SOCIETÁ: LE PAROLE PER DIRLA (PARTE 8)

di NICOLA PORRO ♦

PARTE 8. IDEOLOGIA, CARISMA, PROTESTA 

Psicologia delle folle e totalitarismi

 Nell’analizzare il fenomeno multiforme del potere la sociologia si vale dei contributi di altre discipline e persino dell’arte e della letteratura. Quest’ultima ha raccontato straordinarie storie di potere: si pensi, per fare qualche esempio, ai tragici greci o al Macbeth di Shakespeare, oppure ai poemi virgiliani e via via sino agli autori contemporanei. Il cinema ha fornito dozzine di rappresentazioni suggestive e persino serie televisive di grande successo, come House of Cards, un’autentica saga del potere raccontata con il linguaggio dei serial televisivi contemporanei  La paura o i sentimenti di fuga e ribellione suscitati dall’impatto con il potere descrivono una condizione esistenziale che attraversa tutte le stagioni della modernità e della postmodernità, costruendo una trama culturale intessuta di fascinazione, conflitto, repulsione. Per la sociologia della letteratura le fantasie di scrittori che vanno da Cervantes a Celan, le testimonianze di pensatori (da Vico a Benjamin), la ricerca di artisti come Manet, Fontana e Pollock, ricostruite in un lavoro dedicato da Vincenzo Vitiello all’”immagine infranta” (2014), costituiscono a pieno titolo un prezioso materiale di ricerca.

Howard Gardner (n. 1943), uno psicologo di scuola cognitivista, ha invece esplorato con la sua ricerca Personalità egemoni (1996), i tratti soggettivi che contraddistinguono le leadership carismatiche e che concorrono alle loro narrazioni. Fra queste figure compaiono politici quali Margaret Thatcher e Martin Luther King, leader spirituali come Papa Giovanni XXIII e Gandhi, e scienziati, fra i quali l’antropologa Margaret Mead e il fisico Robert Oppenheimer. La ricerca confermò da un lato la natura carismatica dell’attitudine alla leadership, ma dall’altro mise in luce la versatilità delle strategie di leadership, il cui successo è strettamente legato alla capacità di interpretare e anticipare la direzione del mutamento sociale. In tale prospettiva la leadership politica non presenta profili significativamente difformi dalle altre.

Diversamente da Gardner, lo storico Emilio Gentile, nel suo lavoro Il capo e la folla, (2016), osserva il potere in quanto suscitatore di passione e di mobilitazione delle folle. Da Napoleone Bonaparte a Napoleone III, passando per i maggiori leader politici del Novecento, l’autore scorge la tendenza a trasformare quello che Lincoln aveva chiamato nel 1863 il ‘governo del popolo, dal popolo, per il popolo’ nella direzione di una democrazia recitativa. In essa la politica sembra ridursi progressivamente a tecnica del potere, esercitata da un capo dotato di qualità seduttive. L’analisi di Gentile, però, oltre che all’idealtipo weberiano della leadership carismatica, rinvia alla psicologia delle folle che il francese Gustave Le Bon (1841-1931) aveva fatto oggetto di un importante lavoro pubblicato nel 1895. Per Le Bon l’attitudine a impressionare l’immaginazione delle folle costituisce il requisito indispensabile a dominarle e dirigerle. La folla gli appariva come un agglomerato indistinto, in cui però può prendere forma un’anima collettiva che il capo intercetta e mobilita. Potenza distruttrice e manipolabile emotivamente da leader demagoghi, priva di visione e refrattaria alle discipline organizzative, la folla è però attraversata da sentimenti, vibrazioni e pulsioni all’azione del tutto diversi da quelli che gli individui svilupperebbero in solitudine. Sono infatti gli elementi inconsci che, esaltando la fusione con il capo, possono sfociare ai suoi comandi nella violenza e nell’intolleranza. Un inconscio collettivo eccitato dal risentimento si dà come bersaglio i leader avversari e le “minoranze creative”, come gli intellettuali, che si oppongono ai deliri paranoici della folla mobilitata. È sempre nella sfera di un rapporto di subordinazione al capo che prendono forma potenziali capri espiatori collettivi, come nel caso esemplare dell’antisemitismo nell’ideologia nazista.

