L’utopia negata

di CATERINA VALCHERA

Mentre si susseguono nel nostro paese a cadenza sempre più ravvicinata femminicidi e forme di varia violenza nei confronti delle donne, mentre si continua a cercarne le cause meno contingenti e più radicate nell’humus della nostra cultura, mentre esponenti del mondo politico trascurano colpevolmente di occuparsene in modo strutturale o addirittura si ergono a difendere  pregiudizialmente il presunto responsabile del reato piuttosto che la vittima, mentre i sociologi stessi sembrano non riuscire a elaborare teorie e orientamenti convincenti in questo territorio tanto sensibile, a me torna in mente un interrogativo che è anche un’icona politico-culturale: Che fare? Titolo solo in apparenza dubitante, in realtà fortemente assertivo della costruzione di un mondo nuovo specialmente per la donna in termini di autonomia, libertà di scelta anche in campo economico e di totale indipendenza da forze esterne. Titolo di un romanzo russo “a tesi” che risale alla seconda metà dell’Ottocento e che oggi risulta quasi romantico per quanto è intriso di speranza e idealità. Ne è autore quel Nicolaj Gavrilovič Černyševskij cui Lenin riconosceva, insieme ad altri, il merito di aver fatto da apripista alla rivoluzione vera e propria, tanto da mutuarne il titolo per il proprio libro, pubblicato nel 1902 e considerato la bibbia della rivoluzione stessa. In esso Lenin ammette con decisione che “la classe lavoratrice può raggiungere con la sua capacità solo uno sparuto sindacalismo” e ricorda che “la dottrina socialista è il prodotto di teorie filosofiche, storiche ed economiche sviluppate dai rappresentanti dei benestanti, cioè dagli intellettuali”. Dunque soltanto quelli che egli amava definire rivoluzionari di professione potevano liberare la classe lavoratrice dall’influenza borghese e convertirla al socialismo. Tra gli scrittori del passato che lo interessavano e che poteva ricondurre nella cornice delle sue concezioni filosofico-sociali, oltre a Tolstòj,  Turgéniev, Gogol’, Herzen, Majakovskji (che però non apprezzava come poeta) figurava a pieno titolo  Černyševskij. Uomo di vasta formazione filosofica e filologica (una specie di Leopardi russo che conosceva oltre alle lingue classiche, quelle moderne e superficialmente l’ebraico, il persiano e il tartaro), lo si potrebbe dire prestato alla narrativa per obbligo di coscienza, visto che i suoi interessi primari erano indirizzati alla critica, alla storia e alla storia del pensiero. Della letteratura egli aveva una concezione non smaccatamente propagandistica quanto piuttosto orientata e finalizzata a rinnovare la coscienza del popolo russo che, prima del bello, secondo lui aveva  bisogno del vero, del giusto, della speranza nel miglioramento. In alcuni scrittori, come Puškin, Gogol’, Herzen, egli intravide la possibilità di lanciare una prospettiva più ampia, di dare voce al sogno di un mondo trasformato. Il sogno rivoluzionario di un populista che non conobbe la critica dell’economia politica marxista, ma che seppe indicare e criticare ogni forma di sfruttamento; un utopista che dall’incrollabile fede nel materialismo- come Leopardi- seppe trarre un fascio di energie sentimentali così sincere e forti da farlo apparire un neo-romantico. Sicuramente un visionario. A metà degli anni ’50 del XIX secolo, in contrasto con le concessioni zariste e governative, i democratici russi come lui si riunirono attorno alla rivista “Il contemporaneo”, per dibattere di problemi economico-sociali e di creatività popolare, indicando la strada della rivoluzione, allorché la riforma del ’61 non incluse la concessione della terra ai contadini. Il contemporaneo fu sottoposto a censura e Černyševskij fu rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo. Qui, tra il ’62 e il ’63 scrive il suo primo romanzo, dal titolo appunto Che fare? Da qui uscirà solo dopo lunghi anni di lavori forzati, nel 1888, per morire l’anno successivo nella natale Saratov. Aveva 55 anni. Il romanzo, l’unico suo scritto superstite oltre ai carteggi privati, conosciuto attraverso copie clandestine e apparso integralmente nel 1905 fu definito da Kropotkin “breviario di un giovane russo” ed ebbe un’enorme risonanza. In realtà è il racconto appassionato soprattutto del sogno di Vera (come recitano i titoli dei capp. III, VI, IX) che si colloca all’interno di una prospettiva radicalmente nuova e di proposte sociali ancora inesplorate: il sogno di una collettività, di un organismo umano, prima ancora che sociale, fondato sulla solidarietà, compresa quella di genere. Ogni volta che Vera parla regala al lettore un piccolo manifesto femminista, una dichiarazione di intenti, sostenuti dal desiderio di indipendenza anche fabbrile: monologhi che sono proclami rivoluzionari in merito alla vita matrimoniale e sentimentale della coppia (camere e vite “separate”, amore immune da qualunque tipo di gelosia, spirito di empatia tra coniugi, condivisione autentica escludente smanie di possesso… e così via). E, ancor più rivoluzionaria, indipendenza economica della protagonista, garantita dalla messa in atto di un’organizzazione produttiva tessile ed esclusivamente femminile di tipo cooperativistico, con distribuzione egualitaria dei profitti e con servizi educativi interni alla fabbrica stessa. Il condensato della fede democratica dell’autore, nutrita dell’utopismo di Fourier, è  affidato totalmente alla voce di Vera, una marcusiana ante litteram. Non solo infatti ella afferma a gran voce il diritto di amare chi vuole in piena libertà (diritto già rivendicato dalla splendida Lucinde di Schlegel), ma rivendica anche un’inedita competenza: avviare un’esperienza produttiva capace di escludere l’ottica del profitto -grazie all’elementarità dei bisogni della padrona– e di innovare il rapporto operaio- padrone. Un progetto tutto declinato al femminile. Sfuggita dalla sua “grotta” (la famiglia d’origine), Vera rifiuta le nozze combinate per sposare il nobile d’animo Lopukhov, il quale poi la lascerà libera di amare il medico Kirsanov (per poi suicidarsi) nel rispetto del patto pre-matrimoniale stretto con Vera e dell’ideale di amore vero dell’altro, cioè amore dell’altrui felicità. Una miscela esplosiva di fervido rinnovamento, di accesa volontà riformistica. Quasi disarmante l’ottimismo che attraversa tutto il romanzo e che si deposita nell’intervento diretto dell’autore quando verso la conclusione dà istruzioni su come mantenere accesa la fiamma della passione iniziale (218, Garzanti). Ma anche inquietante in alcuni passaggi, se si pensa all’oggi. Rammentati che ad ogni poco ella ha il diritto di dirti:” Sono scontenta di te: va’ via”[..] Riconosci la libertà di lei, apertamente, senza restrizioni o sottintesi di sorta, come riconosci negli amici tuoi la libertà di avere per te dell’amicizia o di non averne. Questa è la fede che Černyševskj attribuisce alla gente nuova in opposizione agli antidiluviani, per ammettere poi, con amara ironia, che un mondo antidiluviano non può essere popolato che da creature anteriori al diluvio. 

Lascio al lettore il facilissimo indovinello finale: in quale epoca preistorica collocherebbe le creature responsabili-nel XXI secolo- di reati e crimini contro la donna? 

CATERINA VALCHERA

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* La foto di Nikolaj Černyševskij del 1888 di copertina è tratta da Wikipedia