LA SPERANZA RIVOLTA AL PRESENTE
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
Valentina,
il presente è crisi di speranza.
Nel nostro mondo una domanda si fa largo prepotentemente: ma davvero la speranza esiste?
Un tempo, per molto tempo, il cor inquietum si placava perché il pensare che chetava l’angoscia era: crux, unica spes! E poi, quando la fede iniziò a rarefarsi, fu l’utopia laica, illuminista, socialista a pascere la speranza attraverso la promessa di un possesso della Terra mercè la trasformazione del presente.
Ora le due voci salvifiche tacciono, silenti in un vana attesa. Vuoto è il Cielo e debole è la Terra. Il futuro non sembra più la prosecuzione del presente e le nuove generazioni sono defraudate dell’ attesa.
Il sicario della speranza utopica è stata la presunzione idealistica di autosufficienza ovvero la pretesa titanica di essere Prometeo e, dunque, di fare a meno di ogni possibile trascendenza. Ma, il dramma del “secolo breve” con le sue guerre, le sue stragi efferate ha condotto al disincanto avvilendo la speranza.
Il sicario della speranza religiosa è stata la pusillanimità di trasformare la fede in uno status identitario, in una fredda ritualità, nella semplice osservanza della Legge, nell’umile conformismo, nel tradimento del messaggio evangelico.
L’effetto complessivo della morte della speranza è, nel dominio laico, la disperazione, il taedium vitae, la medievale acedia, il fallimento del sogno di Prometeo che , nonostante la centralità tecnologica, è divenuto sempre più un Sisifo, l’eroe della rassegnazione. Nel dominio religioso, l’effetto della morte della speranza è la ribellione contro la pazienza della speranza, la stanchezza di chi non vuole essere ciò che il Vangelo si aspetta da lui.
L’avversione greca alla speranza, il perfido dono di Pandora, è ritornato, così, ad essere la cifra caratteristica del momento. Dobbiamo ammetterlo: il futuro è ora anche nel passato!(basti pensare all’Ucraina).
Mi accorgo, di certo, d’ esporre concetti stanchi, esausti, tanto gli animi sono ormai acquietati, rabboniti. Eppure, tuttora qualcosa c’è da dire in proposito. Ancora la notte non è terminata.
Vorrei, dunque, soffermarmi sul dramma della speranza religiosa e tentare di appellarmi a Paolo che sta animando da qualche tempo il nostro colloquio. Penso che condividerai il fatto che Paolo possa essere di nuovo oggi una vox clamantis in deserto. Una voce cui prestare l’ascolto.
La voce di Paolo non si riferisce solo alla speranza futura trasferita in un “al di là”, nella eternità, nella ricompensa di là da venire. Pensare in tal senso (ed è un pensare diffuso) significa pensare la speranza come una sorta di evasione dal presente affidando tutto al post-mortem. Facile la critica: nell’immagine di Dio gli uomini non esprimono altro che un futuro ardentemente desiderato (Feurbach).
Le Lettere paoline sono” anche” una effusione di speranza nel presente e non solo una fuga in avanti. Sono ricolme di speranza messianica “per questa terra”. Il cristianesimo paolino è escatologia dal principio alla fine (Moltmann,Teologia della Speranza). Ciò significa che la trasformazione del presente fa parte dell’essenza e non è rimandata agli ultimi tempi, al compimento finale alla “dottrina delle cose ultime”. La speranza è, dunque, movimento in avanti, rivoluzionamento, trasformazione del presente . Il Dio di cui si deve parlare non è un Dio intramondano o extramondano ma è il “Dio della speranza”(Rom.15,13). Il Dio che non possiamo avere sopra di noi ma possiamo avere (in noi e) avanti a noi (Block, Il Principio Speranza).
Il presente, il nostro tempo di vita può e deve essere modificato dalla speranza.
