I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 33 (seconda parte) : Le origini e la (relativamente recente) parabola della democrazia liberale.
Il mio non è un trattato, sento già i vostri rimproveri: ma ora che fai pure il saggista?
Me ne guardo bene e metterò a vostra disposizione soltanto delle idee. Non fanno mai male.
I primi tre fattori possiamo darli per scontati, ma, meno degli altri due, sono essenziali per capire le cause del declino dell’occidente e se esso sia o meno irreversibile.
Il quarto fattore è quello che inquieta di più.
Dubito che nel XXI secolo ci siano ancora in occidente democrazie liberali, ci sono democrazie, ci sono istituzioni democratiche, ma, in nome della complessità e di un comunitarismo confuso, i cittadini ne sono sempre più estranei, quindi, di liberale non rimane niente. Un ordinamento statuale può darti tutto e di più, ma, se limita le tue libertà e comprime la tua dignità, non è liberale.
I sintomi sono precisi e univoci. Nel mondo occidentale c’è una disaffezione al voto sempre più marcata, come se gli elettori fossero convinti che il loro voto non conti niente. Gli uomini di governo sempre più spesso non sono eletti dai cittadini, ma non è quello o, almeno, non è soltanto quello: le cause sono molto più remote, profonde e strutturali.
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Nella vecchia Europa era più difficile, ma negli Stati Uniti, sicuramente nelle fasi iniziali della repubblica e ancora a lungo, non era raro che alle cariche elettive accedessero dei carneadi, addirittura dei cow boy, ma anche queste new entry, di scarsa cultura, di nessuna consuetudine con le istituzioni, erano consapevoli di rappresentare la nazione nelle sue varie articolazioni. Non altro.
Gli eletti avevano un costume mentale che induceva automatismi virtuosi: nessuno considerava il mandato elettivo il mestiere della vita, interessi personali o di gruppo in nessun modo riuscivano a condizionare le decisioni politiche, il rispetto della scala gerarchica del potere era un dogma. Le eccezioni confermavano la regola. Gli eletti si concedevano piccole debolezze: difficile resistere a esibire lo status symbol, del resto la vanità, a patto che non si esageri, è connaturata alla natura umana.
La seconda cosa che gli eletti imparavano immediatamente è che la forma è sostanza. Quindi, la procedura e le sue regole erano intangibili e nessuno poteva ardire a mettere in discussione un atto, un provvedimento una volta che fosse stato formato secondo le regole.
Unico limite, in questa concezione rigorosa, teorica e pratica, della cosa pubblica, l’intangibilità della persona. La Magna Carta, dopo 800 anni, restava la memoria storica, il DNA, della democrazia liberale e davvero non si capisce cosa ne sia stato.
I comportamenti virtuosi degli eletti erano favoriti dall’autorevolezza, quasi la sacralità, del potere esecutivo, in uno scenario in cui la dialettica politica era informata ai diritti e ai doveri di ciascuno dei protagonisti. La bussola dei governanti era la responsabilità: chi sbagliava doveva pagare, magari anche soltanto con l’allontanamento, spesso preceduto da dimissioni, poiché l’errore pregiudicava il bene comune, quindi, la libertà di tutti.
Altro principio largamente condiviso nelle democrazie liberali classiche il controllo della spesa pubblica e l’intervento dello stato nell’economia limitato a casi eccezionali, come una forte crisi, che provochi una preoccupante caduta dell’occupazione.
In queste condizioni e solo in queste condizioni, è lecito aggiungere al sostantivo, democrazia, l’aggettivo, liberale, che è insieme imperio della legge, eguaglianza sostanziale tra rappresentanti e rappresentati, divieto d’interferenza di corpi estranei non eletti dal popolo, libertà degli individui.
Questa costruzione, pur con qualche crepa, ha tenuto fino agli anni ’80 del XX secolo, quando si è profondamente deteriorato il carattere e la qualità della rappresentanza politica (quinto fattore).
Da allora il degrado delle istituzioni è avanzato a progressione geometrica. E, con esso, il declino.
Il mandato, o più sbrigativamente la politica, come si dice ai nostri tempi è diventata un mestiere[1], che è cosa diversa dall’impegno politico come scelta professionale di vita, non ci sono interessi, se non quelli personali o di gruppo, la scala gerarchica viene gettata alle ortiche.
Il singolo eletto, spesso e volentieri, non partecipa ai lavori parlamentari, ha altro da fare; comunque, non sarebbe in grado di dare il pur minimo contributo per un’incompetenza di cui va fiero; se ne ha interesse, non esita a mettere in discussione le decisione del potere esecutivo, anche se approvate dal partito che l’ha fatto eleggere; tanto a maggiore ragione critica sui social, sui giornali o alla prima comparsata televisiva, i provvedimenti dei rappresenti del suo stesso partito in seno all’esecutivo («perché dovresti essere tu il ministro io sono migliore»); non concorre alle spese del partito che lo ha eletto, quando va bene pretende una contropartita, una nomina che gli dia visibilità o una missione che aumenti le indennità; se non lo accontenti, lascia il partito e forma un altro gruppo: «non tiro fuori una lira, io!».
Sul versante dell’esecutivo la situazione è ancora peggiore.
Ne ho già parlato, descrivendo sommariamente la strana parabola che, con rarissime eccezioni, ha coinvolto i leader politici occidentali: dall’autorevolezza e responsabilità a una «debolezza voluta e ricercata», dall’azione alla tirannia dell’apparenza, dalla fermezza dei principi alla volubilità, dalla rappresentanza della nazione alla miseria del movente personale, dal controllo della spesa a una politica fondata esclusivamente sul debito pubblico.
