DELL’ALGORITMO E’ IL FIN LA MERAVIGLIA

di NICOLA R. PORRO

Questo torrido luglio 2023 sarà ricordato dai meteorologi come uno dei più caldi del secolo. L’evento che ha più probabilità di essere ricordato, però, potrebbe essere un altro. Penso all’accelerazione della cosiddetta transizione digitale rappresentata dallo sbarco sui nostri lidi di Bard, il chatbot di Google che nei principali Paesi sta contendendo a ChatGPT di Microsoft il primato nella gestione operativa dell’Intelligenza Artificiale (d’ora in poi AI).  Chiarisco subito. Quello che gli smanettoni chiamano chatbot è un software basato sull’impiego di intelligenza artificiale e apprendimento automatico. La sigla GPT sta per Generative Pre-trained Transformer, una tecnologia recentissima sviluppata per l’apprendimento tramite macchina (machine learning). La sfida sta già opponendo in tutto il pianeta le armate di Google, capeggiate da Larry Page, a quelle di Bill Gates e della sua Microsoft. La posta in palio è altissima. Si tratta di affermare l’indirizzo da imprimere all’AI che sta già facendo concretamente irruzione nella vita quotidiana di miliardi di esseri umani. In un articolo comparso sul nostro blog il 18 luglio Ettore Falzetti ha proposto sul tema una riflessione stimolante, lontana tanto da una supina fascinazione tecnologica quanto da isterico allarmismo. Dell’AI mi sto occupando anch’io da qualche tempo, ma in una prospettiva un po’ diversa. 

Quello che mi interessa capire non sono soltanto le conclamate potenzialità e i possibili rischi che si accompagnano da sempre a ogni forma di innovazione, questioni di grande portata che faremmo bene a non delegare supinamente alla sola competenza degli addetti ai lavori. Essendo in gioco interessi stratosferici, mi piacerebbe però soprattutto comprendere chi sono i giocatori e qual è il campo di gara. La competizione, ad esempio, si svolge in un’arena inedita. Il mercato digitale è atipico, ha dimensioni economiche planetarie ma non è materialmente visibile. È però pur sempre un mercato in cui la concorrenza – come insegna la filosofia del “capitalismo buono” – dovrebbe favorire la qualità del prodotto, incentivarne l’accesso e contenerne i costi. Quello che non torna è il fatto che una partita di questa rilevanza si giochi in un campo rigorosamente presidiato e recintato. Ad affrontarsi sono due soli avversari: due giganteschi oligopoli che insieme controllano la quasi totalità delle risorse, delle potenziali utenze e dei sicuri ricavi. I virtuali destinatari dell’incipiente Grande Trasformazione – vale a dire più o meno tutti noi – viviamo così per interposta persona un’inedita rivoluzione immateriale: una rivoluzione per delega. Nessun artista la immortalerà come fece Delacroix dipingendo le barricate dell’89. Nessuno scrittore la narrerà come fecero Majakovskij o Brecht con le rivoluzioni del Novecento. Eppure la rivoluzione silenziosa che si annuncia influenzerà il nostro modo di lavorare, di comunicare e di pensare ancor più profondamente di quanto non abbiano fatto le Grandi Rivoluzioni politiche della modernità. Siamo ben più istruiti e informati di quel “popolo” che concorse al loro successo, eppure non siamo altro che spettatori passivi, in rispettosa attesa di avere accesso a una Terra misteriosa promessa.

