera vita di Paolo attraverso alcune vicende chiave ma, soprattutto, avrebbe costituito un discorso organico rivolto alla società contemporanea del regista e degli spettatori. Affascinato dall’annuncio della croce «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili», il san Paolo di Pasolini – o dovremmo dire Pier Paolo Pasolini che usa le parole di Saulo/Paolo? – pare avere a cuore con questo film un unico intento, espresso nelle parole conclusive del «Progetto»: poter affermare, nonostante tutto, che «in quel mondo di acciaio e di cemento è risuonata (o è tornata a risuonare) la parola Dio».
I problemi della New York del 1968 sono nevrosi, droga, contestazione radicale alla società, ma anche ingiustizia, razzismo, angoscia e guerra sono il terreno accidentato ed esplosivo che san Paolo cercherà di evangelizzare. «E quanto più “santa” è la sua risposta, tanto più essa sconvolge, contraddice e modifica la realtà attuale».
In un’udienza del settembre del 2021 Papa Francesca riporta le parole di Paolo sulla “giustificazione”. Sul percorso che porta al diventare giusti. Nel nostro percorso per comprendere meglio l’insegnamento di San Paolo, ci incontriamo oggi con un tema difficile ma importante, quello della giustificazione. Cos’è, la giustificazione? Noi, da peccatori, siamo diventati giusti. Chi ci ha fatto giusti? Questo processo di cambiamento è la giustificazione. Noi, davanti a Dio, siamo giusti. È vero, abbiamo i nostri peccati personali, ma alla base siamo giusti. Questa è la giustificazione. Si è tanto discusso su questo argomento, per trovare l’interpretazione più coerente con il pensiero dell’Apostolo e, come spesso accade, si è giunti anche a contrapporre le posizioni. Nella Lettera ai Galati, come pure in quella ai Romani, Paolo insiste sul fatto che la giustificazione viene dalla fede in Cristo. “Ma, io sono giusto perché compio tutti i comandamenti!”. Sì, ma da lì non ti viene la giustificazione, ti viene prima: qualcuno ti ha giustificato, qualcuno ti ha fatto giusto davanti a Dio. “Sì, ma sono peccatore!”.
Sì sei giusto, ma peccatore, ma alla base sei giusto. Chi ti ha fatto giusto? Gesù Cristo. Questa è la giustificazione.
Sta qui, nell’innocenza del peccatore che ti fa giusto, l’essere afferrato da Cristo. Essere afferrati dal Cristo ci pone in una dimensione più alta, elevata, oltre, oltre anche il Crtstianesimo. E’ ciò che riesce a dare un senso, una speranza sull’oggi, a queste vite senza speranze.
Chissà che capolavoro abbiamo perso non avendo visto il San Paolo di Pasolini al cinema. Quanta innocenza, “giustificazioni”, speranza rinnovata ci sarebbero spettati. Sarebbe stato un San Paolo viscerale, dilaniato, in viaggio tra Parigi, Roma, Barcellona e New York, dove avrebbe trovato la morte. Ancora apostolo tra le genti, anche negli anni Sessanta. Perché Paolo è sempre qui, oggi, tra noi.

                                                                      RISPOSTA DI CARLO FALZETTI

Cara Valentina,

pochi sanno che Pasolini aveva in animo di portare sullo schermo la vita di Paolo dopo il Vangelo di Matteo.

Perché questa insistenza nel parlare di Gesù e di Paolo da parte di un “sinistro” omosessuale?

Oggi, dopo che la destra è riaffiorata tracotante in baldanzosa alleanza con il fondamentalismo cattolico, sapere questi fatti  su P.P.P.farebbe gridare alla indignazione: come si osa “sporcare” il sacro con mani impure?

Come poter rispondere? Inutile sforzo! Non proviamoci neppure.

Non resta, dunque, che il dialogo fra persone affini in termini di visione del mondo, non perdiamo la traccia per rincorrere il vuotosentiero.

Come ben sai l’introduzione alla sceneggiatura di Paolo è firmata da Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose: questo basti nel ritenere il testo opera di gran momento cristiano.

Dunque, procediamo. Vorrei soffermarmi, con velocità, su ciò che più hai posto in rilievo, la giustificazione.

La svolta  di Paolo, giudeo -fariseo passato al giudaismo apocalittico “gesuano”( il termine cristiano non esisteva ancora)rispetto al mondo greco è imponente.

Nel mondo greco il male (la guerra, l’odio, la malattia, la morte) apparteneva all’ordine della natura. Dunque, l’unico modo per affrontare il male era agire con le proprie forze e sapere che la via era quella di affrontare il dolore pensato quale effetto assolutamente necessario. L’uomo saggio era colui capace di guardare in faccia il dolore. In tal senso, non poteva esistere alcuna redenzione, solo la conoscenza ed il pessimismo della forza (pensiamo a Socrate, alla sua lotta nell’indagare su tutto, al modo composto di affrontare la morte).

