ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

di CARLO ALBERTO FALZETTI

 Mecuccio, Antenore, Peppe, Pericle, Giggetto e Gina, Adalgisa ed Egle ma dove siete finiti? Eppure eravate  qui, presso di me, affaccendati e stanchi ma non ancora sazi di vita.

Le gregne s’ammassano l’una contro l’altra sotto il solleone di luglio mentre la squadra comincia a pianarle sul carro che le trasporterà laggiù, verso la “tribbia” rumorosa e stracca che da giorni trita e macina senza sosta i grani che riempiono sacchi di ruvida iuta. Attorno al grande armamentario, fatto agire da lunghe nere cinghie mosse da un fumante, ferrigno trattore, si agita una massa chiassosa di umanità di sesso e d’età diversa. Le braccia s’agitano, tutti gridano, tutti rispondono, chi raccoglie, chi lega e chi slega, chi carica e chi svuota, chi impreca e chi risponde Gesùmmaria, chi palpeggia con scaltrezza e chi reagisce con sdegno, chi si acquatta nel frattone per il bisogno e chi motteggia con malizia, chi sorveglia in groppa al pulledro e chi tenta di sfuggire all’occhio penetrante del capoccia che tutti apostrofano come il sottoDio.

Ma ecco che Gina s’approssima al fosso e, con fare frettoloso, anche Mecuccio le è presto dietro. Per un attimo il chiasso si quieta, tutto tace e le cicale, ebbre di sole, hanno il sopravvento. Poi il lavoro riprende e gli sghignazzi regnano sovrani. Dopo un po’ ecco Gina che fuoriesce dalla forra mostrando allegro l’andazzo: “Ma come è stata lungo il tuo bisogno!” commentano le scaltre comari spalleggiate dai sorrisi dei maschi furbacchioni. Poi è la volta di Mecuccio ad uscire e, correndo verso la trebbia, s’incaponisce nel trovare il giusto buco nella cintola dei pantaloni: è giù con le risa della compagnia tutta.

La sete!

La sete ti attanaglia il gargarozzo e ti impasta la bocca con la saliva piena della pula. Dopo un po’ di frenetico lavoro l’acqua è finita e rimane quella del fosso del Mezzagnone. Si chiedeva, allora, al fattoretto  di mandare il biscino col carrettino al fontanile dell’Argento dove l’acqua non sapeva di ferro e di mota ed arrivava fresca se raccolta coi vetri avvolti nei vimini inzuppato.

Come non ricordare i facchini coi loro sacconi di un quintale sulle spalle che salivano sulle lunghe palanche oscillanti appoggiate ai bordi del camion. Lavoro duro quanto antico d’una fatica usurante che ti invalidava nella senilità. A sera l’osteria era il sereno rifugio della giornata stanca. Cipolla, acciuga, pecorino e giù il bianchetto veniva trangugiato tutto  d’un fiato. Li ricordo fare a sfida bevendo a garganella mentre i poeti a braccio combattevano poetando con le terzine d’amore in quell’attufato abituro che era la fraschetta paesana.

Il vino! Acqua santa che redimeva la fatica e allontanava il presente immergendoti  in un limbo senza più affanno. E che importava se la tua “Santippe” t’aspettava a notte inoltrata a casa col lanzagnolo: povero Cristo lui e povera Crista lei  tutto il giorno a lavare, asciugare, cucire,  rammendare, stirare , cucinare, impastare, tagliuzzare, lardellare, sventolare tizzoni, vestire, accompagnare, far economia, sospirare,  sbiascicare giaculatorie e nunchetinora. Donne avvezze alla fatica e alla rassegnazione. Per qualche attimo di giovanile trasalimento nel segreto dei boschi, seguivano decenni di servitù nell’amore, di  rassegnazione per dare un po’ di indolente piacere ai loro mariti abbrutiti dalla fatica e dal vino.

La maremma è profumo per il maremmano anche quando per il cittadino è maleodorante fastidio. Se proprio è insopportabile allora la si apostrofa  come sitino. Il sito della maialara dove la troia troneggia, il penetrante olezzo delle feci equine, la melassa verde delle vaccine, la concimaia fumante, il sudore che inzuppa le camicie del bifolco, il sito intenso che emanano i cosciali del buttero, l’acido fetore della carogna ovina finita nel forteto, la spalla appesa visitata dal moscone che sa ormai di forte e di rancido. Odori che si mescolano a quelli che i profani intendono per gradevoli, il rosmarino, la salvia, la mentuccia, il finocchietto, il fieno falciato di fresco, la rosa canina, l’erba bagnata dalla pioggia, le stoppie bruciate.

