Porro contro Porro: omonimi di diversa opinione in materia di eguaglianza e varia umanità 

di NICOLA PORRO ♦

 

Se su Facebook sono costretto a identificarmi come Nicola Rinaldo Porro è colpa sua: del mio omonimo giornalista, scrittore, conduttore televisivo e cultore di economia. Intendiamoci, nessuna preconcetta ostilità, non essendo neppure escluso che esista una remota parentela fra noi. Solo che di lui non condivido proprio nulla tranne il fatto di chiamarci entrambi Nicola Porro. Così, per distinguermi ed evitare equivoci, qualche anno fa sono stato costretto a resuscitare a uso e consumo dei social il mio secondo nome di battesimo. La cosa non mi dispiace: il nome Rinaldo possiede una sua sonorità cinquecentesca e soprattutto mi ricorda un nonno cui ero molto affezionato. Non vi annoierò con gli effetti collaterali di questa omonimia e su qualche situazione imbarazzante cui ha dato origine, almeno sino a quando – in età berlusconiana – la popolarità televisiva dell’omonimo non ha definitivamente eclissato la mia, già declinante di suo.

L’ultimo lavoro che l’omonimo ha pubblicato per la Nave di Teseo ha un titolo che sembra pensato proprio per evidenziare la distanza che separa l’autore da un vetero-sessantottino non sufficientemente pentito come me: La disuguaglianza fa bene: Manuale di sopravvivenza per un liberista.2_porro_destra

 

 

 

Capisco che per vendere meglio un libro si giochi anche sugli effetti speciali e non me ne scandalizzo. Quella dissacrante titolazione, del resto, non fa che confermare le capacità comunicative dell’omonimo. Il dissenso è sui contenuti. Perché non credo che la diseguaglianza sia giusta. Perché non credo che faccia bene. Perché, infine, non nutro particolare apprensione per i destini politico-culturali del liberismo. Confesso anche che dei liberisti nostrani mi infastidisce il vezzo di proporsi come gli interpreti di un’eroica alternativa al non meglio precisato “pensiero unico” che impererebbe nel ceto intellettuale e accademico italiano. Non capisco proprio, ad esempio, a quale apocalisse dovrebbero sopravvivere i nostri liberisti in servizio permanente effettivo. Questo genere di vittimismo – qui l’omonimo non c’entra – non è innocuo come sembra. Sono decenni che gli opinionisti della destra alimentano l’idea di una “persecuzione” morale e professionale subita – soprattutto nelle Università – dai martiri del liberismo, accerchiati da una canea di trinariciuti colleghi avidi di cattedre e prebende. Un martirio un po’ speciale che non sembra aver compromesso le carriere, talvolta folgoranti, di tante vittime. Scorrendo il martirologio ci si imbatte in rettori, in presidenti di prestigiose fondazioni, nonché in direttori di grandi quotidiani, ex ministri, amministratori delegati di importanti società e personalità del mondo economico, politico, editoriale e imprenditoriale. Tutti miracolosamente sopravvissuti a decenni di persecuzione antiliberista. Tutti inclini a dipingersi come novelli Solgenitsin, sebbene più adusi a frequentare Davos e Porto Cervo che i gulag siberiani. Chiagne e fotte, dicono a Napoli.

Malignità a parte, non è certo qui in discussione l’influenza che la dottrina liberista, nelle sue implicazioni anche politiche, ha esercitato tanto in ambito scientifico quanto in settori significativi dell’opinione pubblica. Il problema vero è che quella teoria ha fallito, che è stata oggetto di spericolate contaminazioni parte di governi liberticidi e che non riesce a fornire risposte adeguate alle sfide del presente. Alla crisi del Welfare oppone l’dea della pura e semplice soppressione dello Stato sociale. Al rischio che la globalizzazione degeneri nella tragedia di una guerra planetaria, senza nazioni e senza confini ma segnata dai muri e da insorgenze xenofobe e populistiche, la ricetta liberista consiste ancora, come un secolo fa, nell’appello alle virtù taumaturgiche del mercato. La teologia del mercato costituisce del resto un caposaldo dell’intera teoria. L’altro è rappresentato proprio dalla contestazione ideologica al principio di eguaglianza. Spesso confusa, peraltro, con le sue fortunatamente defunte forme degenerative come il collettivismo e il raccapricciante egualitarismo di Stato imposto dalle dittature comuniste del Novecento. Le quali, sia detto per inciso, avevano ben poco di egalitario, basandosi sull’egemonia di una ristretta e onnipotente burocrazia di partito.

