I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 29: Il destino delle civiltà. Nuove religioni e nuovi messia. (prima parte)
Il destino delle civiltà
La civiltà, come qualsiasi organismo vivente, nasce, fiorisce e muore. Quando lo scrisse Oswald Spengler, nel suo famosissimo “Il tramonto dell’Occidente”, il concetto non rappresentava una novità già da un pezzo.
Urriti, Sumeri, Assiri, Egiziani, Greci, Romani, Arabi, Ottomani, città, nazioni avevano creato civiltà, alcune durate millenni, ma tutte, per cause diverse, si erano spente, tranne la nostra, che chiameremo «Occidentale», ancora in vita dopo tremila anni, anche se i segni del suo declino sono evidenti.
Non meno evidente che al tramonto di una civiltà non segua il vuoto. Spegnendosi, lascia giacimenti culturali, reperti archeologici, energie latenti, che possono tornare utili ai nuovi artefici.
Molti studiosi hanno osservato che il cammino delle civiltà dell’uomo, è andato in senso antiorario: si sono manifestate in Mesopotamia, hanno a lungo soggiornato nel Mediterraneo, hanno attraversato l’Atlantico, dopo lo sbarramento delle Americhe, hanno preso decisamente il Pacifico per arrivare davanti alle coste dell’Asia, unendosi all’oceano Indiano, dove, tra isole e terraferma vive quasi i 2/3 dell’umanità. Il ciclo è destinato a chiudersi. Non si sa quando e non si sa neppure cosa troveranno gli ideali maratoneti, tornando a casa, nel Mediterraneo.
Per capire se avremo una civiltà diversa bisogna stare con le antenne alzate.
Il nostro giudizio non è richiesto e non so neppure se sia legittimo esprimerlo. Sarà prudente restare nel chiuso di una stanza e parlare, con le tende abbassate, con pochi amici coraggiosi. Da carbonari.
Per ora siamo scettici, anche perché a candidarsi per l’avvicendamento è il popolo di Greta, il popolo cioè dell’ambientalismo e del riscaldamento globale.
Non sarà facile. Intanto troveranno un’agguerrita concorrenza nelle autocrazie orientali e nella grande democrazia indiana, non così tolleranti o arrendevoli come i paesi della vecchia Europa o degli stessi Stati Uniti; in ogni caso, per sostituire una civiltà, che ha alle spalle 3000 anni, non basta – almeno così la pensiamo noi carbonari – una novità, o una serie generica di novità, occorre che i nuovi sacerdoti chiariscano dove rompere con il passato e indichino nuove linee da seguire, rispetto a quelle consolidatesi in tremila anni, per migliorare le condizioni di uomini e donne, sempre che quest’ultima distinzione venga confermata.
Dico sacerdoti perché tutte le civiltà nascono intorno a un nucleo religioso. Ora i nuovi missionari percorrono il mondo, principalmente le cattedrali del potere, come le sale smisurate dell’ONU, del Consiglio Europeo, ma l’habitat preferito sono le strade e le piazze del mondo, dove le adunate oceaniche sono più facili da formare ed esse attraggono i fedeli come il miele le mosche, dove il verbo può circolare più veloce della cattiva moneta e i nomi degli eretici e dei loro peccati suscitano brividi d’indignazione e, ad un tempo, di presa di coscienza.
Le adunate oceaniche hanno sempre anticipato tragedie, grida un irriducibile carbonaro.
Fatica sprecata: la nuova religione ha cancellato la storia.
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Nel 2020, mentre a Edimburgo infuria una vera e propria battaglia per rimuovere le statue di Adam Smith, filosofo, economista, sociologo, padre del pensiero liberale, colui che ha indicato agli inglesi le vie del benessere, cambiandogli la vita, l’Università di Winchester nel sud dell’Inghilterra dedicava una statua in bronzo a grandezza naturale, esposta nel giardino dell’ateneo, a Greta Thunberg.
La giovanissima svedese ovunque vada nel mondo viene accolta come il Messia, i grandi della terra si prostrano, pendono dalle sue labbra, implorano il suo perdono, le giurano falcidie d’industrie, di automobili, le promettono altari di alberi e animali.
L’umanità nel corso dei millenni ha conosciuto innumerevoli religioni antropomorfiche, forse è tempo che gli Dei si manifestino a immagine e somiglianza di abeti e renne. Chissà se ci sarà posto per la posidonia e la ricciola. Il Pantheon, comunque, ne guadagnerà.
Per fare giustizia del fenomeno basterebbero quattro righe della Repubblica di Platone, ma non ci possiamo sottrarre al confronto con i tempi[1].
