Due sorelle di 89 anni decidono di morire insieme e il mondo si scandalizza
di LETIZIA LEONARDI ♦
La decisione di Alice ed Ellen Kessler, una vita vissuta all’unisono, di ricorrere al suicidio assistito ha riacceso un dibattito che in Italia continuiamo a rimandare per paura, per tabù o per comodità. Ma la loro storia non è quello che alcuni hanno voluto far credere. Non è una “pubblicità”, non è un invito al suicidio, non è l’ennesima spinta verso la “cultura della morte”. È una scelta personale. Consapevole. Voluta. E soprattutto libera.
C’è chi ha parlato di cultura della vita contro la cultura della morte. Altri hanno evocato scenari inquietanti come ospedali pronti a “liberarsi” degli anziani, famiglie che spingono i fragili verso una morte più economica della cura, un futuro di categorie “ingombranti” eliminate per fare spazio. Sono paure vere, e non vanno derise ma non possono nemmeno diventare il metro con cui giudichiamo ogni scelta individuale, né la lente attraverso cui rileggere una vicenda che con quei fantasmi non ha nulla a che vedere.
Spesso ragioniamo per scenari catastrofici, dimenticando che ci sono Paesi dove suicidio assistito ed eutanasia volontaria sono regolamentati da decenni: Svizzera, Olanda, Belgio, Canada, Germania. Culture e sistemi diversi, ma una cosa la mostrano i dati, non le opinioni: non esiste un’eliminazione dei fragili, non esistono pressioni sugli anziani, non c’è alcun “liberiamo posti letto”, nessun automatismo tra povertà e fine vita. Perché? Perché dove la pratica è regolata, le regole sono rigidissime con pareri medici plurimi e indipendenti, valutazioni psicologiche, tempi di riflessione, possibilità di revoca fino all’ultimo secondo.
Il punto quindi non è la libertà. Il vero pericolo è l’assenza di regole. È il limbo, quello sì, a essere rischioso. La scelta delle Kessler non è un modello sociale, non è un precedente, non è un manifesto. Alice ed Ellen non erano spinte da nessuno, non erano fragili, isolate o manipolate. Hanno scelto insieme, come hanno sempre vissuto. È stato un atto di coerenza personale, non una bandiera ideologica.
Chi usa la loro storia per dire “ecco, adesso gli anziani vorranno morire” sta piegando la realtà alle proprie paure. La loro decisione parla di autodeterminazione, non di “modelli”.
Difendere la libertà di scegliere il fine vita non significa promuovere la morte ma significa riconoscere che la vita appartiene a chi la sta vivendo, fino all’ultimo tratto. Cultura della vita significa anche non imporre sofferenze inutili, non togliere alle persone la possibilità di decidere, non ridurre la dignità a una formula astratta, non fingere che vecchiaia e fragilità siano obblighi da subire in silenzio.
Chi teme derive autoritarie o pressioni familiari dovrebbe essere il primo a chiedere una legge chiara, trasparente, con paletti alti. Proibire tutto non protegge i fragili ma li espone al sommerso. Perché chi ha deciso di non vivere più, quel passo lo fa comunque, ma lo fa male e lo fa da solo.
La domanda quindi non è: Volete il suicidio assistito? La domanda vera è: Volete che tutto resti un tabù senza regole, dove può succedere qualsiasi cosa?
La vicenda delle sorelle Kessler non apre scenari apocalittici. Ricorda solo che la libertà, quando è autentica, è un lavoro individuale, serio e silenzioso. Non si chiede di condividere la loro scelta. Si chiede soltanto di riconoscere che non era la nostra scelta da giudicare. Era la loro. E poi, davvero qualcuno pensa che la vecchiaia o la malattia irreversibile debba essere una gabbia dove restare per forza, qualunque sia il prezzo in dignità, autonomia, lucidità? Le Kessler hanno ragionato, valutato, deciso. E questo, piaccia o no, è l’esatto contrario della disperazione, è lucidità.
Il problema è che molti temono la libertà quando riguarda il fine vita. Appena qualcuno rivendica il diritto di dire “adesso basta”, ecco il coro del moralismo: “la vita è sacra”, “non sta a noi decidere”, “è un precedente pericoloso”. Precedente di cosa? Di responsabilità? Di autodeterminazione? Di coraggio?
La verità è semplice, è che c’è chi vuole mantenere la morte un tabù per controllare la vita degli altri. Ma la fine è parte del percorso, non una parentesi da attraversare col capo chino.
Le sorelle Kessler non hanno chiesto permessi. Hanno preso in mano il loro destino in un mondo che pretende di farci vivere e morire secondo regole scritte da altri.
Chi oggi si indigna è spesso lo stesso che accetta in silenzio anziani abbandonati, vite sospese in reparti dove “cura” significa accanimento, esistenze tenute artificialmente quando non c’è più nulla da tenere. Quella sì, è crudeltà. Quello sì, è un precedente pericoloso.
Le Kessler hanno scelto un’uscita che fosse loro. Serenamente, insieme, senza che qualcuno imponesse un “devi restare” quando non c’era più nulla da restare a vedere. Non è un atto contro la vita. È un atto contro la paura degli altri. E forse, diciamolo, è proprio questo che dà fastidio.
LETIZIA LEONARDI

Mi colpisce sempre il fatto che chi è contrario all’eutanasia (tralascio le sfaccettature della questione) spesso appartiene a una certa parte religiosa-politica-elettorale che ignora completamente lo sfacelo della sanità pubblica, e che propugna l’assunzione di migliaia di soldati infischiandosene delle migliaia di medici e infermieri mancanti.
Michele Capitani
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Capisco perfettamente l’osservazione, ma il punto è un altro: non si può ridurre la questione del fine vita al tifo politico. La libertà individuale non è né di destra né di sinistra, né laica né religiosa per definizione ma riguarda la persona, non gli schieramenti. Che poi chi urla contro l’eutanasia ignori lo sfacelo della sanità pubblica è vero, ed è un paradosso enorme. Ma proprio per questo serve una legge chiara sul fine vita, per evitare che la mancanza di cure, medici, assistenza e dignità diventi essa stessa una forma di eutanasia di fatto, solo più ipocrita. Il problema non è chi è contrario per motivi etici; quelli vanno rispettati.
Il problema è chi usa “la sacralità della vita” come bandiera, mentre accetta ospedali al collasso, anziani lasciati in lista d’attesa e reparti che sembrano magazzini, su questo hai perfettamente ragione. La libertà di scegliere quando finire non può essere ostaggio di chi non si preoccupa minimamente di come si vive.
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