NOTTE DI NATALE
di CLAUDIA SFILLI ♦
Ormai lo sapevo: Babbo Natale erano mamma e papà. Me lo aveva spiato quando avevo quattro anni Mariangela, la mia cugina grande, sì, ma non abbastanza da capire che avrei potuto sognare ancora qualche annetto.
Crescendo avevo imparato una cosa importante: un bel po’ prima delle feste natalizie, quando le giornate incominciavano a durare poco e si sentiva pizzicare il primo freddo, era il caso di iniziare a manifestare in casa un’intima sofferenza per la mancanza di qualcosa. Non doveva sembrare un capriccio – guai! – né una pretesa: semplicemente un bisogno. Era così che ero riuscito ad ottenere il più bello e costoso zaino di tutta la scuola e, qualche anno dopo, l’iscrizione a calcio. Straordinaria conquista, quella, visto che mamma e papà erano fissati, veramente fissati con i bei voti a scuola e ogni mio desiderio doveva comunque fare i conti con il tempo richiesto dallo studio. Penso che ci fosse qualcosa di patologico in loro, mi dispiace dirlo, perché un minimo calo del mio rendimento scolastico provocava pianti isterici di mia madre e reazioni violente di mio padre, come sgridate spettacolari o pesanti castighi. Il risultato era che io odiavo con tutto me stesso la scuola, al punto di non poter nemmeno guardare il mio astuccio delle penne senza provare un intimo malessere. Tutti quei devi – devi – devi assillanti mi rendevano nervoso, arrabbiato, pronto a fare rissa con chiunque. Esagerato? Invito chi pensa questo a immaginare di essere un bambino esuberante, con tanta voglia di ridere e di scherzare con gli amici, costretto tutti i giorni, sabato e domenica compresi, a sedersi, appena finito di pranzare, al tavolo della cucina e fare i compiti fino a sera. In cucina, sì, e non nella mia camera, dove c’era una bella scrivania, perché la mamma doveva sorvegliarmi passo dopo passo nel mio lavoro, esigendo di più, sempre di più, di più, perché… nella vita bisogna dare il massimo se non si vuole finire negli ultimi posti della società. Non capivo cosa significasse essere negli ultimi posti della società, ma annuivo e obbedivo, perché solo così lei si quietava un po’.
Quell’anno avevo comunque deciso di azzardare e già verso settembre avevo cominciato a parlare nientemeno che degli scout. Il mio amico Raffaele era lupetto ed era felice da matti di appartenere a quel mondo. Mi raccontava che facevano un sacco di belle cose tutti insieme, stavano a contatto con la natura e facevano i campi estivi… lontano dalle famiglie! Sognavo di giorno e di notte di esserci anch’io fra loro, con il cappellone in testa, il fazzoletto al collo, i pantaloni corti.
Alla mia richiesta di diventare scout, però, c’era stato il prevedibile no da parte di mamma e papà, come sempre in pieno accordo. Non dovevo arrendermi, comunque, anche perché avevo il sospetto che non sapessero bene di cosa io stessi parlando. Incominciai, quindi, a leggere a voce alta a pranzo, a cena, davanti alla televisione il libretto illustrativo regalatomi da Raffaele e a non parlare d’altro. Li portai all’esasperazione, lo so, ma a un certo punto il papà cambiò un po’ atteggiamento. Dimostrò di sapere qualcosa dello scoutismo che non gli avevo detto io, segno che era andato a informarsi, e anche se continuava a dire che non era il caso di perdere tanto tempo con le nobilissime attività degli scout, pareva comunque aver abbassato un poco il muro su cui solitamente si infrangevano i miei sogni di libertà. Con il tempo prese corpo in me la speranza che quel furbacchione tirasse la corda per ottenere poi la mia massima sorpresa a Natale. E io stetti al gioco.
Scout, scout, scout… la salvezza! Finalmente una vita mia. Non più solo quaderni, libri, voti. Non più solo devi fare meglio… avvantaggiati, fai anche i compiti di domani… ripassa… rileggi…
Basta!
Il Gran Giorno stava per arrivare. Avevo usato tutta la mia furbizia e la mia strategia per indurre mamma e papà a scegliere quel regalo per me, loro unico figlio, e nutrivo grosse speranze. Ma sì, mio padre, cercando informazioni, doveva aver certamente letto quanto utile ed educativo fosse per un bambino diventare scout! E allora?