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L’ambientalismo è la stella polare che Greta ha imposto a tutto il mondo, lasciando credere – con gli umani dei nostri tempi non è difficile – che, prima di lei, ci fossero gironi infernali di … vapore, già perché questa è la sostanza, prodotta in quantità abnorme dagli esseri viventi, specie le mucche ontologicamente indisciplinate, che starebbe causando la fine del pianeta. Il cambiamento climatico è il libro.
Greta si propone, dunque, come novità assoluta, il suo sarebbe l’avvento.
Un disegno grandioso, che ha suscitato un successo planetario, non offuscato neppure da una doppia mistificazione: avvento non c’è stato perché Greta ci ha servito una ministra riscaldata; il trionfo non è stato proprio naturale, c’è voluto un aiutino, trovato nei trucchi commerciali del nostro tempo.
Ne parleremo brevemente.
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Prima, però, bisogna capire in cosa consista il cambiamento climatico. Così, da profani.
Quando si parla di clima, la discussione scivola sul cambiamento e sugli effetti catastrofici che esso comporterebbe. Greta e i suoi fedeli danno per scontato che gli scienziati abbiano idee uniformi sia sull’origine del fenomeno (abnorme impiego combustibili fossili) sia sui rimedi (de-carbonizzazione e impiego di sole energie rinnovabili).
In realtà, l’unica cosa sperimentalmente accertata è l’aumento della temperatura globale terrestre di 09° negli ultimi 160 anni. L’aumento, terribilmente maggiore, che incombe sulle nostre teste, è futuro e ipotetico. Guai, però, a smarrire le certezze, chi lo fa non solo è tacciato d’ignoranza scientifica, ma è servo della politica e delle lobbies. Una concezione tanto rozza, da assomigliare alla verità rivelata di altre epoche, non può rimanere sotto silenzio.
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In un libro abbastanza recente[2], gli autori, scienziati, esperti, accademici di varie discipline, sfidando l’accusa di eresia, pericolosa ai nostri giorni non meno di quanto lo fosse ai tempi della Inquisizione, riconoscono l’aumento della temperatura (0,9°) negli ultimi 160 anni, ma si chiedono se ciò sia sufficiente a giustificare un giudizio di “cambiamento globale e inedito”, quando dai dati conosciuti emerge una sostanziale stabilità e non sono d’accordo sulle cause del riscaldamento, sulle previsioni di evoluzione nel tempo delle temperature, sulle prescrizioni imposte per mitigarle.
Potrà non piacere, ma nella comunità scientifica non c’è una sola opinione, una verità rivelata, c’è quella dell’IPCC[3], appiattita sui catastrofisti, e ce n’è un’altra, egualmente scientifica e con una copiosa letteratura alle spalle, che discute, contesta e diffida di alcune delle argomentazioni della IPCC. Il libro ricapitola metodi e sistemi di ricerca dell’IPCC e oppone, alle sue conclusioni, argomentazioni ed obiezioni scientificamente documentate.
In particolare. gli autori affermano che, rispetto a opinioni articolate, non può prevalere il principio di maggioranza, un insulto alla scienza: fosse stato applicato a Galileo saremmo ancora alle prese col sistema tolemaico. La scienza, se veramente tale, altro non conosce se non il metodo sperimentale.
Nel caso del clima, non si può studiare e sperimentare ciò che non è ancora avvenuto.
La tesi catastrofista – apprendiamo – privilegia modelli matematici computerizzati a poche variabili, prima tra esse le, la CO2 antropica che, a seconda delle diverse ipotesi di quantità emesse, portano a schemi di aumento di temperature più o meno catastrofici. Il libro enuncia l’assoluto semplicismo e riduzionismo di tale metodologia.
Il gas serra in atmosfera è composto da innumerevoli sostanze, e il contributo della CO2 antropica è pari allo 0,76%, praticamente irrilevante per un profano come me. Inoltre, vengono sottostimate le radiazioni solari e il sole nel nostro caso è «il padrone di casa». Non solo. L’IPCC utilizza in modo insufficiente e incompleto gli studi scientifici comparati e delle discipline fisiche, astronomiche, geologiche e paleontologiche nell’analisi di quelle che sono chiamate le «forzanti climatiche».
Sono un profano e lo confermo, per me l’IPCC può avere anche ragione, siccome però dal modello, che si sceglie, dipende il lavoro e, quindi, la vita di decine, forse centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo, sarà il caso o no di verificare fino allo sfinimento se effettivamente il riscaldamento globale può determinare danni irreversibile al pianeta?
La tesi appena esposta, ad ogni modo, dimostra l’inesistenza di una unanimità di giudizi.
