I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 28 (seconda parte): L’abbandono di principi e culture ancestrali, dell’antropologia, della biologia, delle chiavi per il funzionamento dei processi (gerarchia e non solo) e di altro.
D’accordo, ma la crisi colpisce un po’ tutte le nazioni europee e i nemici sono molto agguerriti.
Le teorie del complotto mi fanno venire l’orticaria. In breve, non ci credo. Perché, poi, qualcuno dovrebbe complottare contro di noi, quando tutto il mondo sa perfettamente che non abbiamo davvero bisogno di nemici esterni che ci facciano del male? Ci pensiamo da soli.
Certo, in un mondo di 8 miliardi di individui, la lotta per la sopravvivenza è spietata. Tutti vogliono produrre e vendere di più, tutti vogliono espandersi sui mercati, a spese degli altri, se necessario.
Per fortuna solo raramente s’impugnano le armi, ma quelle usate non sono meno letali[1].
I grandi paesi del socialismo reale sono sempre stati maestri, così nella propaganda, così nella disinformazione. All’Unione Sovietica non è bastato, ma la Cina segue le stesse strade con tecniche ben più raffinate.
I cinesi hanno un solo obbiettivo, l’egemonia mondiale, che perseguono attraverso il commercio e la restaurazione di un colonialismo di ritorno, l’acquisto di infrastrutture e asset occidentali, lo spionaggio commerciale e la penetrazione nei media occidentali.
Lo strapotere commerciale non è colpa dei cinesi, ma degli occidentali e dei politici che li guidano, i quali hanno abbondonato le idee, pensando che i soldi, il debito rappresentassero ciò che serve e non ci fosse bisogno d’altro. Contemporaneamente, più o meno tutti i paesi occidentali attribuirono alla globalizzazione una missione delirante: voi orientali avrete il monopolio della produzione, dalle candele alle navi, dalle carote ai cuscinetti a sfera, niente escluso, in cambio ci lasciate l’industria del lusso, i servizi e le macchine elettriche e gran turismo.
Faccio una premessa, sono un liberale e per me il commercio, locale o universale, è una ricchezza e dove passano le merci non passano i cannoni ecc. ecc. Tuttavia, occorreva conservare un criterio di reciprocità e un’industria efficiente almeno nella fascia medio alte della produzione.
Invece, alla fine della pandemia o quando si era ormai attenuata, l’Europa, con i somari che stavano in Commissione, e con i responsabili nazionali, che, furbi com’erano, pensavano che le penne ce le lasciassero solo gli altri, si è trovata in una situazione drammatica.
Le grandi navi porta-containers ricominciavano a navigare, partivano cariche dall’India e dallo Estremo Oriente verso l’Europa e tornavano vuote. Morale, i noli marittimi aumentarono di cinque volte rispetto alle quotazioni ante pandemia e non saprei dire, mentre scrivo, se siano calati. Avevamo inventato un commercio a senso unico.
Nel frattempo, la Cina ha acquistato enormi territori, stabilendo la sua egemonia in moltissime nazioni in Africa, favorita dalla povertà e dall’infimo costo del lavoro, depredando i nativi di minerali e di derrate alimentari e fidelizzandoli ai prodotti cinesi. Insomma, una colonizzazione new age, roba che, se l’avessero fatto gli occidentali, gli amici wokisti li avrebbero assaliti alla gola.
La tecnica di produzione cinese, inoltre, è di mediocrità assoluta per tutte le destinazioni finali, ma che importa, o bevi o affoghi, voi le candele non le avete.
Opachi e inaccettabili, poi, i comportamenti commerciali cinesi, che vanno dall’aggressione alla credibilità del lavoro degli altri e all’indebolimento delle strutture sociali, culturali e produttive dei concorrenti.
Capiscono che le società occidentali sono fragili, la loro cultura genera pregiudizi, paure, incertezze; la classe media, un tempo locomotiva del sistema, si è sfarinata, sempre meno pensa al destino dei figli, sempre più al divano, alla televisione, alle ceste di birre, patatine e pop corn. I giornali facilmente chiudono i battenti, la caduta delle copie vendute è vorticosa; la manifattura è diventata il nemico, tutti si rifugiano negli uffici e pochi si rendono conto che, alla fine di questi processi, i figli dovranno tirare la vita con i denti.