Sotto l’enorme abete dai rami piegati da addobbi ogni anno più numerosi e fantasiosi, si erano già accumulati pacchi e pacchetti di vari colori e dimensioni portati da amici e parenti. Una bella visione, sì, non voglio dire di esserle mai stato insensibile, anche se l’esperienza mi aveva già insegnato che in tali situazioni è più frequente la delusione della soddisfazione. I calzettoni con la facciona di Babbo Natale sul polpaccio, le pantofole con la testa di drago, il libro che insegna il rispetto per la Natura, e poi la giacchettina con cravattina per le grandi occasioni e la penna stilografica, sì, la penna stilografica che il nonno si dimenticava regolarmente di avermi già regalato… ecco, avevano un senso fintanto che restavano chiusi nei loro pacchetti sfavillanti, stuzzicando la mia fantasia e la speranza in un regalo divertente o interessante per un bambino della mia età, ma poi…
Quell’anno, come se non bastasse la confusione data dalla puntuale presenza degli amici Arianna e Federico, con il loro antipaticissimo figlio Pietro che non sapeva fare altro che sfidarmi in tutto, sarebbero arrivati anche i parenti di Perugia: zia Sara, zio Tiziano, sua cugina Renata e il suo secondo marito Gianni. Con il nonno, quindi, saremmo stati in undici. E siccome abitavano lontano, si fermavano tutti a dormire da noi, sistemati alla bell’e meglio.
“Per una notte si può fare”, aveva detto il papà. “Non vorremo mica farli guidare con quello che mangeremo e berremo!”
Già: avrebbero mangiato e bevuto fino a star male, come ogni volta; ma perché? Perché è Natale, mi rispondeva la mamma. Ovvero: questo è il Natale!
Guardando la moltitudine di regali sotto l’albero, mentre l’elettricità nell’aria aumentava per l’imminente arrivo degli ospiti, quella risposta non mi diceva niente. Ma il mondo degli adulti era pieno di lati incomprensibili…
Quell’anno, quindi, cercavo sotto l’albero un pacco piccolissimo, una busta, per sognare il Certificato di Iscrizione all’Associazione Scout, ma anche un pacco bello grosso per potermi immaginare vestito di tutto punto da lupetto.
La regola in casa nostra, il giorno di Natale, era: prima si mangia, poi si aprono i regali, e io quell’anno non stavo proprio nella pelle. Odiavo la lentezza con cui la festa procedeva.
“Ancora un brindisi! Buon Natale!”
“Mangerei ancora un po’ di quell’arrosto delizioso!”
“Adesso un bicchierino per buttar giù quello che abbiamo in pancia e poi… panettone a volontà e la bottiglia giusta per accompagnarlo!”
“Hai ancora quei datteri meravigliosi?”
“Aspetta, ora vado a vedere…”
E il tempo passava, passava…
Quando incominciammo ad aprire i pacchi fu un vero, vero, vero strazio. Ad ogni regalo mille commenti e poi le foto e poi le battutine, magari anche l’applauso… e io scoppiavo dentro. Quando arrivava il mio turno facevo la faccina felice, sì, perché era giusto farlo anche davanti ai calzettoni con Babbo Natale sul polpaccio, ma sapevo che quello di mamma e papà sarebbe stato l’ultimo pacco e aspettavo solo quel momento.
Eccolo, finalmente!
Fuori si era già fatto buio, io ero stremato, certo, ma ogni parte del mio corpo era più che pronta a rianimarsi per esultare. Avrei simulato lo stupore più grande, sì, lo avrei fatto per far felici mamma e papà: in fondo se lo meritavano, quel mio sforzo, perché erano stati fin troppo bravi a lasciarmi nel dubbio fino all’ultimo momento.
“Mattia, tesoro, ecco il tuo regalo!”
Il pacco era un po’ come un quaderno grande, ma non era un quaderno grande, perché era rigido e aveva un certo spessore. Non era pesante, ma più grande di quello che mi sarei immaginato. Forse quello era il loro modo di valorizzare il Certificato di Iscrizione. Forse era già incorniciato.
Il mio strappo – un po’ violento è vero – per liberarne il contenuto, aveva fatto reagire le signore presenti con un Oooh! di orrore. Già: una carta in meno da mettere da parte.
Ed ecco finalmente tra le mie mani una scatola piatta, anche quella un po’ difficile da aprire… forse per l’emozione.
“È il più bel tablet che c’è in commercio! Lo userai insieme a noi; vedrai, ti divertirai un mondo”.
Un tablet.
Come quello dei miei amici.
Non mi interessava affatto.
Non riuscivo a sorridere.
Non riuscivo a dire niente.
Durante il resto della festa, il papà si staccò in continuazione dagli ospiti per studiare con me quel maledetto coso. A lui piaceva molto.
