Exor, GEDI e l’Italia che dismette.

di PAOLO POLETTI ♦

La possibile vendita del gruppo editoriale non è solo un’operazione finanziaria: è il segnale di una trasformazione più ampia, che interroga il modello di sviluppo italiano, il ruolo dell’informazione come infrastruttura democratica e la capacità del Paese di trattenere investimenti di lungo periodo.

 La possibile vendita di GEDI da parte di Exor non può essere letta come una semplice operazione di mercato, né come una scelta contingente dettata dalle difficoltà del settore editoriale. È, piuttosto, un segnale coerente di una trasformazione più ampia, che riguarda la natura stessa dei grandi gruppi industriali italiani e il loro rapporto con il Paese.

Le indiscrezioni sulla possibile dismissione di GEDI hanno iniziato a prendere consistenza già nei mesi estivi. Il 4 luglio 2025 Reuters ha rivelato che Exor aveva ricevuto nel tempo diverse “espressioni di interesse” per il gruppo editoriale, citando tra i potenziali acquirenti sia la greca Antenna Group sia la francese Vivendi. Nella stessa ricostruzione venivano richiamati i dati economici di GEDI – circa 224 milioni di euro di ricavi e una perdita nell’ordine dei 15 milioni – insieme a un elemento rivelatore: il peso del gruppo editoriale sul valore complessivo di Exor sarebbe pari a circa lo 0,3% del Net Asset Value, un dato che rende plasticamente evidente la marginalità strategica dell’asset nel portafoglio della holding.

La vicenda ha assunto contorni più definiti all’inizio di dicembre, quando Bloomberg ha riferito di colloqui in corso tra GEDI e Antenna Group sulla vendita degli asset editoriali. Da quel momento il dossier è rapidamente entrato nel radar politico e sindacale.

L’11 dicembre Reuters ha dato conto delle preoccupazioni espresse dal governo Meloni e delle proteste nelle redazioni, culminate nello sciopero che ha impedito l’uscita de la Stampa. Nello stesso giorno il Financial Times ha acceso i riflettori sui timori di opacità dell’operazione, richiamando il drastico ridimensionamento dei ricavi di GEDI nel lungo periodo e ipotizzando una possibile chiusura della trattativa all’inizio del 2026. Sempre l’11 dicembre, Il Post ha raccontato il clima interno alle redazioni, parlando di una finestra temporale ravvicinata per la dismissione e di una mobilitazione dei giornalisti preoccupati per il futuro editoriale e occupazionale del gruppo.

Il giorno successivo Reuters ha riportato l’intervento dell’Autorità di governo per l’editoria, con il sottosegretario Alberto Barachini che ha chiesto massima trasparenza, garanzie sull’indipendenza editoriale e sui livelli occupazionali, nonché attenzione alla presenza di eventuali partecipazioni extra-UE, richiamando esplicitamente il possibile ricorso agli strumenti di golden power. Nelle stesse ore Euronews ha evocato l’ipotesi di una vendita “a pezzi”, sottolineando la centralità de la Repubblica come asset più rilevante del gruppo.

A completare il quadro, nel corso di dicembre, si sono moltiplicate le reazioni politiche e sindacali, raccontate da diverse testate nazionali, spesso caricate di un significato che va oltre la singola operazione: la scelta di Exor è stata letta come un passaggio simbolico, capace di interrogare il rapporto tra grandi gruppi, informazione e interesse nazionale.

Alla data odierna, 15 dicembre 2025, non si è dunque più nel campo delle voci: esistono conferme di colloqui in corso e un intervento formale del Governo che chiede garanzie e trasparenza su un’operazione che tocca uno dei nodi sensibili dell’ecosistema democratico italiano.

È un dato di fatto che negli ultimi anni Exor abbia progressivamente ridefinito il proprio profilo: da conglomerato industriale e culturale fortemente radicato in Italia a holding finanziaria globale, orientata alla valorizzazione di asset scalabili, liquidi e internazionalizzabili. La cessione di FCA, la separazione tra produzione industriale e marchio, la centralità crescente di Ferrari come icona globale più che come industria nazionale, raccontano una traiettoria precisa. In questo quadro, l’editoria – e dunque GEDI – non è più percepita come infrastruttura strategica, ma come componente di portafoglio, valutata secondo criteri di rendimento, rischio e opportunità di riallocazione del capitale.

