DEHORS
di MASSIMILIANO ERCOLANI ♦
C’è un insanabile equivoco tra gli urbanisti che hanno fatto i Piani Regolatori e la normativa italiana, in particolare dall’art 2 del Decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 che così definisce le zone territoriali omogenee e nello specifico le zone A:
“art. 2. Zone territoriali omogenee
Sono considerate zone territoriali omogenee, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765:
- A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi;…”
Vorrei evidenziare che l’articolo su citato esprime in modo chiaro le caratteristiche che deve avere la porzione di territorio dall’articolo stesso definita, ma così non sembra. Nelle interpretazioni della maggior parte dei piani regolatori viene definita Zona A ogni parte centrale delle città italiane, lo stesso vale per Civitavecchia.
Facciamo un passo indietro, 14 maggio1943, la nostra città viene rasa quasi completamente al suolo dal bombardamento delle forze alleate, quella che sino a quel momento era una “magnifica e deliziosa città di fine ottocento“ non esiste più, la Civitavecchia di allora è sparita.
Possiamo far finta di non vedere come è ridotta, possiamo per nostalgia velare gli occhi di ricordo, ma la realtà odierna è ben diversa. La nostra città è stata ri-costruita si, ma ri-costruita male.
Non ha carattere storico (non nel senso dell’art. 2 del Decreto succitato) e non ne ha di certo artistico, se non nella fortezza portuale ed alcuni (pochi purtroppo) altri isolati edifici, non mi sembra inoltre vi sia particolare pregio ambientale di insieme, allora mi chiedo: perché il vecchio centro è stato definito storico?
Badate bene, non scrivo questo per infangare la nostra città, piuttosto perché sono convinto che sia ora di prendere atto dello stato di fatto e aprendo gli occhi tentare di intraprendere la giusta strada, per portare la città ai fasti di prima del bombardamento.
Creando i presupposti di una città nuova, senza nessun timore reverenziale del passato che (purtroppo) non esiste più, creare una nuova visione della città, adatta agli anni che viviamo e tutto ciò in segno di rispetto per chi questa città l’ha fondata e costruita pietra su pietra dal nulla.
Ora è compito nostro, e non possiamo adagiarci sul passato, non abbiamo le mura in pietra di Tarquinia o Tuscania, ma non siamo certo da meno.
Purché non continuiamo a prenderci in giro da soli.
Il problema dei dehors che ormai da anni cruccia la nostra città (non solo da quest’ultima amministrazione) è figlio di questa visione miope e distorta del regolamento. Vi invito a fare una giro nella nostra città e dare una occhiata alle attività commerciali che risiedono nel cosiddetto centro “storico”, tali attività sono costrette, per mettere 2 ombrelloni e 4 sedie sul fronte di questi locali, a fare dei passaggi amministrativi (paesaggistica ecc.) che hanno dell’inverosimile, sono richiesti fotomontaggi per l’inserimento nel “paesaggio”, e c’è addirittura qualcuno che decide se tale intervento (ombrelloni) sia plausibile o meno.
Considerato il contesto in cui dovrebbero venire posizionati tali ombrelloni, ovvero un centro ormai degradato ed abbandonato a se stesso, questo tipo di attenzione per i famosi dehors è risibile.
Sembra vi sia un regolamento in corso di definizione che stabilisce i colori e le tipologie ammesse, non solo degli ombrelloni, ma anche delle sedute e dei tavoli, delle fioriere e degli arredi urbani.
Son convinto che spetti al Comune dare prescrizioni dimensionali, ovvero lo spazio che il dehors debba occupare, il suo posizionamento rispetto alla strada, rispetto al marciapiede ecc, ed anche l’altezza per non disturbare i piani che sovrastano il dehors, ma sono altrettanto sicuro che sia necessario lasciare che il professionista incaricato ed il proprietario dell’attività commerciale si prendano le loro responsabilità di fronte ai cittadini, facciano il loro progetto, che si attenga alle dimensioni definite dall’amministrazione e se il risultato è un abominio, saranno i cittadini a non andare in quella attività.