“Potremo anche parlarci, quando vado via per lavoro. Sarà bello!”
“Ma sempre sotto controllo, eh, Mattia! Questo si usa solo quando ci siamo noi!” continuava a dire la mamma, soprattutto per gli ospiti.
Intorno a me sentivo mormorare.
“Guardalo! È addirittura sconvolto… tesoro…”
“Mamma mia, che fortunati i bambini oggi, eh?”
“Sembra lì lì per piangere… che tenero…”
A tarda sera, dopo un noiosissimo gioco di società che aveva divertito tutti, anche l’antipatico Pietro che voleva solo vedermi perdere, qualcuno aveva chiesto “due fili di pasta” e avevano ricominciato a mangiare e bere. Io allora finsi di cadere dal sonno e dopo mille baci e carezzine e paroline, con infiniti riferimenti allo splendido regalo di mamma e papà, andai finalmente nella mia stanza.
Dormire… impossibile.
Quando in casa calò il silenzio, mi sedetti sul letto. Con gli occhi spalancati nel buio attenuato dalla lucetta azzurra sulla mensola di fronte al letto, non trovavo pace. Io lo avevo fatto capire, ciò che desideravo! Lo avevo detto chiaramente. Anche Raffaele mi aveva dato un valido aiuto, un giorno, venendo vestito con la divisa di lupetto… accidenti… era bellissimo. Come potevano non aver capito? Allora quella era cattiveria. Cattiveria pura!
Restare a letto era una pena, quindi scivolai fuori dalle coperte e piano piano uscii dalla stanza. Senza fare rumore scesi le scale e tornai nella sala da pranzo, dove il grande albero, con le sue lucette che si accendevano e si spegnevano, continuava a tenere in vita il Natale. Forse c’era ancora qualcosa lì sotto: forse, con tutto quel cibo in pancia e tutto quel vino, mamma e papà si erano dimenticati del vero regalo per me. Magari la piccola busta, nella gran confusione, era sfuggita alla vista, e mi stava aspettando. Che bello sarebbe stato! Tutta la sofferenza di quella terribile giornata si sarebbe immediatamente dissolta. Ma… non c’era nessuna busta dimenticata sotto l’albero. Non c’era proprio niente sotto l’albero. Albero traditore, genitori traditori!
Nel silenzio della notte sentivo russare, e muoversi in quei letti di fortuna che rendevano la mia casa un accampamento. Odiavo il Natale. Odiavo tutti.
Mi guardai intorno. Bicchieri, cartacce, bucce d’arancia, tovaglioli… anche le scarpe di zia Sara erano abbandonate sul tappeto, e sul bracciolo del divano c’erano pacchetti di sigarette e l’accendino rosso di papà. Glielo aveva regalato la mamma, sì, proprio lei, dopo avergli detto un miliardo di volte che doveva smettere di fumare! Era bello, però, quell’accendino, e prezioso: per questo glielo aveva regalato, sono sicuro. Lo presi in mano: era pesante e luccicava. Luccicava come l’albero. L’albero… l’accendino.
Click… Click… Click… al diavolo l’albero. Al diavolo il Natale… al diavolo tutti.
Click!
Oddio! Ormai l’avevo fatto. Non potevo tornare indietro. L’avrei tanto voluto, sì: tornare indietro solo un attimo e non fare quella sciocchezza, ma…
“MAMMA! PAPÀ! Presto!”
Una voce: la mamma. Grida il mio nome. Poi subito il papà: cosa si dicono? Non capisco, ma li sento: corrono giù.
“Oddio… cosa succede? Oddio… Mattia!”
“L’albero, cazzo!”
In un attimo sono fra le braccia della mamma. Quasi mi soffoca. Chiuso nel suo abbraccio non vedo più niente. Dio, quanto trema!
Ecco, si sveglia tutta la casa. La voce di zia Sara stride come sempre, più di sempre e quella cupa di zio Tiziano fa spavento; ogni parola, un colpo di tosse. Tosse orribile, cavernosa.
“Andiamo giù. Andiamo giù, via via!”
Le voci riempiono la casa e finalmente mi libero un po’ dall’abbraccio mortale della mamma. Respiro, sì, ma c’è tanto fumo e mi metto a tossire anch’io come lo zio Tiziano. Come il papà. Come la mamma. Come tutti.
Sento altre braccia adesso su di me. Con quel profumo dolciastro capisco che è Arianna che mi porta vicino quell’odioso di Pietro che non trova di meglio da fare che piangere, come un bambinetto. Ridicolo! Per un attimo mi sparisce la paura e cerco di ridergli in faccia. Ma non mi guarda, il fifone! C’è tutto un ciabattare giù per le scale e per la stanza: respiri affannati, parolacce, ordini confusi:
“Buttalo a terra!”