Solo per farmi capire, provo a spiegare come motivazioni personalissime abbiano condizionato i comportamenti di alcuni dei massimi rappresentanti delle democrazie occidentali in occasione della crisi ucraina di febbraio 2022.
Tutti i leader occidentali hanno approvato sanzioni «fine di mondo» contro la Russia ed hanno riversato sull’Ucraina fiumi di armi, rischiando un conflitto mondiale. Fu una scelta meditata?
Può darsi, ma per alcuni dei leader è stata un’opportunità benedetta quanto insperata. Il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, doveva rifarsi la verginità dopo la vergognosa fuga da Kabul; purtroppo per lui, nessuno, campasse mille anni, dimenticherà le immagini di agosto 2021, gli uomini che pur di lasciare Kabul si aggrappavano alle carlinghe degli aerei, per cadere subito dopo il decollo, con le madri che gettavano i figlioletti al di là del muro dell’aeroporto alla ceca, nella speranza di garantirgli un futuro; avrebbe dovuto dimettersi all’istante, per il marchio d’infamia impresso alla bandiera degli Stati Uniti d’America, invece ha indossato le armi di Achille – si fa per ridere – ed è andato all’assalto del Cremlino.
Il premier britannico, Boris Johnson, era lo zimbello di tutta Europa, non solo brexit, ma le feste a Downing Street durante il lockdown, una bastonata a Putin non poteva che far bene alla stabilità del suo periclitante governo.
Il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz, curvo sotto il peso dell’eredità di Angela Merkel, era nel mirino di compagni di partito, alleati e avversari politici; gli rimproveravano di essere stato il porta borse di Schroder, ultimo premier socialista prima dell’era Merkel e fedele collaboratore di Putin; doveva rovesciare il tavolo.
Manovre riuscite? Per Biden non c’erano speranze, neppure se fosse entrato nel Cremlino a cavallo di un missile come il Dott. Stranamore[2]. Gli altri due ce l’hanno fatta, Johnson è tornato ad essere il buontempone amato dai giornali[3], Scholz riarma la Germania dopo 77 anni.
Quest’ultima è una cosa da non credere: la Germania, che qualche guasto in Europa, in due successive guerre mondiali, l’ha causato, si riarma senza, per quanto io ne sappia, un dibattito interno, mentre sono sicuro che non se ne sia discusso a livello internazionale. Io amo la Germania, ma continuo a pensarla come Giulio Andreotti, che l’amava tanto da preferire che ce ne fossero due.
Purtroppo, la storia non permette replay.
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Per tornare al tema iniziale, l’autorevolezza dei leader è svanita. Chi è alla guida della (ormai fantomatica) democrazia liberale preferisce piacere, non può e non vuole scontentare nessuno, maggioranza o opposizione che sia, il mainstream e il politicamente corretto sono le rotaie sulle quali scorrere senza scossoni, se deve prendere una decisione un comma[4] non si nega a nessuno, deve solo stare attento a essere in linea con i suoi omologhi, capi di stato o membri delle organizzazioni internazionali sovraordinate, guai a pensarla diversamente: «insieme e uniti» è la parola d’ordine.
Qualcuno obietta: ma poi, ad es. nell’Unione Europea, ogni paese si fa i fatti suoi. La risposta è pronta: vero, ma non conta, l’importante è che, quando ci vediamo, ci abbracciamo e ci baciamo, come fosse la Vigilia di Natale, e nelle dichiarazioni ufficiali «insieme e uniti» si scriva in grassetto e sottolineato.
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Malgrado lo scudo di protezione, conformista e autoreferenziale, di una classe politica priva di ruolo sulla ribalta nazionale e mondiale, al sentimento popolare, sempre ostile ai divieti e a caccia di vantaggi, non poteva sfuggire che, scomparsa l’autorevolezza, a tratti la severità, dei governanti, davanti a sé si aprivano praterie. I furbi avrebbero avuto la meglio.
Già da tempo princìpi, obblighi e doveri erano evaporati o, a voler essere aperti e moderni, si erano relativizzati, per contro i diritti si erano estesi a dismisura, grazie all’ingresso, nella nobile categoria, dei … desideri.
Risultato di questa puzzolente zuppa di broccoli? I politici passano come meteore: piacciono e subito dopo non piacciono più. Nessuno vuole essere contrariato. Già, perché se da Palazzo Chigi o da Downing Street sbagli una battuta, metti una parola fuori posto, non indovini una foto, centoventi milioni di italiani e britannici sono convinti che ce l’hai personalmente con ciascuno di loro.
Infinitamente più grave, però, la scomparsa del cardine della democrazia liberale: la responsabilità.
[1] In Italia la gran parte degli eletti nel partito di maggioranza relativa, uscito dalle elezioni del 2018, prima di entrare in parlamento, non aveva mai presentato una dichiarazione dei redditi.
[2] Titolo del meraviglioso film degli anni ’60 di Stanley Kubrik, interpretato dal mai troppo compianto Peter Sellers e da altri straordinari attori.
[3] Personalmente adoro Johnson dopo che ho saputo che in casa sua si parava in latino e che leggeva Iliade e Odissea in greco antico.
[4] Voglio dire che per accontentare qualcuno si può inserire, magari nella legge sul fine vita, una misura a favore dei bagnini o dei tassinari.
EZIO CALDERAI (continua)