Capiscono anche che gli occidentali non sono pericolosi, gli europei sono indifesi e gli americani dopo il Vietnam hanno perso tutte le guerre ed oggi faticano a trovare combattenti, riuscendo ancora, ma non si sa ancora per quanto, a mettere insieme reparti di élite, buoni a stanare terroristi isolati, grazie ad armi sofisticatissime e apparati d’appoggio simili a quelli che si vedono nei videogiochi.
Gli aerei volano sempre meno, sostituiti dai droni. Per gli occidentali i social hanno fatto il resto, distruggendo principi, modelli di vita, coscienza delle gerarchie, una volta cardini delle comunità.
La penetrazione cinese in occidente, dunque, è ostile, e tutti i mezzi sono buoni. Uno di essi è l’istituto Confucio, presente in tutto il mondo, il più delle volte aggregato alle Ambasciate. I cinesi seguirono l’esempio dei maggiori paesi europei, ma gli scopi erano diversi.
Uno dei segreti del successo italiano nel dopoguerra furono gli istituti di cultura paralleli alle nostre sedi diplomatiche, erano numerosi e tra i migliori, con uno splendido nome: Società Dante Alighieri.
Non meno belli ed evocativi i nomi di quelli tedeschi, spagnoli e francesi, Goethe Institut, Istituto Cervantes, Centre Saint-Louis. L’Italia era stata e continuava ad essere un paese protagonista di grandi ondate migratorie. La Società Dante Alighieri aveva il compito di conservare i legami con la madre patria in paesi remoti, di promuovere il turismo, le attività commerciali e l’insegnamento della lingua italiana.
La fortuna di questi istituti, almeno di quelli italiani, è durata fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. L’Italia li mandò alla deriva e ora stanno annegando nella mediocrità.
Nel 2000 una politica, che si stava incamminando a fare del senso del ridicolo la sua stella polare, trovò un rimedio demenziale, concedendo il diritto di voto agli italiani che, partiti 100 anni prima, l’Italia non l’avevano mai vista, l’italiano non lo parlavano, il passaporto non l’avevano, votavano in altri Paesi. Sappiamo tutti come è andata: le macchiette superarono gli imbrogli.
Chissà se Mirko Tremaglia, il deputato del MSI, che aveva dedicato tutta la sua vita politica a quell’impresa e non gli era sopravvissuto, guardandola dal cielo, sia andato fiero della sua creatura.
Forse è per questo che qualcuno che aveva partecipato a questa follia, vergognandosene, tolse il sacro nome di Dante Alighieri agli istituti di cultura, trasformatisi in collettori di voti.
Tutta diversa l’esperienza degli istituti Confucio, la cui espansione è relativamente recente.
Inizialmente vennero accolti con favore, ma da qualche anno spesso e volentieri vengono messi alla porta. Le loro funzioni, infatti, con il passar del tempo sono parse sempre più opache e molte, troppe, le voci sul ruolo sistematico e militante nello spionaggio industriale e commerciale.
Altri e ancor più vergognosi veicoli di propaganda e arruolamento, i media, televisioni, radio e soprattutto giornali. Pochi anni fa, abbiamo scoperto che giornali tra i più autorevoli del mondo New York Times, Wall Street Journal, Washington Post e UK Telegraph pubblicavano inserti di 4 o 8 pagine del China Daily, organo del partito comunista cinese, a prezzi da capogiro.
Non sono mancati giornali italiani, francesi e di molti altri paesi nel mondo.
Negli inserti, sotto il titolo China Watch, potevi leggere articoli del tipo «40 anni di brillanti successi nel Tibet». Ora, poiché il Tibet è stato culturalmente cancellato, poiché nella regione dello Xinjiang una minoranza etnica di sei milioni d’individui di religione musulmana è confinata in «campi di rieducazione», poiché la libertà di stampa a Hong Kong è un ricordo di altri tempi, poiché il dissenso, sia pure il più timido, è represso, poiché la Cina ha il più alto numero di giornalisti anche stranieri in carcere, non si capisce davvero perché gli occidentali dovrebbero alimentare pratiche come la «via della seta».