Con Paolo (e con il giudaismo in genere) il male è l’effetto di una colpa, una colpa cosmica (gli angeli corrotti) e di una colpa umana (il peccato, α͑μαρτία ). Ciò è dovuto alla “miseria” del corpo, alla carne (σάρξ). L’uomo è il “legno storto”(Kant), il terreno adatto per il trionfo del male. La conoscenza e qualsiasi sola forza dell’uomo nulla possono contro il male originato dallo stesso uomo. Di fronte a questa situazione necessita una forza esterna, un flusso che parte dall’alto, un dono, un atto di grazia (Χάρις). Ma a questa offerta di amore deve corrispondere la fiducia, il “fidarsi di”, l’accoglimento, la speranza, la fede (πίστις). Se al dono corrisponde la fede allora subentra la giustificazione(δικαιοσύνε), parola forense presa dal diritto romano che significa essere resi  giusti, “capaci di”.

Se ci fermassimo qui avremmo raggiunto l’esatto punto sul quale ha tanto insistito l’animosità di Lutero, di Melantone, di Karl Barth e , naturalmente di Agostino. E’ impossibile fare il benesolo con le proprie forze (servo arbitrio), solo un atto divino del tutto “gratuito” può permettere di fare il bene (predestinazione).

Ma dobbiamo proseguire oltre questa linea, Valentina, se vogliamo intendere bene Paolo. La giustificazione da sola non corrisponde alla salvezza! Essere tutti sotto il dominio del male non significa che solo la grazia può salvare. Non è impossibile fare il bene è solo difficile, non impossibile. La giustificazione per grazia è condizione necessaria ma non sufficiente. Sono le opere, le azioni fatte qui, ora, il libero arbitrio, tutto quello che abbiamo scritto nelle due precedenti lettere che ci siamo scambiate.

Pasolini non credeva che “Cristo fosse figlio di Dio”. Dunque, era fuori della Chiesa! E’ questo lo condanna definitivamente? Ad Enzo Bianchi ebbe a dire: “ Anch’io sono caduto da cavallo come Paolo, ma un piede mi è rimasto nella staffa e continuo così a sbattere la testa qua e là…”

Ma davvero la religione è iscriversi ad un partito?. Davvero è la ritualità la sostanza ? Davvero il mito fondante deve assolutamente passare attraverso le maglie del rito per arrivare ai cuori?

Hai fatto bene Valentina ad immettere Pasolini nel nostro discorso su Paolo. In tal modo si chiariscono le distanze dai benpensanti, da chi ha solo certezze e fede incrollabile, dai moralisti, da chi pensa che un omosessuale è “impuro” alla stregua delle donne impure che circolavano per le strade di Gerusalemme ai tempi di Gesù!

Non si illuda l’uomo che scrupolosamente si attiene alle regole: non esiste garanzia di sicurezza. La storia di Abramo e di Giobbeci insegna che Dio è a-morale, è al di là del bene e del male. Il rischio sarà sempre presente.  La morale retribuzionista del do ut des tanto cara all’uomo “ragionevole” è assurda pensarla come morale di Dio. Dio è a-morale! (tanto per capirci:  sei omosessuale? Ergo, avrai il tuo cerchio infernale!).

Penso a tutti quei pusillanimi che parlano “in nome di Dio”, che pretendono di conoscere il pensiero di Dio. Guai all’uomo che perde, per tracotante fondamentalismo, il timore di Dio! Dio è al di là dei criteri costruiti dalla ragione umana, Dio è a-morale.

A che serve Dio dal momento che l’uomo conosce la morale con cui Egli agirà e la conosce perché è esattamente la morale umana. A che serve Dio se abbiamo per filo e per segno conosciuto il suo pensiero. A che serve Dio se sappiamo come agirà. A che serve Dio se non ha più mistero. Dio, in tal caso, non serve, è l’uomo ad essere Dio. Il fondamentalista è il vero ateo perché quando il volto di Dio è visibile, leggibile, intellegibile allora Dio è scomparso! Se l’ateo esclama: “Dio non esiste!” è un opinione su cui discutere. Ma ben più grave è colui che esclama: “Io parlo in nome di Dio!”. Il primo è solo un ateo; il secondo è oltremodo blasfemo costringendo Dio al livello del mondo, ovvero ad essere “il vitello d’oro”.

A presto.

(ho inserito i nomi in greco non per vezzo “estetico” ma solo perché nella Lettera ai Romani questi termini sono tra le “parole chiave” di tutta la teologia paolina).

VALENTINA DI GENNARO
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