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Altra vestale del tempio dei catastrofisti l’AGWT (Anthropogenic Global Warming Teory), una autorità apodittica come poche, in quanto accredita il riscaldamento globale estremo, senza se e senza ma, ma non considera le controindicazioni, ad es. periodi caldi del passato (nel passaggio tra la fine della piccola era glaciale dell’Alto Medio Evo e il riscaldamento del Basso Medio Evo, lo sbalzo della temperatura fu di 4°, un’esagerazione) e neppure del presente.
Lo spiega un brillante professore dell’Università Federico II di Napoli, Nicola Scafetta, il quale, nell’applicazione rigorosa del metodo scientifico, esamina tuti i dati della fascia più conosciuta, quella del c.d. riscaldamento, che va dal 1850 ad oggi, giunge alla conclusione che negli ultimi 20 anni, senza cadute nelle emissioni di CO2, le temperature medie sono risultate stabili.
Nella stessa fascia, invece, AGWT supponeva un riscaldamento notevole di circa 0,2° per decennio, quindi, 0,4° nell’ultimo ventennio, che non ci sono stati. Occorre cautela e serietà, insomma, quando si afferma che la “scienza ha validato i modelli del riscaldamento antropico”.
Il Prof. Scafetta osserva, da ultimo che è sbagliato, ai limiti della temerarietà, omettere di collegare il riscaldamento ai cicli millenari dell’attività solare.
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Con il terzo eretico mi trovo ancor più a mio agio perché è uno storico. Il Prof. Wolfgang Behringer è docente di Storia presso l’Università del Saarland, a Saarbrücken in Germania, dove dirige il Centro per gli Studi Storici Europei. Ha insegnato nelle università di Monaco, York e Bonn ed ha scritto, tra l’altro, un magnifico libro sulla materia che ci interessa[4].
Il Prof. Behringer spiega che la storia dell’uomo è la storia dell’adattamento umano ai cambiamenti del clima. L’uomo entra nel circuito dell’evoluzione naturale del pianeta, in corso da 4,5 miliardi di anni, 200.000 anni fa. In quest’ultimo lasso di tempo s’inserisce, per così dire, nella natura, ma dire che cominci a incidere sul clima è una sciocchezza. Altra inesattezza ritenere che le variazioni climatiche siano quasi regolari, alternandosi in lunghi periodi.
In realtà, il clima cambia costantemente, a volte per cicli molto brevi, se poi all’interno di cicli più o meno lunghi non importa. Tutto ciò non è casuale, dipendendo dalla quantità di irraggiamento solare, dal movimento ed eccentricità dell’orbita planetaria, dall’oscillazione dell’asse terrestre, dalla composizione chimica dell’atmosfera. La variabilità del clima, dunque, è estrema ed è la regola.
Il Prof. Behringer a chi rappresenta la storia del clima come una lunghissima storia di cicli, sempre uguali, solo per accreditare la tesi che all’improvviso la serie si è interrotta per esclusiva colpa dell’uomo, replica con quattro parole: «il clima terrestre è cambiato più volte e cambierà ancora» e invita a essere cauti sulle cosiddette cause antropogeniche (CO2): non c’è bisogno di fattori esogeni, oltre quelli naturali, per spiegare, almeno in esclusiva, effetti serra e riscaldamento.
Giustamente rileva che, piuttosto che indulgere a profetismi sul futuro del clima, sarebbe utile considerare la peculiarità umana di adattamento ai cambi del clima. Che è la regola della storia fisica del pianeta, che dovrebbe indurre a prudenza sulle previsioni future, poiché genera allarmismi esagerati, premonizioni di dinamiche irreversibili e, soprattutto, l’idolatria delle temperature.
Oggi domina l’angoscia del riscaldamento, quando bisognerebbe temere il raffreddamento.
La storia del pianeta ha sperimentato climi molto più freddi e molto più caldi dell’attuale, ma è nei periodi glaciali che la vita degli uomini è a rischio estinzione, al contrario, è nei periodi caldi (interglaciali) che la capacità di adattamento, il rapporto tra uomo e clima, la reazione della società alle sfide dell’ambiente è più efficace e, soprattutto, è nel corso degli ottimi climatici (periodi di riscaldamento) che le capacità di adattamento umano al clima si affinano e migliora la qualità di vita della specie. Di qui il paradosso: la brevità dei cicli interglaciali, nella storia del clima, dovrebbe far pensare alla fragilità del riscaldamento attuale piuttosto che alla sua unicità e irreversibilità.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)

Grazie Ezio per il tuo documentato contributo.
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