Non si tratta di una fuga né di un disimpegno improvviso. È una scelta razionale dal punto di vista finanziario, ma proprio per questo significativa sul piano sistemico. Perché indica che l’Italia è sempre meno vista come spazio di investimento di lungo periodo e sempre più come contesto da cui estrarre valore prima di ridistribuirlo altrove.

La questione diventa ancora più rilevante se si considera la natura di GEDI. Non siamo di fronte a un’azienda qualsiasi, ma a un gruppo editoriale che controlla testate come la Repubblica e la Stampa, protagoniste per decenni della vita pubblica italiana. Quotidiani che non hanno soltanto raccontato la realtà, ma hanno contribuito a costruirla, orientando il dibattito, selezionando i temi, formando il linguaggio della politica e della società.

In un’epoca segnata da disinformazione strutturale, polarizzazione emotiva e competizione informativa internazionale, la grande stampa generalista continua a svolgere una funzione che va ben oltre il mercato. Anche quando perde copie e fatica a trovare modelli di sostenibilità, resta un presidio di qualità cognitiva, un luogo di mediazione tra fatti e opinioni, un argine – fragile ma indispensabile – alla semplificazione estrema del discorso pubblico. Trattare un simile soggetto come un asset neutro significa rimuovere la dimensione democratica dell’informazione e ridurla a mero contenuto commerciale.

Questo non implica ignorare la crisi profonda del settore. I numeri sono noti e non indulgono a nostalgie. La carta stampata è oggi fonte principale di informazione per una quota residuale della popolazione; il digitale a pagamento resta fragile, con tassi di abbonamento bassi e modelli di business ancora instabili; la pubblicità online è largamente intercettata dalle grandi piattaforme globali, che drenano valore senza produrre informazione. Il risultato è un settore che continua ad avere un ruolo sistemico elevato, ma che non dispone di una struttura economica coerente con tale funzione.

Approfondendo la questione (dati di dettaglio in Appendice), il quadro in cui si colloca la possibile vendita di GEDI è quello di una trasformazione profonda dei consumi informativi e di una crisi strutturale del modello economico dell’editoria tradizionale, che tuttavia continua a svolgere una funzione pubblica rilevante.

Secondo il Digital News Report Italia 2025, la televisione resta oggi il principale mezzo di informazione per gli italiani: circa due terzi della popolazione la utilizza settimanalmente e oltre la metà la indica come fonte primaria. Internet ha ormai superato la TV come mezzo complessivo di accesso alle notizie, ma in forma frammentata e disintermediata. Tra le fonti online considerate “principali”, i social network rappresentano circa il 17%, mentre i siti e le app dei quotidiani tradizionali si attestano intorno all’8%. La carta stampata, come fonte principale di informazione, scende a una quota residuale, intorno al 2%.

I dati dell’AGCOM confermano questa tendenza. Internet è oggi il primo mezzo informativo in Italia, mentre la televisione è in costante calo rispetto agli anni precedenti. La radio mantiene una funzione complementare, mentre i quotidiani cartacei sono letti da poco più del 17% della popolazione. Ancora più significativo è il dato sugli abbonamenti digitali: solo una minoranza degli italiani dichiara di pagare per l’informazione online, a conferma della fragilità del modello di sostenibilità economica del giornalismo.

Dal punto di vista delle abitudini di lettura, l’ISTAT rileva che circa un quarto della popolazione legge quotidiani almeno una volta a settimana. Si tratta di una quota non trascurabile in termini assoluti, ma insufficiente a sostenere economicamente il sistema editoriale, soprattutto in un contesto di forte contrazione della pubblicità tradizionale.

I dati Audipress mostrano che decine di milioni di persone entrano comunque in contatto con la stampa, in formato cartaceo o digitale, nell’arco del mese. Nel giorno medio, oltre undici milioni di italiani leggono un quotidiano (almeno un titolo). Un dato che non contraddice la marginalità della carta come fonte principale, ma ne conferma il ruolo sempre più complementare all’interno della dieta informativa.

Infine, sul piano industriale, i dati sulle tirature evidenziano come la Repubblica e la Stampa restino tra i principali quotidiani nazionali per diffusione complessiva, nonostante il calo generalizzato del settore. La loro rilevanza non è quindi solo simbolica, ma ancora concreta in termini di penetrazione e impatto sull’opinione pubblica.

