“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – “…..L’ ALTERNATIVA C’È …….SI CHIAMA GIUSTIZIA”
di STEFANO CERVARELLI ♦
- Nella splendida cornice romana in un luminoso giorno di fine estate, verso il tramonto, due giovani pugili salgono sul ring per contendersi il titolo di campione olimpico nella categoria mediomassimi. Il polacco Zbigniew Pietrzykowski (da ora Zibì) non sapeva esattamente a cosa andava incontro, era un ottimo pugile, aveva disputato oltre 350 rincontri, collezionando medaglie internazionali ed era favorito per l’oro olimpico e naturalmente riuscì a conquistare la finale con una certa facilità, eliminando in semifinale il nostro Giulio Saraudi.
Il suo avversario aveva invece suscitato parecchie perplessità negli incontri precedenti; era un ragazzo americano, di colore, abbastanza alto, decisamente sfrontato che parlava sempre, ma proprio sempre e spesso con presunzione ed arroganza. A sentir lui aveva due sole paure: quella di volare e quella degli avversari mancini.
Al primo problema le cronache riportano che aveva ovviato munendosi durante i volo dagli Stati Uniti di un paracadute – residuato bellico – e passando il tempo a riempire di chiacchiere i compagni; ma rimaneva il secondo problema che si concretizzò sul ring nella persona di Zibì.
Il pugile polacco era naturalmente a conoscenza della debolezza del suo avversario e riuscì a sfruttarla in suo favore tanto da chiudere il primo round in vantaggio.
A quel punto il giovane americano di colore si ricordò che stava lì perché sapeva fare benissimo una cosa, dare pugni, e dopo aver passato il primo round a difendersi dal nemico mancino, cominciò a prenderlo a pugni, e continuò a prenderlo a pugni per tutto il secondo round e per tutto il terzo. Vincendo la paura dei mancini il diciottenne Cassius Clay da Louisville – Kentucky vinse anche la medaglia d’oro nella più bella olimpiade dell’era moderna: quella di Roma.
Era un pugile diverso Cassius, nessuno ancora lo sapeva, tranne lui, in seguito verrà considerato il più grande di sempre.
All’epoca amava molto il suo Paese e per difenderlo non esitò a rispondere per le rime ad un giornalista russo che gli chiese cosa si provasse, da ”negro” a portar gloria al suo Paese.
Clay rispose che nel suo Paese, nonostante le discriminazioni razziali, si viveva senz’altro meglio di come si viveva in Unione Sovietica.
Lingua lunga e sciolta quella di Cassius, ma poi…..ma poi accadde che una volta tornato negli States andò a mangiare in un ristorante della sua città dove gli fu detto che, seppure era campione olimpico, lui era sempre un “negro” e in quel ristorante non servivano “negri”.
Quel giorno Cassius capì che puoi vincere tutte le medaglie del mondo, ricevere gli applausi del tuo popolo, ma poi torni e continui ad essere un “negro”.
Dopo le olimpiadi Cassius passò subito professionista e nel 1964 divenne campione del mondo dei pesi massimi battendo Sonny Liston: aveva soltanto ventidue anni e divenne perciò il più giovane campione di sempre, fino d allora; record che poi andò a Tyson che, nel 1986 divenne campione del mondo a vent’anni.
Pugili all’altezza di Clay era difficile trovarne, divenne ricco, ma sentiva dentro di sè qualcosa che ancora non andava; il ricordo della cacciata dal ristorante era sempre vivo e gli bruciava.
Il giorno dopo la vittoria del titolo mondiale sorprese tutti convertendosi all’Islam e aderendo alla Nation of Islam di Edijah Muhammad; da quel giorno il suo nome non fu pù Cassius Clay, ma Muhammad Alì che vuol dire “amato da Dio” ed a completamento di questa metamorfosi disse che: ”Cassius Clay era il suo nome da schiavo”.
Beh, una bella differenza da Roma 1960, quando rispondendo al giornalista russo, difese calorosamente il suo Paese.
La Nation of Islam era un’organizzazione che non seguiva esattamente l’Islam tradizionale e tra i suoi obiettivi vi era anche quello di creare uno stato indipendente, formato da soli afroamericani, all’interno degli Stati Uniti.
Alì, a un certo punto della sua vita, ne uscirà, ma ne faceva ancora parte quando avvenne l’episodio che sto per raccontare.
Era iniziata la guerra in Vietnam e Muhammad Alì ricevette, come tutti i ragazzi della sua età, la chiamata alle armi: decide di non andare, però il 28 aprile 1967, ligiosamente è nella fila con gli altri coetanei, presso il centro di arruolamento di Houston; arriva il suo turno di chiamata: ”Cassius Marcellus Clay, esercito, faccia tre passi avanti per prestare giuramento”. Alì non si muove, il tenente Dunkey ripete la formula. Alì rimane ancora fermo; viene allora invitato in un ufficio dove gli spiegano che il suo rifiuto di entrare nell’esercito gli costerà la prigione. Gli viene quindi ripetuta la formula, Alì questa volta si muove, ma per firmare la sua dichiarazione di rifiuto all’arruolamento, nonostante il suo avvocato avesse ricevuto ampie garanzie che, finché non si fosse concluso l’iter dei ricorsi degli obiettori di coscienza, Alì avrebbe svolto il suo servizio al centro di Houston.