Per Paolo certamente la speranza è dare” morte alla morte” ovvero che la morte non sia l’ultima voce dell’esistere ma sia essenziale comprendere che questa speranza non assume le placide forme del rifugio, della tranquillità, della freudiana “fuga dalla realtà”. Contro una religiosità attuale che appare pura identità sociale, politica, moraleggiante le Lettere di Paolo rivendicano una speranza che agita, che non rende tranquilli, un anelito a “sperare contro ogni di- speranza”.
L’esempio di Paolo, ripreso da Kierkegaard, è quello di Abramo: sperare in ciò che non si vede, perché se la speranza vedesse ciò che spera come potrebbe sperarlo (Romani 8,24)? La fede, dunque, è l’opposto della tranquillità borghese, della morale del buon padre di famiglia, del credere in “Dio, Patria e Famiglia”, del credere a ciò che si tocca, a ciò che conviene, che ci è utile, ora e qui.
La fede cui si appella Paolo non è la placida tranquillità di essere dalla parte giusta solo perché “iscritti” al partito del “buon padre di famiglia”, del borghese dai costumi morigerati, del sentirsi protetto dalla Legge, dalla istituzione che amministra il credo.
La vicinanza fra l’idea socialista di un mondo migliore ed il cristianesimo originario è molto più intima di quanto si vuol pensare. Il punto di contatto essenziale è il “trascendersi” da parte dell’uomo ovvero l’aderire al non-ancora rispetto all’idea del già-stato. La differenza,che certo non è di poco conto, è che nel cristianesimo il trascendersi è tramite la trascendenza; nell’idea socialista è un trascendersi senza trascendenza. Ma il punto di rilievo è il “trascendersi”, il senso di una coscienza anticipante, il sogno ad occhi aperti verso un mondo migliore, l’utopia di un mondo più giusto, l’aspirazione del non-ancora, l’avversione verso il conservatorismo becero, verso l’angustia del presente, verso l’economicismo della società, verso la catastrofe della defraudazione della speranza.
Dicevo all’inizio sulla speranza defraudata. Da questa prospettiva la speranza religiosa, ancor più della speranza sociale, collassando ha creato una massa di perdenti. La generazione attuale è un insieme di perdenti. Ma essere perdenti non significa arrendevolezza . Si perde ma non per questo si cede alla resa. Il vero cristianesimo è accettazione della condizione di perdente: la morte certa del fondatore, il sudore freddo del Getsemani, l’oltraggio, la folla nemica, la croce come esito finale certo. La Resurrezione, invece, deve rimanere nel regno delle “possibilità”, non delle certezze: “se la speranza vedesse ciò che spera come potrebbe sperare? Questo è il significato perenne del cristianesimo contro ogni “pretesca” rassicurazione e certezza accomodante e soporifera. Aver fede è inquietudine, dubbio esistenziale. La cristianità settaria ha abolito il cristianesimo scambiando la speranza inquieta con un surrogato per castrati e per malandrini profittatori della politica.
La fede paolina è accettare la rancorosa critica che il messaggio cui si crede è stoltezza per la ragione (I Corinzi 1,23) ed accettare la vergogna che quel messaggio è scandalo (la croce dei malfattori) per i benpensanti (Galati 5,11.)
Ma attraverso quali vie Paolo ci conduce a rivitalizzare la speranza avvilita?
Cara Valentina lo spazio mi impedisce di proseguire. Ma nutro “speranza”che il nostro colloquio non si fermi qui ma possa proseguire. Le Lettere sono miniera che attende solo amore di immersione.
Carlo.
RISPOSTA DI VALENTINA DI GENNARO
Caro Carlo,
La tua lettera mi ha rapito pensieri dotti e più umani che mai.
Paolo dice «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Tes 5, 21).
L’iscritto al partito del “buon padre di famiglia” protende tutto il suo sguardo sul futuro ritorno del Signore, ma Paolo lo ammonisce.
Si guardi dalla pigrizia e dal disimpegno che distraggono dalle responsabilità storiche e sociali.