Nel loro insieme, questi numeri raccontano un paradosso: l’informazione professionale continua a essere ampiamente consumata, ma sempre meno finanziata. È questo squilibrio strutturale – tra funzione democratica e sostenibilità economica – a costituire lo sfondo reale delle operazioni di dismissione e concentrazione che attraversano oggi il settore editoriale italiano ed europeo.

In questo senso, la vendita di GEDI non è un’anomalia, ma il riflesso di una crisi più ampia del capitalismo informativo europeo, stretto tra mercati nazionali frammentati e piattaforme globali dotate di potere finanziario, tecnologico e cognitivo incomparabile. Exor non fa che prendere atto di questa asimmetria e agire di conseguenza.

È in questo contesto che va letta l’ipotesi di una cessione ad Antenna Group. Non in termini identitari o nazionalistici, ma in termini di governance e contesto. Non è “l’estero” il problema, né tantomeno la Grecia in quanto tale. Il tema riguarda il sistema dei media del Paese di provenienza dell’acquirente, segnato da concentrazione proprietaria, opacità nei rapporti tra informazione, politica e grandi interessi economici nonché da ripetute criticità sul piano della libertà di stampa segnalate in sede europea e internazionale.

Antenna Group (ANT1) è uno dei principali gruppi mediatici privati dell’Europa sud-orientale, controllato dalla famiglia Kyriakou e guidato da Theodore Kyriakou. Nato come broadcaster televisivo in Grecia, il gruppo ha progressivamente ampliato la propria proiezione internazionale, costruendo un portafoglio che include canali televisivi generalisti e tematici, radio nazionali, società di produzione di contenuti, piattaforme digitali e attività nel settore dell’entertainment e della distribuzione audiovisiva. Antenna è presente non solo in Grecia, ma anche in altri Paesi europei, negli Stati Uniti e in Australia, dove intercetta comunità diasporiche e mercati pubblicitari maturi.

Dal punto di vista industriale, un’eventuale acquisizione di GEDI rappresenterebbe per Antenna un salto di scala qualitativo: l’ingresso nel mercato editoriale italiano consentirebbe di diversificare il portafoglio oltre la televisione, rafforzare la presenza in un grande Paese UE e acquisire testate dotate di forte riconoscibilità, capitale simbolico e capacità di influenza sull’agenda pubblica. In termini strategici, l’operazione offrirebbe sinergie sul fronte della produzione di contenuti, della distribuzione digitale e della raccolta pubblicitaria cross-media, in un contesto in cui i grandi gruppi cercano di compensare la crisi dei media tradizionali con integrazioni orizzontali e verticali.

Tuttavia, la solidità industriale e la proiezione internazionale del gruppo non possono essere disgiunte dal contesto di riferimento. Il sistema dell’informazione greco è stato negli ultimi anni oggetto di rilievi critici a livello europeo e internazionale per concentrazione proprietaria, opacità nei rapporti tra media, potere politico ed economico, e criticità sul piano della libertà di stampa.

Tali elementi non implicano automaticamente rischi per l’autonomia delle testate italiane, ma rendono centrale il tema delle garanzie: trasparenza dell’assetto proprietario, chiarezza sui flussi finanziari, separazione chiara tra proprietà e linea editoriale, tutela dell’indipendenza delle redazioni e governance conforme ai principi oggi sanciti anche a livello europeo dall’European Media Freedom Act (di cui parleremo tra poco). Questi requisiti non sono orpelli formali, ma condizioni essenziali. Il rischio non è l’interferenza diretta e grossolana, quanto piuttosto un’erosione progressiva dell’autonomia, difficile da individuare e ancor più difficile da contrastare una volta avviata.

In questo senso, la possibile acquisizione di GEDI da parte di Antenna non solleva una questione identitaria o nazionale, ma una questione sistemica: se e come un grande gruppo mediatico transnazionale intenda operare in un settore – quello dell’informazione – che non è più considerato un bene come gli altri, ma una infrastruttura democratica sottoposta a regole, responsabilità e controlli rafforzati.

Qui si innesta un elemento nuovo, spesso trascurato nel dibattito pubblico: l’entrata in vigore dell’European Media Freedom Act (Regolamento UE 2024/2065). Per la prima volta l’Unione europea riconosce formalmente l’informazione come interesse pubblico europeo e non più come materia esclusivamente nazionale. Il regolamento impone obblighi di trasparenza sulla proprietà dei media, tutela giuridica dell’indipendenza editoriale, valutazione dell’impatto delle concentrazioni non solo in termini economici, ma anche rispetto al pluralismo e alla qualità del dibattito democratico.