La trasformazione che stiamo vivendo rappresenta di certo un salto di qualità rispetto a tutti i casi precedenti. I prodigi della ricerca spaziale da mezzo secolo a questa parte, ad esempio, hanno infiammato il nostro immaginario ma non hanno prodotto tangibili effetti di ritorno sulla nostra vita quotidiana. I silenziosi avanzamenti della medicina, al contrario, hanno concretamente offerto a ciascuno di noi – in qualità di beneficiari passivi – la possibilità di vivere meglio e più a lungo. La rivoluzione digitale, come quella sanitaria che l’ha temporalmente preceduta, sta già incidendo sui nostri vissuti ma – come fu per la ricerca spaziale – nessuno di noi è in grado di concorrervi. Per cogliere la portata del mutamento non devo andare lontano: mi basta osservare quante ore al giorno trascorrano davanti allo schermo di un computer i miei quattro nipoti, di età compresa fra gli otto e i quattordici anni. Se lo confronto con quello consumato a suo tempo dalle mie figlie, le loro mamme, posso afferrare immediatamente portata e direzione del cambiamento. Non azzardo paragoni con la mia generazione che comprende le classi di età postbelliche chiamate a misurare da adulta con la sfida informatica e poi con quella digitale. Sfida che tutti (o quasi) abbiamo affrontato con curiosità intraprendente o con la pura forza della rassegnazione. Non c’è d’altronde oggi alcuna forma di apprendimento né occasione di svago, disbrigo di incombenze amministrative o modalità di contatto con amici, clienti, fornitori, consulenti, collaboratori ecc. ecc. che sfugga alla modalità (pardon: al format) della comunicazione digitale. I figli dei miei nipoti guarderanno con divertito stupore i pochi volumi cartacei usati dai loro genitori. La mia libreria la osserveranno con gli stessi occhi con cui noi guarderemmo i papiri degli antichi egizi o le tavolette scolpite dei giuristi romani. Nulla di demoniaco e nessuna laudatio temporis acti

Sappiamo da sempre che l’innovazione ha tempi e costi umani mai del tutto prevedibili e a noi è toccato in sorte uno spicchio di storia particolarmente vivace. L’innovazione può languire per millenni e prendere velocità vertiginosa in pochi decenni. Spesso produce lacerazioni sociali, che la filosofia chiama pomposamente fatture epistemologiche. L’invenzione della ruota, ad esempio, non ha modificato soltanto il trasporto: ha inventato il viaggio come avventura umana, differenziandolo dall’esodo proprio del branco animale. L’energia elettrica non si è limitata a produrre artificialmente la luce: ha fornito l’imprinting della modernità incipiente. Gli esempi potrebbero continuare. Nel caso di cui ci occupiamo, però, la telematica non si è limitata a fornire un valore aggiunto alla comunicazione: ne ha generato una modalità inedita e diversa da qualunque altra. A produrla è stata una scienza in continua evoluzione governata da un oligopolio che si serve di un uso selettivo delle tecnologie. Lo chiamano goal oriented: non discende da idee guida e modelli teorici ma si adatta, si aggiorna e si trasforma in relazione a obiettivi specifici, definiti da dimensioni standard (quanti contatti, quanti follower), È dunque una rivoluzione cui è difficile dare un nome. Più facile dire cosa non è. Non è una rivoluzione politica eppure aggredisce la comunicazione sociale: quella che presiede alla politica. Non è una rivoluzione sociale ma dà vita a un sistema di relazioni inedito, in cui esistono sistemi di ruolo, gerarchie e strategie concentrati nelle mani di pochi e pressoché invisibili sconosciuti. Non è, insomma, una rivoluzione democratica e non possiede un identificabile profilo culturale. Assomiglia piuttosto a un ferro da stiro che spiana, cancella e uniforma una gamma sconfinata di sensibilità, di memorie, di identità gemmate da altre stagioni storiche.