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Una democrazia recitativa

 Gentile, osservando i passaggi cruciali della storia contemporanea, preferisce ricorrere alla formula della democrazia recitativa, fondata sulla capacità del leader di attivare emozioni attraverso una narrazione personalizzata della politica che sappia rivolgersi a masse indifferenziate. A differenza del “capo” descritto da Le Bon e naturalmente associato soprattutto alle leadership totalitarie, si tratta di una fenomenologia che interessa anche leadership visionarie di orientamento democratico, come nel caso del presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, eletto nel 1960 e assassinato tre anni dopo. Per Gentile il passaggio storico cruciale è nella rivoluzione americana e in quella francese alla fine del Settecento. È allora che per la prima volta l’azione politica configura movimenti organizzati, ispirati alla trasformazione consapevole tanto dell’ordine sociale quanto di quello politico (lo Stato) e guidati da leader legittimati dal sostegno di masse che li identificano come depositari di una missione. Filosofia della cittadinanza e legittimazione del potere cominciano a saldarsi producendo un’inedita tipologia di leadership. Il primo leader recitativo può essere individuato in Napoleone Bonaparte. L’appello diretto al “popolo-Nazione”, il governo personale, l’avocazione al capo del diritto di revoca dei governanti e il ricorso sistematico alla propaganda ne fanno per Gentile il primo leader “moderno”. Il XIX secolo vedrà però anche il fiorire di teorie rivoluzionarie di contestazione del potere o di progetti eversivi ispirati a una critica radicale dell’ordine sociale e delle istituzioni. Le nascenti società di massa, partorite dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dall’impulso alla modernizzazione e dai conflitti legati alla formazione degli Stati nazione, dovranno regolare il rapporto con il potere in funzione di un nuovo patto sociale. Basato questa volta su quella forma di legittimazione legal-razionale descritta da Weber attraverso la figura del leader politico elettivo. Questo processo di democratizzazione e istituzionalizzazione non ha però impedito né insorgenze demagogico-carismatiche, accostabili al modello di Le Bon, né la degenerazione oligarchica dei partiti denunciata già nei primi decenni del Novecento dagli elitisti. I grandi totalitarismi fra le due guerre saranno il prodotto di acute crisi sociali ma anche di una democratizzazione incompiuta che avrebbe spianato la strada verso il potere a leader investitisi della missione di dare vita a un nuovo ordine (palingenesi) destinato a degenerare in atroci tirannie.

Solo due grandi leader anglosassoni, il presidente americano Roosevelt e il premier britannico Churchill, sapranno offrire, a parere di Gentile, un tipo alternativo e vincente di esercizio e di narrazione del potere. Il primo si impegnò a rivitalizzare le istituzioni con un ruolo interventista della presidenza, intuì e gestì efficacemente gli strumenti comunicativi del tempo (i radiofonici “discorsi del caminetto”) ma non disdegnò neppure la mobilitazione delle masse e delle loro organizzazioni. Churchill sarà invece un «democratico eccentrico», risoluto nella lotta sia al totalitarismo hitleriano sia a quello staliniano. Anche figure più recenti, come quelle di de Gaulle e Kennedy, trovano posto nel processo di trasformazione postbellica della democrazia rappresentativa. I due leader ricercheranno un equilibrio fra leader e masse che si sarebbe valso delle nuove strategie comunicative offerte dal mezzo televisivo. Nella transizione fra XX e XXI secolo le trasformazioni della cultura sociale, accompagnandosi alla crisi del partito di massa e delle forme di rappresentanza ereditate dalla politica del Novecento, all’egemonia del linguaggio della pubblicità commerciale nella propaganda politica e delle sue tecniche nel marketing del consenso, avrebbero prodotto forme inedite quanto pervasive di personalizzazione del potere.

Anche il feticismo della rete o la celebrazione di una relazione diretta fra leader e masse nell’epoca del populismo digitale non sono perciò soltanto espressione di una trasformazione delle tecniche comunicative. Prefigurano piuttosto una sorta di ideologia, intesa come sistema di idee che ispira l’azione politica, produce simboli, veicola valori e rischia di legittimare nuove forme di dominazione.

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L’ideologia e la riabilitazione dell’utopia

La funzione dell’ideologia come strumento di legittimazione del potere era già presente in un pensatore illuminista come Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836). Nella sua prima formulazione egli la descrive come una combinazione di idee miranti a rinnovare i costumi e combattere i pregiudizi. Lo stesso fondatore della sociologia, Auguste Comte (1798-1857), userà la formula chimica delle idee per descrivere il pensiero orientato a quella rigenerazione morale dell’umanità da affidare alla nuova scienza.