“No, prendilo per sotto di là, dove non brucia…”
“La finestra, donne! Cazzo!”
“Lasciate quei ragazzi, perdio! Aprite la finestra!”
“Fate spazio, dai!”
“Presto, presto!”
Tiro fuori la testa dalle braccia della mamma. La cugina Renata e il suo secondo marito Gianni se ne stanno impalati: guardano Federico e il papà agitarsi come matti e non fanno niente.
Intanto gli addobbi dell’albero cadono tutti: paf, paf paf… le lucette strisciavano sul pavimento. Che casino! Bisognava fare presto, presto, presto… Il fuoco, quel fuoco cominciato con fiammelle innocenti qua e là… si stava facendo sempre più forte. Ma non era colpa mia!
“Attento alla tovaglia, Fede!”
“Merda… la tenda! Sposta quella tenda! Ehi, Gianni! Coraggio, aiutaci a buttar fuori ’sto cazzo…”
Non avevo mai sentito tante parolacce nella bocca del papà.
Le carte buttate a terra durante la festa stavano cominciando a prendere fuoco! Oddio! Le donne hanno urlato e finalmente si sono mosse. Hanno dato una mano.
Guardare Pietro non mi bastava più: la paura mi aveva paralizzato, ma non piangevo, io, no… guardavo le fiamme con il terrore che si mangiassero tutto, ma senza lacrime. La mamma invece singhiozza, e tanto!
Le sirene si sentirono da lontano. Tutti si bloccarono e si guardarono per un attimo e poi… via: l’albero volò dalla finestra e finì nel giardino assieme alla coperta del nonno che gli era stata buttata sopra. Nel caos assoluto del momento mi infilai fra quei corpi in pigiama e camicia da notte e raggiunsi il davanzale della finestra. Le fiamme stavano divorando il povero albero e della coperta non era rimasto più niente.
Lampeggianti, sirene… L’Auto Pompa dei Vigili del Fuoco in un attimo fu fuori dal cancello e in un attimo due, tre, non so quanti uomini in divisa furono nel giardino. In un attimo il fuoco fu spento. Ma la confusione non finiva. Erano accorsi i vicini, quelli simpatici e anche quelli antipatici: di sicuro questi si divertivano a vederci così conciati. Discorsi seri, strette di mano… tutto quel casino sembrava non dover finire mai. Ma forse era meglio che non finisse. Prima o dopo sarebbero arrivate le domande… cosa mi sarebbe successo? Mi avrebbero portato via i Vigili? No… la mamma e il papà non lo avrebbero permesso anche se… Ma non era colpa mia! Era l’albero che aveva preso fuoco!
Il momento arrivò quando tutto, ma proprio tutto era finito. C’era silenzio, i nostri ospiti erano tornati bene o male nelle loro stanze e mamma e papà respiravano piano il sollievo del pericolo scampato. E sì, perché tutti avevano detto e ripetuto che sarebbe potuto andare ben peggio. Ma peggio di così?
“Mattia, tesoro, cosa ci facevi giù? Perché non eri nella tua stanza?”
“Mattia, non è che….”
Il papà mi guardava serio…
Dovevo stare molto attento.
“Io… io stavo facendo un sogno… un sogno strano… ero lupetto… in un bosco… e quel bosco stava prendendo fuoco. Ma io ero lupetto e… stavo salvando tutti! Però il fumo… il fumo era terribile e mi sono svegliato. Il fumo c’era davvero nella camera. Sono uscito, ma era dappertutto. Sono sceso e ho visto l’albero… non sapevo se era ancora il sogno o…”
Mamma e papà mi stringevano: passavo da uno all’altra come una palla.
“Tesoro ci hai salvati, sai? Grazie a te abbiamo agito in tempo!”
“Se tu non fossi sceso e ci avessi chiamati sarebbe stato un vero dramma…”
Gustavo quegli abbracci e quelle belle parole come mai in vita mia.
“Sì… è vero… proprio come un bravo lupetto.”
Si sono guardati negli occhi, mamma e papà, mentre lo dicevano. Li ho visti…
Ci ho ripensato mille e mille volte a quella notte di Natale. Alla fine ero riuscito ad avere il regalo che volevo, certo, come lo zaino più bello e costoso di tutta la scuola e l’iscrizione al calcio: prima della fine dell’anno ero diventato anch’io Lupetto, come il mio amico Raffaele.
Ma quanta fatica, questa volta!
CLAUDIA SFILLI