Quello che ci si chiede, allora, è fino a che punto l’intelligenza artificiale possa non semplicemente assistere, perfezionare o potenziare le nostre risorse mentali ma, in qualche modo, surrogarle. Prospettiva inquietante che, lo ripeto, va preliminarmente sottratta a ossessioni paranoiche o a nostalgie passatiste. Spinto dalla curiosità ho perciò provato a esplorare qualche concreta applicazione dell’AI misurandomi con un’impresa che mai avrei pensato si potesse affidare a un algoritmo telematico: la scelta delle vacanze. Si tratta di un territorio promettente per i guru dell’AI se ChatGPT vi si è gettata a capofitto. Google ha risposto colpo su colpo. Dal 13 luglio basta collegarsi a bard-google.com per fare conoscenza con l’intelligenza artificiale generativa targata Google e denominata Bard. Tanto diligente che appena nata sa già parlare tante lingue, compreso l’italiano. Risponde in voce o, a piacere, per iscritto. ChatGPT, da parte sua, dichiara di non avere finalità commerciali rappresentando una filiazione di OpenAI, una singolare organizzazione promossa da due grossi calibri delle tecnologie digitali come Elon Musk e Sam Altman. Lo scopo dichiarato è quelo di produrre una versione amichevole dell’intelligenza artificiale chiamata, per l’appunto, friendlyAI. Questo tipo di software prevede due modalità: di transazione per uso commerciale e di conversazione. Il software dedicato alla conversazione non si limita a simulare le comunicazioni umane (scritte o parlate). Riesce anche – e questo mi pare l’aspetto più importante e più inquietante – a elaborarne di totalmente inedite. Se le parole hanno un senso, significa che, a suo modo, questo programma pensa. In questo modo, attivando il nostro chatbot, ciascuno di noi può interagire con i dispositivi digitali come se dialogasse con una persona reale. È un essere virtuale che tuttavia assolve a funzioni comunicative più evolute di quelle che ogni giorno ciascuno di noi produce quando conversa, legge, studia (o scrive articoli per il blog).

I tempi dell’innovazione digitale, del resto, sono tato veloci proprio per la sua capacità di “autoapprendimento generativo”. GPT-4, il modello multimodale più avanzato, acquisisce come input non solo comandi verbali ma tutto quanto è possibile elaborare: immagini, video, audio e materiali scritti. Ciò gli consente di generare output creativi, surrogando perfettamente l’umano dono della fantasia sino a “comporre” testi inediti (argomento dell’articolo di Ettore) e a generare prodotti originali e di grande suggestione. Poche altre esperienze umane si prestano a questo gioco di elaborazione del desiderio come il turismo e, in senso lato, l’esperienza del viaggio. 

Evidentemente i portentosi chatbot ideati dai due sistemi in competizione ritengono di poter esplorare i nostri sogni e orientare le nostre fantasie in un ambito – quello del turismo – che rappresenta una voce di peso dell’economia globale.  In questo modo, sotterraneamente, un programma di AI si sostituisce alla nostra artigianale cassetta dei desideri. O meglio, non solo orienta e “modella” le mostre fantasie ma si atteggia a difensore e protettore di noi turisti virtuali. Vuole evitarci, dichiara testualmente “di incappare nei classici errori dell’intelligenza artificiale”. Per capirci qualcosa ho raccolto una documentazione per immagini offerta da National Geographic che, di recente, ha dedicato quasi un intero numero alla scoperta delle isole Fær Øer, un arcipelago composto da diciotto isole, appartenenti alla Danimarca ma situate al largo delle coste settentrionali dell’Europa, fra il Mare di Norvegia e l’Atlantico settentrionale, a metà strada fra l’Islanda e la Scozia. Mal collegate al resto del Pianeta e poco attrezzate turisticamente, le isole promettono però ai coraggiosi visitatori scenari fiabeschi e panorami mozzafiato. A riprova, sono state pubblicate diverse spettacolari fotografie, fra cui le quattro qui proposte. 

Tre di queste riproducono angoli suggestivi dell’arcipelago. La quarta (ma non dirò quale) propone un paesaggio altrettanto attraente. Che ha il solo difetto di non esistere. La foto, infatti, è stata realizzata da un maestro del genere, lo svedese Martin Edstrom, che ha chiesto all’AI di inventare un paesaggio inedito utilizzando tutte le informazioni (scritti, immagini, video) disponibili sull’arcipelago. Il bello è che nessuno, nemmeno fra i residenti nell’arcipelago, si è accordo dell’intrusione… Ma è una questione su cui torneremo. 

NICOLA R. PORRO

 

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