In conclusione, nessuno ha il diritto di forzare decisioni personali sull’estetica dell’attività altrui, noi professionisti siamo pagati per consigliare e condurre il committente ad un risultato che sia economicamente sostenibile e di gradimento soprattutto per il cliente, tenendo presente però che non sarà l’unico giudice del nostro lavoro, ma i cittadini tutti.
Infine, non capisco perché un burocrate debba dare limiti e definire i confini della nostra creatività.
MASSIMILIANO ERCOLANI
Non conosco la normativa in merito ma, vedendo come vanno le cose, mi chiedo se mal fatta sia la norma o malfatti coloro che la debbono applicare. Andando in giro all’estero, mi domando anche perchè mai da noi ci si debba preoccupare per veri e propri prolungamenti fissi di ristoranti e bar sul suolo publico, ancorchè ben fatti ed in armonia con l’ambiente circostante, mentre altrove, con climi certamente peggiori, non v’è traccia di questo tipo di strutture. Vorrei trovare un senso a tutto ciò.
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In effetti anche io credo che non servano prolungamenti su strada con strutture chiuse e fisse che in molte città del nord sia in Italia che in Europa non sono presenti. Diciamo le cose come stanno: molti gestori hanno locali microscopici che a stento arrivano a 30 mq e poi pretendono di ingrandirsi con i Dehors. Vedi Piazza Leandra che comunque senza quelle strutture fisse ne ha molto guadagnato. Ora l’analisi di Massimiliano sullo scarsissimo valore storico della cittá è corretto, come corretto è lasciare agli uffici competenti solo prescrizioni dimensionali perchè comunque la varietà di luoghi e preesistenze non puó essere ridotta a pochi modelli prestabiliti; ció non toglie che io personalmente ritengo che tranne pochissimi casi in città (piazza Fratti piazza Leandra ) il resto non merita particolari restrizioni nell’uso dei dehors se questo puó diventare volano economico per le attività, fermo restando come detto all’inizio che ne abbiamo fatto un problema a Civitavvecchia.
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Ho avuto molti incontri con i colleghi liberi professionisti per confrontarci sull’interpretazione di norme e regolamenti quando ero io a rappresentare l’ente pubblico. Ho poi confrontato le mie idee con i professionisti iscritti al Master “UrbAn” in Facoltà e con i colleghi degli altri comuni del Prusst. Oggi sento la necessità di un confronto sui temi che spesso dibattiamo, fatto in modo diretto, non digitando parole su tasti. Non essendo più “quello che ero” (si legge spesso in certi luoghi: “quel che voi siete fummo, quel che noi siamo sarete” ma non è il caso attuale). Se nessuno ci chiama, come ho già detto, parliamone tra noi.
Quanto alla zona A di cui parla Massimiliano, devo dire che io (perché sono stato io) ho classificato così le aree che corrispondevano al nucleo urbano storico, ossia a quelle interessate dall’insediamento urbano di antica origine, ma il piano particolareggiato che ho fatto nel ’90 (e che ottenne la targa del Premio Gubbio in quell’anno) distingueva poi tra immobili storici conservati e immobili privi di qualità architettonica, anzi squalificati e in deroga al piano di ricostruzione. Ma chi ha detto che accanto ad una costruzione d’epoca non possano esserci elementi modernissimi, purché di adeguata qualità? (alta, ma poi salta fuori il problema di come valutarla: tutti i progettisti si ritengono bravissimi). Il problema dei “dehors” (parola francese che si legge più o meno “deòr” e vuol dire “di fuori”, lo dico perché ne sento molte interpretazioni verbali), che ho introdotto io riprendendola dalle norme del comune di Torino (che mi erano sembrate le migliori tra le tante consultate) è principalmente quello – certo, non il solo -dell’ingombro degli spazi pubblici pedonali e carrabili. Negli anni in cui mi occupavo del problema avevo raccolto una quantità notevolissima di esempi e spunti, foto e documenti, tra Francia, Svizzera, Austria, Germania e dintorni (faccio un nome per tutti: Sallanches), di cui avevo riempito l’ufficio. Ma la buono volontà e la passione non bastano.
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