L’antistoricità delle donne

di VALENTINA DI GENNARO

Le ultime sentenze su casi di violenze e femminicidi hanno fatto parecchio discutere per il linguaggio, e la cultura che lo alimenta, che ancora giustifica atteggiamenti criminali e delinquenziali. 

La sentenza del giudice che assolve il collaboratore scolastico dall’aver palpeggiato una studentessa, lo fa conteggiando i secondi della molestia. Non lo fa prendendo in considerazione minimamente se la ragazza avesse o meno intenzione di essere palpeggiata, se avesse dato il proprio consenso. Per qualsiasi minutaggio. 
Il caso di Carol Maltesi:  le motivazioni della sentenza di condanna a 30 anni per il quarantaquattrenne che uccise la donna con cui aveva avuto una relazione. I giudici la definiscono “disinibita” e parlano di un uomo “usato e messo da parte” Si legge che il fatto che la ragazza fosse disinibita, appunto, e lui un ragazzo preso in giro attenuerebbe la crudeltà e la rabbia dell’averla fatta a pezzi. 
Salvatore Parolisi, ospite a “Chi l’ha visto?”, in permesso premio dopo aver scontato la metà della pena, come prevede il nostro ordinamento,  ha goduto di una riduzione di pena dall’ergastolo a vent’anni, da un grado di giudizio all’altro, perché il fatto che lui avesse un’altra relazione e che questo lo avrebbe messo in uno stato mentale di agitazione tale da non riuscire a vivere in una situazione di doppia vita e quindi sostanzialmente era molto stressato.
 Ai tempi di Parolisi, inoltre, non era stato ancora sciolto il nodo giurisprudenziale che non permetteva la coesistenza dell’aggravante della crudeltà con quella dell’impeto. Cosa che oggi non esiste più. 
 
Rimango basita e attonita dal linguaggio tribale con cui ancora si motivano le sentenze di questo tipo. Che danno per scontato l’appetito e il desiderio dell’uomo come qualcosa che non si domina e per cui attenuare, legittimare, comprendere. 
 
La nozione di “consenso” è qualcosa che ci indaga e interroga nel profondo, ci sprona ad usare parole diverse, un linguaggio nuovo. 
 
Manon Garcia ci ha regalato un saggio molto interessante, una critica su un concetto, fino a poco tempo fa dall’ accezione ambigua, se non altro, nella sua validità temporale.
Il consenso non si acquisisce per sempre.
Il consenso deve essere richiesto, anche, ovviamente, nelle relazioni stabili. 
 
Rischio ovviamente la banalità, e lo faccio consapevolmente, nel ripetere che il sesso, come dimensione di gestione del potere è politica, è politico.
 
“La centralità del concetto di consenso per una teoria liberale della sessualità, come dottrina giuridica sia strutturata intorno a una contrapposizione fra liberalismo e dignità umana, e come nelle relazioni intime entrino in gioco rapporti di potere e diseguaglianze di genere. In certo qual modo una prospettiva per far emergere le questioni cruciali per qualunque valutazione morale, politica e giuridica del ruolo che potrebbe o dovrebbe svolgere il consenso per una nuova etica sessuale paritaria. Due sono infatti, implicitamente, i ruoli che si spera di fargli svolgere: da una parte dovrebbe, negativamente, permetterci di lottare in modo efficace contro le violenze sessuali, in particolare fornendoci uno strumento utile per distinguere fra sesso e stupro, e dall’altra dovrebbe permetterci, positivamente, di pensare nuove modalità dei rapporti amorosi e sessuali più giuste, più paritarie e, probabilmente, più piacevoli in generale. Si tratta quindi sia di proteggere la nostra integrità e la nostra autonomia sia di creare le condizioni perché sia possibile un’autonomia sessuale in senso pieno.”
 
Di autonomia sessuale in senso pieno, in Italia, il dibattito è relativamente giovane.  
 
È da poco uscita una nuova edizione del famoso libro degli anni ’50 “Le italiane si confessano” di Gabriella Parca, con una nuova prefazione. Quella di Chiara Tagliaferri. 
Le prime edizioni, mi pare la terza nello specifico,  erano uscite con la prefazione di Pier Paolo Pasolini e Cesare Zavattini.
Molto si è detto sulla prefazione di Pasolini, Pasolini si dice “divertito” dall’italiano scolastico, limpido, finito, delle ragazze che scrivono parlando di quello che succede loro in quegli anni. 
La “prova d’amore” prima del matrimonio, gli abusi in casa, nei luoghi di lavoro. 
 