In Italia la consuetudine al servilismo ci ha favorito. Nel 2019 il Sole 24 Ore annunciava: «Il Presidente cinese Xi Jinping non è ancora decollato da Pechino con destinazione Roma per la visita di Stato di due giorni in Italia e già si firmano i primi accordi di collaborazione tra i due Paesi».
Inizia una rincorsa alla collaborazione, ci manca solo il gemellaggio, forse passato di moda.
Il Sole 24 Ore, ANSA, Rai, Mediaset e Class Editor stringono accordi con i loro omologhi cinesi, tutti organici al regime; addirittura viene programmata la «Settimana della Tv cinese», che trasmetterà, tra l’altro, la versione italiana delle «Citazioni letterarie di Xi Jinping».
Insomma, una botta di propaganda pazzesca. Credo che neppure Benito Mussolini abbia mai pensato di ordinare alla gloriosa Eiar di trasmettere, tra il Trio Lescano e Rabagliati, il Mein Kampf di Hitler, in lingua originale e traduzione simultanea.
Sì, ma sai, Xi Jinping avrà ricevuto applausi a scena aperta nelle simpatiche riunioni del Partito Comunista Cinese, quando ha riassunto le politiche etniche dell’ex Celeste Impero, nello Xinjiang, dove vive una minoranza d’origine turcomanna e di religione musulmana, con un conciliante «nessuna pietà»; è vero ha ridotto al silenzio con la forza la popolazione di Hong Kong: avete ragione, non sta bene che tanti giornalisti vengano imprigionati (48 arresti nel 2020), ma Xi Jinping è la speranza del mondo nel terzo millennio.
Sarà pure così, ma nessuno mi leva dalla testa che sia semplicemente vergognoso che giornali, tra l’altro finanziati almeno in parte da soldi pubblici, diventino il megafono della visione politica e della propaganda del PCC che il nostro maggior alleato, gli Stati Uniti, accusa di crimini contro l’umanità.
Il vento sta lentamente cambiando. Sempre meno, almeno in occidente, i giornali che ospitano gli “inserti” cinesi. Molti paesi hanno denunciato pesanti pressioni per influenzare la linea editoriale di giornali liberi e dalla schiena dritta per reprimere la pubblicazione di notizie e opinioni malviste dal PCC, dei tentativi di reclutamento dei giornalisti da rendere docili. Non passerà tempo, ne sono convinto, e conosceremo l’altro volto della Repubblica Popolare Cinese.
Speriamo non sia troppo tardi. Una parte cospicua degli europei vive al di sopra delle proprie risorse e gli Stati, strozzati dai debiti, hanno già venduto ai cinesi pure la strada di casa, i greci il porto del Pireo e noi gli stavamo per vendere quello di Trieste. Prepariamoci a sacrifici colossali, altrimenti ci toccherà un colonialismo 2.0 già sperimentato in Africa.
***
Nessuno lo può dire, ma non è escluso che la Cina abbia predisposto a tavolino e con grande cinismo un’offensiva contro la normalità dei paesi occidentali. Più volte mi sono chiesto se la Cina, oltre al Covid, ci abbia trasmesso un virus ancor più pericoloso, che aggredisce comportamenti e mentalità degli individui, la stessa cultura, che permea la nostra società. Sta di fatto che ormai, da una ventina d’anni a questa parte, il politicamente corretto è diventato la regola.
In rapida successione si sono impadroniti della nostra vita movimenti, come il #metoo, il black lives matter, la cancel culture, il wokisme, con il proposito deliberato di cancellare la storia e il retaggio millenario dell’occidente.
Possibile tanti e tutti insieme? Dietro non ci sarà una manina? Rieccoci con il complottismo.
Non ho cambiato idea, il complottismo mi fa venire l’orticaria, voglio, però, ragionare su elementi oggettivi. I nemici dell’occidente sanno perfettamente quali sono i punti deboli delle nostre società.