L’EMFA non vieta le acquisizioni transfrontaliere, ma le sottopone a un nuovo standard di responsabilità. L’informazione non è più considerata un bene qualsiasi del mercato interno, ma una infrastruttura democratica da proteggere. In questo quadro, l’intervento del Governo italiano, il richiamo alla trasparenza, alle garanzie occupazionali ed editoriali, non appaiono come un’ingerenza indebita, bensì come l’applicazione di un principio ormai riconosciuto anche a livello europeo.

La questione del golden power si colloca esattamente su questo crinale. Non si tratta di difendere un perimetro nazionale in senso difensivo, ma di governare transizioni che incidono su asset strategici immateriali. La domanda non è se lo Stato debba intervenire, ma come e con quali strumenti, evitando tanto il dirigismo quanto l’indifferenza.

A rendere ancora più evidente la dimensione non meramente economica della vicenda è intervenuta, nelle ultime ore, una dichiarazione dell’Ambasciata della Federazione Russa: l’eventuale passaggio del controllo di GEDI a un gruppo editoriale greco potrebbe determinare un cambiamento nell’orientamento delle principali testate del gruppo, con un ritorno a posizioni considerate “meno ostili” o “non apertamente antirusse”. La presa di posizione non si è tradotta in accuse dirette né in affermazioni circostanziate (parla genericamente di rapporti problematici con l’attuale linea editoriale) ma ha assunto la forma di un commento politico generale sull’operazione, implicitamente collegando l’assetto proprietario dei media alla loro linea editoriale in materia di politica internazionale.

Al di là del contenuto, che va letto come espressione di una narrativa diplomatica e non come valutazione oggettiva, la dichiarazione è significativa per il suo stesso verificarsi. Il fatto che un’ambasciata straniera intervenga pubblicamente su una trattativa riguardante un gruppo editoriale italiano segnala che l’informazione è percepita, anche da attori geopolitici esterni, come una infrastruttura strategica del confronto internazionale. Non indica automaticamente alcun effetto sull’autonomia delle redazioni, ma rafforza l’esigenza di garanzie, trasparenza e tutela dell’indipendenza editoriale, proprio per sottrarre l’informazione a letture strumentali o aspettative eterodirette.

A questo punto diventa evidente che la possibile dismissione di GEDI non può essere interpretata esclusivamente come una scelta riconducibile alla strategia di Exor. Essa si iscrive in una razionalità più ampia, ormai dominante nei grandi gruppi globali, che tende a liberare capitale dai settori a basso rendimento strutturale – come l’editoria e parte dell’industria tradizionale – per concentrarlo su asset scalabili, finanziarizzati e globalmente difendibili. Marchi premium, automotive di lusso e investimenti cross-border rispondono a questa logica molto più di imprese fortemente radicate in contesti nazionali, esposte a regolazione, conflitto politico e pressione sociale. Il punto, dunque, non è giudicare Exor, ma constatare che l’Italia fatica sempre più a trattenere investimenti “pazienti”, cioè quelli che accettano margini più bassi in cambio di stabilità istituzionale, contesto prevedibile e visione di lungo periodo.

In questo senso, il cosiddetto “costo Paese” non è uno slogan polemico, ma un moltiplicatore di rischio. Quando un grande gruppo valuta se restare o uscire da un mercato, non si limita a considerare fiscalità, costo del lavoro o oneri burocratici in senso stretto. Ciò che pesa maggiormente è l’incertezza complessiva, che nel caso italiano assume forme ricorrenti: incertezza normativa, legata alla mutevolezza delle regole e alla stratificazione tra livelli di governo; incertezza amministrativa, fatta di procedure frammentate, responsabilità diffuse e tempi decisionali imprevedibili; incertezza politica e culturale, per cui l’impresa – e ancor più l’informazione – è spesso percepita come un oggetto da controllare più che come un’infrastruttura da sostenere. Tutto questo non rende impossibile investire in Italia, ma innalza il premio per il rischio. E quando i rendimenti attesi sono già compressi, come nel settore editoriale, la scelta di disimpegno diventa quasi obbligata.