Più sbrigativamente Marx ed Engels, inizialmente nell’Ideologia tedesca (1846) e poi nel primo capitolo del Capitale (1867), identificano l’ideologia come la rappresentazione del mondo imposta dai detentori del potere (le classi borghesi). Essa servirebbe ad accreditare come “naturale” un ordine sociale, basato sullo sfruttamento e la concentrazione della proprietà, che costituisce invece l’esito provvisorio di processi storici reversibili e modificabili. L’ideologia sarebbe perciò una forma di falsa coscienza utile a contrastare i processi rivoluzionari che l’espansione della coscienza di classe fra i lavoratori avrebbe innescato. Come si è già accennato, Antonio Gramsci offrirà qualche decennio più tardi una declinazione più attenta alle ragioni culturali e più articolata analiticamente delle nozioni di ideologia, egemonia e sovrastruttura. Anche un politologo conservatore come Gaetano Mosca, più o meno negli stessi anni, aveva fatto ricorso all’espressione formula politica. Per Mosca essa significava “la dottrina o le credenze che danno una base morale al potere dei dirigenti“, cioè quella combinazione di elementi intellettuali ed emozionali che la classe politica (e non, come per Marx, la sola borghesia) elabora allo scopo cosciente e razionale di conquistare o preservare il potere.

Nel 1929, Karl Mannheim (1893-1947) svilupperà in Ideologia e Utopia una critica radicale dell’approccio marxista al tema dell’ideologia. A suo parere, ogni ideologia costituisce una combinazione di credenze e interessi elaborata a sostegno di gruppi o classi sociali. Anche il pensiero rivoluzionario appartiene perciò alla categoria dell’ideologia e si serve degli stessi strumenti di convincimento e manipolazione usati dalle classi dominanti. Nel classificare diverse tipologie storiche di ideologia – chiliastica (basata sull’attesa di una redenzione salvifica di tipo religioso), liberalumanitaria, conservatrice e socialistica -, Mannheim rivaluta però la straordinaria finzione sociale dell’utopia. Lungi dal rappresentare una fuga temeraria nella fantasia e nell’inconcludenza, l’utopia preserva l’obiettivo etico della giustizia e l’aspirazione all’uguaglianza che, in forme e con esiti diversi, hanno alimentato nel tempo le grandi trasformazioni politico-sociali. È proprio l’utopia, perciò, che muove la storia umana, come nello slogan del maggio francese (“la fantasia al potere!”) e come ha poeticamente ricordato lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano (1940-2015):

…l’utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare.

maggio francese

Il capitalismo maturo e l’uva acerba

 La critica di Marx all’ideologia sarà presente, ma con significative variazioni, anche in studiosi del tardo Novecento. Fra questi il filosofo francese Louis Althusser (1918-1990), che preferisce la formula apparato ideologico di Stato, o il greco Nicos Poulantzas (1936-1979). Quest’ultimo, ispirandosi alle intuizioni gramsciane sull’egemonia, si concentrerà sul ruolo dello Stato e sull’ideologia delle nuove classi piccolo-borghesi in rapporto a strategie di controllo sociale proprie del capitalismo maturo.  La stessa teoria critica, elaborata nel secondo dopoguerra dai sociologi della Scuola di Francoforte, indaga la presenza e la funzione dell’ideologia nelle relazioni quotidiane delle società tardo-moderne. Studiosi americani – come Daniel Bell (1919-2011), che coniò l’espressione società post-industriali, e Samuel Lipset (1922-2006) – si erano spinti, fra i Cinquanta e i Sessanta, a immaginare l’esaurimento delle ideologie in vista di una convergenza dei sistemi sociali dell’età industriale attorno a logiche produttivistiche e consumistiche in via di uniformazione. Il ciclo di protesta a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, il collasso dei regimi comunisti venti anni dopo e successivamente l’esplosione del radicalismo a tinta etnica o religiosa, smentiranno le tesi di Bell e Lipset, ma segnaleranno l’esigenza di una radicale e non facile ridefinizione delle ideologie contemporanee.

Alo scopo il francese Raymond Boudon (1934-2013) oppone tradizione marxista a pensiero non marxista e rintraccia due alternative tipologie di spiegazione ideologica (razionale e irrazionale). La rappresentazione dell’ideologia proposta dal giovane Marx come rovesciamento della realtà finalizzata a preservare gli interessi borghesi costituirebbe l’esempio di un approccio irrazionale. Viceversa, lo stesso Marx avrebbe suggerito in età matura una rappresentazione razionale, basata sull’adesione consapevole a credenze utili a mobilitare le coscienze tramite l’ideologi. Da intendere, secondo le parole di Lenin, come  “principale arma dell’arsenale della lotta di classe”. Anche sul versante del pensiero antimarxista troviamo però, secondo Boudon, sia visioni razionali sia irrazionali. Raymond Aron (1905-1983) ed Edward Shils (1910-1995) interpretano l’ideologia come un fenomeno irrazionale di scatenamento del fanatismo e delle passioni da ascrivere al paradigma non marxista irrazionale. Altri pensatori non marxisti, come Mannheim e l’antropologo Clifford Geertz (1926-2006), ne hanno invece offerto una declinazione del tutto razionale. Il primo descrivendola come un sistema di norme e credenze che servono ad adattare i comportamenti collettivi a processi di cambiamento. Il secondo analizzandola come una mappa che aiuta a tracciare percorsi in contesti sociali di complessità crescente.