In qualche pensatore liberista ci si imbatte ancora, d’altronde, in argomenti che erano appartenuti all’antico pensiero reazionario, nel senso letterale di “reazione” alla filosofia politica della Rivoluzione francese incarnata dalla triade liberté, egalité, fraternité. La contestazione si concentra prevedibilmente, oggi come allora, sull’egalité, l’eguaglianza. Del resto, avete mai sentito qualcuno pronunciarsi contro la libertà? Basta aggiungerle un aggettivo o una specifica per farne quello che si preferisce: libertà dal bisogno o libertà d’impresa, libertà dei moderni o libertà di “essere padrone a casa mia” fino a costruire luccicanti case della libertà, immaginare popoli della libertà e magari futuribili continenti della libertà. Per non parlare di quel commovente quanto innocuo richiamo alla fraternità, opportunamente convertito, nelle società dei figli unici, in un meno impegnativo appello alla “solidarietà”.

A fare la differenza, a far alzare gli steccati, oggi come ieri, rimane la maledetta egalité. È la pietra dello scandalo che ci costringe a prendere posizione e non ci consente furbesche vie di fuga. Occorre schierarsi: a favore dell’eguaglianza come coronamento della civilizzazione, come possibile “destino desiderato” dell’umanità e come traguardo forse irraggiungibile, certo mai pienamente raggiunto, ma cui tendere sempre e sempre capace di ispirare comportamenti altruistici. Oppure combatterla a viso aperto in nome di un’idea alternativa della condizione umana, esaltata dalla competizione, sostenitrice di modelli sociali inevitabilmente gerarchici e non inquinata da pietismi solidaristici. È la questione dell’eguaglianza (o, se si preferisce, dell’origine della diseguaglianza) che, senza scomodare Rousseau e i suoi critici, ancora traccia lo spartiacque fra destra e sinistra, qualunque valenza assumano oggi queste parole.

Ovviamente nemmeno il liberismo va confuso con l’uso perverso che delle sue idee hanno fatto efferati dittatori, pronti a levare spade insanguinate in difesa della loro personalissima idea di libertà e di un’idea di equità e benessere di cui hanno dato ampia prova il Cile di Pinochet e l’Argentina di Videla. L’istanza antiegalitaria costituisce però una costante per tutte le figure più illustri del Pantheon liberista. Basti ricordare il vecchio Pareto, la scuola austriaca di Mises e Hayek – che dipingeva lo Stato come “l’incubo della modernità” –, gli studiosi di Chicago che trovarono nel monetarismo di Milton Friedman la loro Bibbia. E poi, più di recente, i nostri Ricossa e Martino, sino a quel brillante e inquietante polemista che è il francese Houellebecq.

L’omonimo ci propone perciò la solita minestra riscaldata. Lo fa peraltro con stile accattivante e con qualche variazione sul tema condivisibile anche da qualcuno dei suoi critici. Come quando segnala, ad esempio, gli effetti perversi di un certo fondamentalismo ambientalistico. O come quando, in assonanza con un suo lavoro di qualche anno fa, denuncia la dissipazione delle risorse pubbliche prodotta da un sistema normativo inquinato dal burocratismo.

Il totem da abbattere è però ancora lo Stato cattivo, vestito dei panni del poliziotto fiscale e votato a contrastare il meritato trionfo della competizione e del merito. La sua funzione redistributiva, o meglio la sua potenziale efficacia nell’introdurre un po’ di equità nelle relazioni sociali, non sembra meritare adeguata attenzione. Le ricette sono altre. Perché non provare con la miracolosa flat tax, che unificando al ribasso l’imposizione fiscale consentirà finalmente a ogni lavavetri di far studiare ad Harvard i propri figli e a ogni infermiera di investire i propri risparmi secondo i consigli della Goldman Sachs?