Si manifesta così un paradosso tipicamente italiano. L’informazione viene riconosciuta come bene pubblico soprattutto quando sta per essere venduta; l’industria diventa “strategica” quando chiude o delocalizza. Ma una strategia ex post non è una strategia. Se per anni un settore non viene accompagnato nella transizione digitale, non viene protetto dagli effetti distorsivi della concentrazione asimmetrica delle piattaforme globali e non riceve politiche strutturali di sostegno – e non meri interventi emergenziali – è inevitabile che diventi cedibile. La possibile vendita di GEDI non nasce nel 2025: è l’esito di un disimpegno culturale e politico precedente.

Il nodo più profondo resta l’assenza di una visione nazionale condivisa su ciò che è strategico. Paesi comparabili all’Italia, come Francia e Germania, hanno sviluppato nel tempo un’idea relativamente chiara del ruolo dell’industria e dell’informazione come infrastrutture di sovranità economica e democratica. In Italia, al contrario, l’industria è spesso letta prevalentemente come problema ambientale o fiscale, l’informazione come terreno di conflitto politico, la cultura come costo. In un simile contesto, è razionale che i grandi gruppi estraggano valore, diversifichino altrove e mantengano solo ciò che può essere difeso su scala globale. Ferrari, più che industria nazionale, è oggi l’esempio paradigmatico di un asset simbolico e finanziario coerente con questa logica.

Resta allora la domanda di fondo, che non riguarda solo Exor, né soltanto GEDI. Essa interroga il modello di sviluppo italiano e la sua capacità di trattenere investimenti di lungo periodo. L’Italia vuole ancora essere un Paese che produce industria e informazione, o si accontenta di amministrarne l’eredità mentre le decisioni strategiche vengono prese altrove?

Perché quando un Paese perde industria e informazione non perde soltanto occupazione o PIL. Perde capacità di decisione autonoma, densità culturale, possibilità di costruire una narrazione condivisa di sé. Perde, in ultima analisi, una parte della propria infrastruttura democratica. Ed è qui che la riflessione diventa necessariamente più profonda, anche sul piano umanistico: un ecosistema informativo non è sostituibile come un asset finanziario. Una volta indebolito, non si ricostruisce con un’operazione di mercato. Quando se ne vanno industria e informazione non se ne va solo capitale; se ne va la possibilità di decidere, di raccontarsi, di restare sovrani nello spazio pubblico. E quella, a differenza di un asset finanziario, una volta venduta non torna indietro.

PAOLO POLETTI

APPENDICE – Dati e statistiche – Editoria e consumi informativi in Italia
  1. Chi informa gli italiani
    1. Digital News Report Italia 2025 (ed. italiana)
      • TV: 66% la utilizza settimanalmente; 51% la indica come fonte principale
      • eMedia online (fonte principale):
        • Social network: 17%
        • Testate native digitali e giornalisti indipendenti: 9%
        • Siti/app dei quotidiani: 8%
        • Siti/app radiotelevisivi: 5%
        • Carta stampata: 2% come fonte principale
Fonte: Reuters Institute / ANSO
 
  1. Osservatorio AGCOM sul sistema dell’informazione 2025
    • Internet: principale mezzo di informazione (dato confermato 2023–2024)
    • TV: 46,5% come mezzo informativo (in forte calo rispetto al 2019)
    • Radio: 13,3%
    • Quotidiani cartacei: letti da poco più del 17% della popolazione
    • Abbonamenti digitali ai quotidiani: 6,6%
    • Fiducia: circa 30% dichiara bassa fiducia nelle notizie dai social
Fonte: AGCOM
 
  1. Lettura dei quotidiani (frequenza settimanale)
    1. Popolazione (6+ anni) che legge quotidiani almeno una volta a settimana: 26,1%
Fonte: ISTAT, Annuario Statistico Italiano 2024 (dati 2023)
 
  1. Lettori della stampa
    1. Audipress 2025/I:
      • Lettori di almeno un titolo stampa (carta e/o replica) negli ultimi 30 giorni: 30,9 milioni
      • Lettori di quotidiani nel giorno medio (carta e/o replica): 11,3 milioni
Fonte: Audipress
 
  1. Dati industriali – Tirature e peso GEDI
    1. AGCOM – Dati relativi alle tirature 2024
      • La Repubblica: 44.320.423 copie (quota nazionale 5,97%)
      • La Stampa: 34.623.849 copie (quota nazionale 4,67%)
Fonte: AGCOM