Se è vero che “La nostra cittadinanza è nei cieli”(2Cor 5,1), scrive Paolo, e «mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato dal Cristo» (Fil 3,12), le lettere Paoline parlano anche di un’attesa cristiana, che non è ozio. Ma vigile nell’operosità: «Si, voi tutti siete figli della luce e figli del giorno…perciò non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente, …mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo che è speranza della salvezza» (1Tes 5, 5-8).
Il nostro travagliato presente chiede speranza.
La speranza che ci conduce alla salvezza, alla salvezza terrena anche. E nessuno si salva da solo.
I fatti di cronaca di questi giorni, di carni di donna straziati, chiedono salvezza.
Alla categoria della ricerca della salvezza attraverso la speranza nell’oggi, vorrei aggiungere alla nostra discussione della categoria dell’innocenza.
“Nessuno è innocente se non si sente toccato da ciò che accade”.
L’esperienza di vita di Paolo è il centro del suo pensiero dopo la via di Damasco ha come radice il tema della liberazione dello schiavo Onesimo, ma agli occhi dell’Apostolo esso fiorisce nel cielo di una libertà ben più radicale che costituirà la struttura fondante della sua teologia.
Non c’è per Paolo più solo la prassi etica dello strumento autosalvifico e liberatorio, del sacrificio, della penitenza.
Ci corre in aiuto di nuovo Isaia, citato dallo stesso Paolo: «Dice il Signore: Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a coloro che non chiedevano di me» (Romani 10,20).
Caro Carlo, ti ho scritto e riscritto tante volte queste poche righe. Ero naturalmente influenzata dai funerali a cui ero appena stata, che sono stati funerali numerosi e partecipati, sovversivi nei partecipanti. Ma con le letture canoniche e i salmi canonici dei funerali delle piccole parrocchie sarde. Con i canti della chitarra in acustico. C’era anche Paolo di Tarso.
E poi di nuovo, influenzata dagli ennesimi attacchi di violenza cruda verso le donne.
Il Cristianesimo originario e il socialismo, hai ragione, hanno così tanto delle loro vie complanari.
Come rivitalizza la speranza la lettura di Paolo?
La “vox clamantis in deserto” è sicuramente donna. La sento martoriata, vituperata, maltrattata e derisa.
Ti abbraccio Carlo. Piena di speranza.
Valentina

Non sono Valentina, caro Carlo, ma Maria(già, un nome un programma!), mi piace intervenire a caldo, in modo semplice, di “cuore”…Vero, viviamo tempi grigi, l’epoca delle passioni tristi, o forse neanche più delle passioni, anestetizzate dal torpore della rassegnazione a una serie di cose.Ma l’essere umano, creatura pensante e senziente, ha questo di grandioso: sa di tanto in tanto sollevarsi, gettare la pietra di Sisifo per innalzare l’urlo agonistico di Prometeo, colui che “sapeva”prima ancora che la conoscenza gli si rendesse chiara. E allora , il nostro orizzonte si sposta sempre più in là, la luce brilla sia pure lontana, e noi continuiamo a sperare.
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Io ho sempre pensato, per deformazione professionale, che “la speranza” si nutra di “progetto”; a livello personale il “ progetto” è quello che mi ha sostenuto nei momenti difficili; oggi i tempi sono bui proprio perché manca un progetto collettivo e per la maggior parte delle persone anche quello personale.Sia il cristianesimo come messaggio evangelico che il socialismo come messaggio utopico si basavano su un progetto reale da portare avanti, in cui credere e che facesse da sostegno alle nostre vite., vivere senza significa vivere alla giornata e vivere alla giornata, cogliendo solo e sempre l’attimo non ti dà modo di mettere in campo etica e valori, consumando la propria vita in un eterno presente dove il “cogli l’attimo” rappresenta la soddisfazione delle pulsioni immediate qualunque esse siano
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