Jon Elster (n. 1940) ha esposto nel 1983 il cosiddetto modello dell’uva acerba, ispirato alla favola di Esopo rivisitata dalla teoria psicologica denominata strain theory. Le ideologie servirebbero, in sostanza, a giustificare pulsioni dettate dall’invidia sociale, fornendo loro argomenti razionali e la possibilità di colmare in questo modo la sofferenza prodotta negli individui dalla dissonanza cognitiva. Essa consiste nella sensazione di uno scarto lacerante fra desideri e condizione di status percepita. L’azione collettiva mirante a superare la dissonanza si nutre di ideologie tese a uniformare le rappresentazioni del mondo dei singoli, a motivare la loro lotta, a rimuovere o depotenziare tutto ciò che appaia incompatibile rispetto agli obiettivi descritti dal pensiero ideologico.  Il dogmatismo e l’intolleranza presenti in molte forme di ideologia risponderebbero perciò soprattutto a logiche di matrice psichica profondamente interiorizzate e usate insieme come rito di conferma dei leader e come strumento del controllo gerarchico esercitato sugli adepti.

Bratislava

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Tempi, racconti e visioni

A partire dai primi decenni del XXI secolo sembra sia andato scemando l’interesse che le scienze sociali avevano dedicato all’ideologia nel tempo dei vecchi movimenti di massa, delle guerre mondiali e delle rivoluzione postcoloniali. Ciò non inficia tuttavia l’importanza di una corretta e non banale declinazione del concetto. Intanto perché essa rinvia a quelle Grandi Narrazioni che, secondo Jean-François Lyotard (1924-1998), contengono rappresentazioni alternative della Storia. Illuminismo, idealismo e marxismo sono i tre maggiori meta-racconti della modernità, ma tutte le narrazioni del potere producono diverse idee del tempo. Basti pensare all’idea dell’eterno ritorno, il tempo ciclico che per Mircea Eliade (1907-1986) prende le mosse da un evento originale – come la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden o la mitica età dell’oro – per spiegare le vicende presenti come tentativo sempre frustrato ma inesauribile di ripristinare un ordine felice perduto. Visione alla quale si oppone quella del tempo lineare, che immagina la Storia umana come progresso, attuato attraverso l’azione collettiva – come nel caso delle grandi rivoluzioni contemporanee – o forme autoritarie di modernizzazione dall’alto, come nell’esperienza dei leader populisti del Terzo mondo, interpreti carismatici di una presunta “missione”. Molto spesso le narrazioni epiche, come nell’esempio dell’Eneide virgiliana, assolvono una funzione esplicita di giustificazione del potere, anche ricorrendo a quella che è stata chiamata invenzione della tradizione. Analogamente le utopie millenaristiche di ispirazione fondamentalistica si assolvono dalla responsabilità relativa a qualunque atrocità commessa in loro nome presentandosi come esecutrici di un disegno sovraordinato, orientato al compimento della missione di cui il leader sarebbe interprete e depositario esclusivo .

Le scienze sociali hanno anche analizzato manifestazioni atipiche, ma ricorrenti in contesti storici molto diversi fra loro, di azione collettiva e di produzione ideologica. Esse assolvono sempre, sebbene nelle forme più disparate, funzioni legate alle logiche, ai pregiudizi, alle paure e agli interessi dei cosiddetti gruppi di riferimento. Mannheim ha spiegato così la rabbiosa resistenza opposta nell’Ottocento all’industrializzazione della Germania dai latifondisti delle regioni orientali (lo Junkertum), mentre Georg Simmel (1858-1918) ha interpretato l’opposizione dei piccoli commercianti di fine XIX secolo alla moderna economia di mercato come il residuo di una visione del mondo (ideologica) sostanzialistica. Incapace, ad esempio, di concepire in astratto i volumi di affari monetari senza il contatto materiale con il denaro. La stessa diffidenza verso le carte di credito o le transazioni commerciali via Internet, ancora presente in persone anziane o a basso livello di istruzione, costituirebbe la sopravvivenza postmoderna di un modello culturale, premoderno e antimoderno, di questo tipo.