Qualsiasi premessa sulla figura di Pier Paolo Pasolini che potrei ora scrivere sarebbe stucchevole, e lo dico da donna pratica, anche inutile, non vi è certo bisogno che io premetta un giudizio su Pasolini. 
 
Quando Pier Paolo Pasolini viene ucciso nel novembre del 1975 Rossana Rossanda sulla prima pagina del Manifesto scrive: “ Con commossa unanimità di accenti, da destra e da sinistra, la stampa italiana piange Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale più scomodo che abbiamo avuto in questi anni. Diventato, anzi, scomodissimo. Non piaceva a nessuno, quel che negli ultimi tempi andava scrivendo. Non a noi, la sinistra, perché battagliava contro il 1968, le femministe, l’aborto e la disobbedienza. Non piaceva alla destra, perché queste sue sortite si accompagnavano a un’argomentazione sconcertante, per la destra inutilizzabile, sospetta. Non piaceva soprattutto agli intellettuali; perché era il contrario di quel che in genere essi sono, cauti distillatori di parole e di posizioni, pacifici fruitori della separazione fra “letteratura” e “vita”, anche quelli cui il 1968 aveva dato cattiva coscienza. Solo di essi, Sanguineti ha avuto, ieri, il coraggio di scrivere “finalmente ce lo siamo tolto dai piedi, questo confusionario, residuo degli anni cinquanta”. Gli anni cioè della lacerazione, apocalittici, tragici. Finalmente, per l’intellettuale di sinistra, superati. Questa pressoché totale unanimità è certo la seconda pesante macchina che passa sul corpo di Pasolini. Come della prima, chi ha la coscienza a posto può dire: “se l’è cercata”. Per chi non ha queste certezze è invece l’ultimo segno di contraddizione di questa contraddittoria creatura: una contraddizione vera, non componibile in qualche artificio dialettico. Giacché, se una cosa è certa è che questo improvviso riconoscersi tutti nelle sue ragioni, ora che è morto e in questo modo, è davvero l’ultimo sbeffeggiamento che gli restituisce questo nostro mondo non amato.”
 
Eccola la seconda macchina che passa sopra Pasolini, ora diventa la copertina corta del santo che tutti tirano dalla loro parte. 
Da femminista agisco conflitti e contraddizioni, non mi spaventano, non mi disorientano. 
Il poeta ( solo poeta?) scrisse nel 1962 una brutta prefazione a questo libro, tanto che l’autrice si chiederà: «Ma che cosa l’avrà divertito tanto? La ragazza che pensa di suicidarsi perché ha perduto la sua verginità, o quella che vuole uccidere il fidanzato perché gliel’ha fatta perdere?».
 
Scriverà anche Pasolini. “«È vero che per secoli la donna è stata tenuta esclusa dalla vita civile, dalle professioni, dalla politica. Ma al tempo stesso ha goduto tutti i privilegi che l’amore dell’uomo le dava: ha vissuto l’esperienza straordinaria di essere serva e regina, schiava ed angelo».
Inutile cercare il perché di quelle parole e di quella prefazione, Dacia Maraini, in “Caro Pierpaolo” dice: “«Per Pasolini tutte le donne erano anche madri, ecco perché non sarebbe stato capace di desiderarle. Per lui l’omosessualità era un istinto bellissimo e naturale. Per questo motivo è stato cacciato dalla scuola che aveva fondato e dal partito comunista. Il sentimento di sfida, che aveva innato dentro di sé, è stato esacerbato dal fatto che durante tutta la sua vita è stato trattato così male». 
 
Cosa lega le sentenze, il consenso, prefazioni di grandi intellettuali che commentano la prima raccolta pubblica di donne italiane che si confessano, che raccontano, che non si affidano più al confessionale ligneo della chiesa, né al tinello. 
Il destino di migliaia di donne che la storia non ha voluto, non solo come protagoniste, come eroine, non come comparse, ma neanche come antistoriche. 
Se la storia è un susseguirsi di fatti eccezionali che si allontanano dalla routine, cosa c’è di più antistorico delle categorie dell’operaio e della donna. Giornate uguali a sé stesse e destini sempre uguali.
Le donne non sono accettate nemmeno da antistoriche, quando diciamo: da millenni il nostro destino è lo stesso. 
 
VALENTINA DI GENNARO

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cenni bibliografici:
“Di cosa parliamo quando parliamo di consenso”, Manon Garcia, 2022 Stile Libero, Einaudi 
“Le italiane si confessano” G.Parca edizione 2023, Nottetempo
“In Morte di Pasolini”, Rossana Rossanda “Il Manifesto” 4 novembre 1975
“Caro Pier Paolo” Dacia Maraini, Neri Pozzi 2022