In una fase storica in cui le Università hanno rinunciato a essere centri in cui il confronto delle idee è aspro, ma plurale, aperto e libero, in cui i giornali sono in declino e sopravvivono, stentatamente, solo quelli dove il pensiero unico è imperante, in cui i libri si vendono sempre meno, in cui i social network inquinano le poche idee rimaste, in cui la suscettibilità e la morbosità sono i sentimenti dominanti, chi vuole indebolire l’occidente sa dove colpire.
C’è chi non ha bisogno di condannare la violenza sulle donne o la subalternità di esse agli uomini; crede, semplicemente, che nel terzo millennio non ci sia spazio per simili pregiudizi, come, in verità, non ce n’era prevalentemente da decenni. Lo dico agli alfieri del #memetoo.
Quello che mi fa rifiutare questo movimento è la trasformazione a priori in pratiche criminali dei rapporti tra donne e uomini, a volte anche torbidi, ma più spesso schermaglie au but de souffle, gioco raffinato di scacchi, dove desiderio e amore s’intrecciano, inconsapevoli dell’astuzia della natura.
Se qualcuno vuol rinunciare a Virgilio, quando descrive il gioco di Didone, che si nasconde tra gli alberi, stando attenta che Enea non la perda di vista, a Pierre de Laclos, a Gustave Flaubert faccia pure, peggio per lui.
Il #metoo, poi, mi fa orrore quando pretende di condannare senza prove: trent’anni fa mi hai sfiorato il seno, dimostra il contrario se sei capace. Naturalmente il contrario non si può dimostrare e sono in molti che hanno accettato di risarcire i danni pur di non incorrere in una sentenza già scritta.
Francamente, rinunciare al principio millenario dell’habeas corpus non è nelle mie corde.
Con il black lives matter si traggono effetti universali da un episodio isolato.
Due anni fa, a Minneapolis, un uomo nero di una cinquantina d’anni, George Floyd, venne ucciso da un poliziotto, che per immobilizzarlo gli aveva messo il ginocchio sulla gola, nel corso di un arresto. Ne seguì una sollevazione popolare mondiale e nacque il movimento (“anche le vita dei neri contano”), che in un attimo si diffuse in tutto il mondo. La morte di un solo uomo, specie se ingiusta, ferisce l’intera umanità. Tuttavia, quella del povero George venne provocata da un poliziotto cretino, che non seppe controllare la sua forza; questo, però, non vuol dire che da quel tragico evento possano trarsi indici incontrovertibili dell’esistenza di un razzismo indiscriminato e dominante in America.
L’identificazione dell’episodio con il razzismo venne dalla Cina e fu come una chiamata alle armi, la morbosità fece il resto.
Le piazze di tutto il mondo si riempirono per protestare contro il razzismo americano.
Non occorre essere antropologi o sociologi per sapere che le condizioni di vita della popolazione nera in America non sono eguali a quelle di cui godono i bianchi, so però che i presupposti per rimuovere le diseguaglianze furono create da due grandi uomini, Martin Luther King e Lyndon Johnson negli anni ’60 del secolo scorso. Fu un accordo autentico, che nasceva da sofferenze, soprusi, umiliazioni secolari e nessuno può o deve minarne le fondamenta.
Da allora negli Stati Uniti gli afroamericani sono arrivati alla Casa Bianca, alla Segreteria di Stato, al governo di molti stati dell’Unione, alla Corte Suprema Federale, ai vertici degli uffici più delicati dell’amministrazione, dell’esercito, della magistratura, per dirne una, il procuratore di New York che sosterrà l’accusa contro Trump è un’afroamericana, non soffrono discriminazioni sul lavoro, negli affari, nelle imprese grandi e piccole, sono tra i protagonisti nel cinema e nella TV.
Sconcerta che, pur essendo questi dati di dominio pubblico, si preferisca seguire la vulgata cinese, che, a proposito di razzismo, tiene sequestrata un popolo di oltre sei milioni di abitanti solo perché di etnia e religione diverse.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)