E poco importa che il Premio Nobel per l’Economia Jospeh Stiglitz, non certo un sovversivo, abbia affermato (Corriere della Sera del 12 ottobre 2016): «Le diseguaglianze che sono sotto gli occhi di tutti sono paradossalmente frutto di un’economia di mercato le cui regole del gioco sono state prima scelte e poi alterate in un clima di democrazia, minando la fiducia delle popolazioni verso i loro governi e la solidarietà sociale. Così ha creato individui che sono diventati essi stessi più egoisti… Con la diminuzione delle tasse, la deregulation e, successivamente, la globalizzazione, si pensava di apportare benefici generali, mentre a rimpinzarsi è stato il solito 1%». La solidarietà e la giustizia sociale, concludeva il professore della Columbia University, si sono rivelate i soli strumenti per garantire il benessere di tutti e non solo la stentata sopravvivenza dei più deboli.

Sostiene invece l’omonimo che la diseguaglianza non sia affatto cresciuta e che «lo sviluppo economico negli ultimi trent’anni ha prodotto più benessere di quanto ne sia stato creato negli ultimi cinque secoli». Peccato che i dati raccontino anche qui una storia ben diversa. Due secoli fa il Nord del mondo era tre volte più ricco del Sud; nel 2006 lo era di novanta volte. Nel 2014 lo Stato con il più elevato reddito pro capite, il Qatar, era 428 volte più ricco del più povero: lo Zimbabwe. Un bambino nigeriano ha oggi un’aspettativa di vita alla nascita che è meno della metà di un coetaneo europeo, australiano o giapponese. L’osservatorio internazionale Oxfam ha documentato come nel 2016 l’1% della popolazione mondiale possedesse il 99% delle risorse disponibili nel pianeta.

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Mi domando con che coraggio si possa invocare ancora minore eguaglianza e come sia possibile negare il fallimento delle ricette patrocinate dagli economisti di parte liberista dovunque siano state applicate.

L’omonimo non si fa intimorire da queste quisquilie e aggiunge la propria “voce fuori dal coro” a quelle di molti economisti e di qualche filosofo, come l’americano Frankfurt, che si sono votati a sfatare i presunti luoghi comuni sulla globalizzazione, la concentrazione della ricchezza e i mendaci benefici dello Stato sociali. Sono gli argomenti cari ai profeti della new age liberista, che comprendere suo menu la riabilitazione postuma delle politiche economiche di Reagan e della Thatcher. Argomenti anch’essi già ampiamente smentiti dai fatti. L’agenzia europea Eurostat (2012) ha dimostrato rigorosamente come gli Stati europei dove minori erano le differenze di reddito fra i molto ricchi e i molto poveri siano risultati i più capaci di reagire alla crisi dell’economia. Solo in essi sono cresciuti nell’ultimo tormentato decennio sia il Pil sia l’occupazione. Per dirla con un’espressione alla moda, l’eguaglianza è resiliente. Il liberismo ha invece molto da farsi perdonare. La catastrofe di Wall Street del 2008, di cui ancora oggi economie fragili come la nostra pagano il prezzo, è figlia della filosofia finanziaria predicata da decenni da quella scuola di pensiero. E prodotto di intollerabili condizioni di diseguaglianza è la stessa crisi migratoria che minaccia i complessi equilibri sociali del mondo globalizzato.

Non a caso, del resto, il G20 tenuto ai primi di settembre in Cina si è concluso con un appello solenne a ridurre le diseguaglianze per prevenire il collasso dell’economia globale. Appello retorico, probabilmente destinato come al solito a rimanere lettera morta. Ma che riflette almeno la consapevolezza, da parte di leader dei più diversi orientamenti politici, che non si uscirà dalla crisi globale se non promuovendo più eguaglianza. È quello che ci chiede, del resto, la nostra stessa Costituzione quando, nel secondo comma dell’articolo 3, impegna le istituzioni repubblicane a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al perseguimento dell’eguaglianza.

Non si tratta allora di negare legittimità alla competizione, al merito e persino a un pizzico di invidia sociale. La vera questione riguarda le pari condizioni di partenza in cui la competizione sociale dovrebbe svilupparsi.

Come ha scritto Michele Ainis su Repubblica del 29 settembre 2016 «…l’eguaglianza più desiderabile [è] quella nei punti di partenza. L’eguale libertà di diventare diseguali, però partendo eguali. Un liberista non sarà d’accordo. Un liberale, sì».

Meglio non si poteva dire.

NICOLA PORRO