La notizia del suo rifiuto indigna moltissima la gente perché, all’epoca, il sentimento degli statunitensi nei confronti della guerra nel Vietnam era ancora lontano da quello che sarebbe stato poi pochi anni dopo; chi si rifiutava di andare in guerra era considerato un vigliacco, che non ama il proprio Paese.
La commissione pugilistica gli ritira immediatamente la licenza; Muhammad Alì non è più un pugile, bensì un renitente alla leva, in attesa di processo.
Ma questa non era una sorpresa in chi ricordava quanto Alì proclamasse nei suoi discorsi, che non furono pochi, aiutato in questo dalla sua proverbiale loquacità.
Per ovvie ragioni ne riporterò solo alcune frasi e brevissimi periodi, che serviranno a far comprendere ancor più il tenace combattente che era, non solo sul ring, ma anche nella difesa dei diritti civili.
Pochi giorni prima che gli venisse ritirata la licenza di pugile in un discorso tenuto all’Università Howard, nel quale faceva intuire quanto sarebbe success, recitò una poesia che terminava con la frase: “Il paradiso dei bianchi è l’inferno dei neri”.
La sua visione del mondo lo aveva spinto a considerare gli Stati Uniti un posto dove i bianchi possono fare dei neri quello che vogliono, compreso, ed ecco un passaggio importante, mandarli a morire in una guerra che interessava solo a loro.
Qualche settimana prima, in uno dei suoi discorsi più famosi, era stato ancora più chiaro: ”Perché dovrei indossare una divisa, andare diecimila miglia lontano da casa per lanciare bombe e sparare a persone in Vietnam, quando, i cosiddetti negri a Louisville vengono trattati come cani e viene loro negato ogni più semplice diritto? Non andrò a uccidere e bruciare un’altra povera popolazione per perpetrare la dominazione degli schiavisti bianchi su un altro popolo. Mi hanno detto che se continuerò in questo intendimento rischierò il mio prestigio e perderò milioni di dollari che guadagnerei da campione del mondo. Non importa, il vero nemico del mio popolo è qui, non rinnegherò la mia religione, il mio popolo, me stesso, perciò andrò in galera. Siamo stati già in galera per 400 anni”.
Durante un’intervista rafforzò il suo pensiero: “Siete voi il mio nemico, i bianchi sono i miei nemici, non i Vietcong. Siete i miei nemici quando chiedo libertà; siete i miei nemici quanto pretendo uguaglianza; siete i miei nemici quando chiedo giustizia. Voi non state dalla mia parte, come potete pretendere che io vada a combattere per voi?”.
Era un personaggio straordinariamente famoso Muhammad Alì, anche se aveva solo venticinque anni.
In un’altra intervista disse:”La mia coscienza non mi permette di andare a sparare ad un mio fratello, a gente povera, affamata, che vive nel fango, per la gloria della grande e potente America” e poi aggiunse una frase che divenne storica: “Perché dovrei sparare ai Vietcong? Nessuno di loro mi ha mai chiamato negro, nessuno di loro mi ha mai attaccato con i cani, non hanno mai stuprato mia madre, né ucciso mio padre. Preferisco andare in galera”.
E così fu. Il processo si svolse due mesi dopo, fu condannato a cinque anni di carcere e 10.000 dollari di multa; gli venne revocato il titolo dei massimi; per lo sport americano Alì era ormai il passato.
Dopo la sentenza disse: “Mi oppongo a quanto detto da voi giornalisti al popolo americano ed a tutto il mondo, cioè che io avevo solo due alternative: o andare in guerra o finire in galera. No, c’è un’altra alternativa: si chiama giustizia.
Se la giustizia prevarrà, se i miei diritti costituzionali saranno rispettati, non sarò costretto ad andare in galera o in guerra. Sono convinto che la giustizia e la verità alla fine prevarranno”.
Aveva ragione.
Tre anni dopo viene riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza per motivi religiosi.
Grazie ai ricorsi che fece Alì riuscì a non andare in galera e gli venne restituito il passaporto; il mondo della boxe però non l’aveva perdonato, nessuna federazione gli volle dare la licenza per combattere; solo dopo più di un anno la ottenne dalla Georgia.
Si trovò a ricominciare la carriera avendo perso gli anni migliori per un pugile, quelli dai venticinque ai ventinove.
Con molta fatica riuscì a tornare quello che era stato, riuscendo nel 1974 a riconquistare di nuovo il titolo di campione del mondo battendo George Foreman al termine di un combattimento leggendario, disputatosi a Kinshasa, capitale del Congo.
I tempi stavano cambiando, il popolo americano non ne poteva più della guerra nel Vietnam, che finì l’anno seguente con la conquista di Saigon da parte dei nord vietnamiti.
Muhammad Alì passò alla storia come il pugile più grande e come il più tenace obiettore di coscienza contro la guerra.
A me piace ricordarlo nel suo ultimo grande gesto: mentre accende la fiaccola ai giochi olimpici del centenario, nel 1996, ad Atlanta.
STEFANO CERVARELLI

Ricordo da bambina alcune nottate per vedere gli incontri di boxe, sport che non ho mai amato, ma mio padre si alzava per vedere Benvenuti, Cassius Clay e io, già all’epoca insonne, mi alzavo, in fondo era un diversivo…Mi piaceva Clay, la sua bellezza, la sua danza mentre combatteva,la sua eleganza.
E non nascondo la mia grande commozione quando ad Atlanta, tremando per la malattia, accese la fiaccola più ferma e indomita di sempre.
E grazie di aver ricordato Saraudi, amico di famiglia di mia madre.
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