Durkheim ha indagato come un surrogato delle moderne ideologie occidentali e del culto della scienza il ruolo assegnato alla magia nelle comunità primitive.  Di nitida impronta ideologica è anche il fenomeno del culto di Mitra presso le gerarchie militari e amministrative dell’Impero romano o il successo della massoneria negli ambienti dell’imprenditoria e dell’alta burocrazia della modernità osservati da Weber. In entrambi i casi si tratta di organizzazioni ispirate a principi etico-umanitari, non orientate al proselitismo indiscriminato e dedite a costruire stretti legami di solidarietà fra i membri. Legami di solidarietà a raggio ristretto, spesso non manifesti, utili a favorire e preservare interessi di gruppo o di corporazione. Vilfredo Pareto ha integrato queste analisi fornendo, agli inizi del Novecento, una lettura sociologica di quelli che ha chiamato i “sofismi miranti al convincimento” propri della propaganda politica. Essi manifestano azioni non logiche o residui di convincimenti non razionali che possono sia stimolare al cambiamento (istinto delle combinazioni) sia rinforzare lo statu quo (persistenza degli aggregati).

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Conformismo, populismi e rivolta

Occorre avere dunque ben chiaro che le ideologie sono manifestazione di culture umane intessute di storie, leggende e miti. Li ritroviamo puntualmente sia nelle narrazioni religiose, come nel racconto della creazione proposto dalle fedi monoteistiche, sia nei miti politici di fondazione – esemplare il caso delle origini di Roma – che Lynette Spillman (n. 1960) ha ricostruito in una ricerca del 1997 sulla formazione delle identità negli Stati nazione, ma anche nelle saghe familiari o nelle narrazioni d’impresa. Per decifrare i contenuti ideologici potremmo anche ricostruire utilmente i copioni taciti (script)  che per il sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982) guidano i comportamenti e orientano l’azione. Importante allo scopo è l’analisi dei riti di passaggio che rielaborano e teatralizzano memorie e contenuti collettivi inconsci, come ha mostrato l’antropologo francese Arnold van Gennep (1873-1957).

Implicitamente ideologica è d’altronde qualunque produzione culturale, compresa quella che si esprime in forma popolare e consuetudinaria attraverso proverbi, massime, slogan, musiche, inni e canzoni.

Ogni cultura possiede perciò una visione del mondo che le offre strumenti per comprendere ed elaborare esperienze. Essa include l’idea di un futuro desiderato e un corredo narrativo  che rinviano a

valori, intesi come standard collettivi di tipo dicotomico (buono/cattivo, giusto/sbagliato, desiderabile/non desiderabile ecc.);

credenze, cioè assunzioni ritenute vere;

visioni che disegnano aspettative e prescrizioni;

immagini, intese come raffigurazioni mentali usate metaforicamente.

Il periodico riaffiorare di sentimenti di ribellione al potere, percepito dai contestatori come intrinsecamente malvagio e irredimibile, scandisce tutti i passaggi critici della modernità politica europea. Persino nelle insorgenze di massa del primo Novecento, risulta in qualche caso arduo tracciare una netta linea di demarcazione fra un’animosità contro le élite genericamente ispirata al modello della psicologia “rancorosa” della folla descritto da Le Bon e l’azione politica consapevole e politicamente diretta che si sarebbe identificata nel paradigma della democrazia partecipata. Si tratta di movimenti e di eventi spesso convulsi, oggetto di interpretazioni contraddittorie e segnati da effetti inintenzionali. Tutti interpretavano però processi ispirati a forme più o meno sofisticate di ideologia che andavano definendo lo spazio politico della tarda modernità, prodotto dall’industrializzazione, dalla formazione degli Stati nazione e dalle “fratture culturali e sociali” individuate da Rokkan. La seconda decade del Duemila, a un secolo di distanza, è anch’essa attraversata da tensioni e insorgenze, spesso accomunate sotto l’etichetta generica del populismo. Esse pure esprimono in realtà un disincanto nei confronti della globalizzazione e un’inquietudine verso trasformazioni che interessano la vita di tutti ma che sembrano ispirate e condizionate dagli interessi di pochi. In questa chiave di lettura pare prodursi un rovesciamento del modello del primo Novecento. Allora era la scienza politica elitistica a rivendicare il ruolo di una leadership capace di interpretare gli interessi generali contro le pulsioni irrazionali e distruttrici delle masse. Oggi prende invece corpo una demonizzazione della casta politica e delle invisibili élite priva di visioni unificanti e di strategie condivise. La battaglia sembra sempre più spostarsi nei territori sconfinati della comunicazione telematica, dove convivono le misteriose trame delle élite del potere postmoderno e la rabbia demolitrice dei giustizieri del web.

NICOLA PORRO