Ma per Mecuccio, uso come il selvatico a ben destreggiarsi con l’olfatto, l’aspra zaffata che avvertiva quando la Sardegnoletta tirava su il braccio sudato ed affaticato dalla spossante falciatura faceva parte della tonalità dell’universo maremmano. Il sangue cominciava a bollire. L’indomani le avrebbe fatto le poste sotto il casale. Riconosceva le orme sulla strada la domenica quando, andando lei alla Messa, si infilava i tacchi. E quelle orme “selvatiche” lo facevano sognare di fantasia e lo guidavano più in forza dell’istinto che del sentimento. E la immaginava allora cinta di quella biancheria intima che sovente andava a sbirciare quando era appesa sul filo ad asciugare. E sognava grugnendo come fa lo stallone di fronte alla cavalla condotta alla monta.

La monta  era  un rito di iniziazione per i più giovani, un scandaloso guardare per le giovinette, una maliziosa metafora per i focosi butteri, una funzione da eseguire ad arte per i proprietari. Nulla doveva andar storto, il costo del servizio dello stallone doveva dare il suo frutto. Ad ognuno il suo compito: chi trattiene con la lacciara, chi incita, ma non troppo, l’agente dell’atto, chi cura che l’obiettivo vada nel giusto senso, chi tiene ben ferma la futura fattrice evitando che collassi sotto il peso del violento amante. E, poi, quando tutto è risolto al meglio, giù con la secchiata d’acqua gelida intesa a serrare gli sfinteri  della malcapitata e, spesso, rassegnata cavalla.

Nel pieno della notte Peppe s’intestardiva a dare caccia alla spinosa. I bastardelli dai mille colori e dalle fattezze le più varie, andavano su e giù per il folto latrando nel fondovalle, infischiandosene degli ordini e suscitando nel loro padrone un’ira incontenibile. Era allora che Peppaccio esaurite tutte le litanie apprese da chierichetto anelava a convertirsi per poter tirar giù dal cielo divinità alternative. Dato corso al repertorio blasfemico, finalmente si trovava la buca giusta dove far infilare i veltri più minuti. “Sotto là, vai, prennelo”. Era il momento di gloria di Serpentino-temerario-in-tana! Un attesa trepidante costellata di  rumori  sordi da oltretomba  che giungevano dal piccolo antro dove la lotta avveniva furiosa. Dunque, seguiva l’atto conclusivo. Dapprima, sortiva fuori  l’eroe canino, conciato come un Sansebastianuccio irto di spine, e poi eccoti la bestia pronta ad essere immolata a suon di bastonate. All’alba era già nel pentolone trasformata a bujone “cellerese”, dura come un sasso e fetente di un selvatico sottratto alla frollatura.

 Antenore non mollava nonostante i saltamontoni del pulledro zuppo di sudore e che soffiava come un drago furioso. Il capezzone teso a morte sfiancava il collo della bestia, le urla  cercavano di intimorirlo. Già sfinito da vari giri attorno al palo finalmente sembrava essere assoggettato e pronto ad esser caricato della pesante bardella. Ma il buttero, dalle gambe un po’ “lacchine”, sapeva bene che prima o poi quell’aria mansa che la bestia mostrava dopo la dura iniziazione si sarebbe trasformata in vendetta al minimo errore del suo cavaliere.

 Dove sono i vostri corpi? Che fate immobili nel silenzio? La maremma è scomparsa, sapete amici d’un tempo remoto?

Là dove c’era il procoio c’è un mare di pannelli solari. E là dove serpeggiava l’acquitrinio di Guinzagrande ci sono casali che non sono casali come voi li intendevate: sono ville che si illudono ad essere casali. E tu, Mecuccio, non potrai più sentire i tuoi odori eccitanti ma solo odori che sanno di profumi insipienti. E tu, vecchio facchino tormentato nelle ossa, non potrai mai più bere quell’ acetino d’un tempo: il vino è nelle bottiglie etichettate di gran lusso, vino dai mille aromi ma vino da palati insipienti.  Oh Peppe, ma Serpentino è lì con te? E tu Ginetta non potrai più accostarti alla macchia per assaporare il brivido: non c’è più di che eccitarsi, tutto è già scontato , tutto è provato e riprovato, sino alla noia.

Avete ragione da vendere nel tacere. Riposate tranquilli, riposate nella pace! A presto.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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