“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – IL QUADERNO CHE VIENE DA LONTANO
di MICHELE CAPITANI ♦
Aziz ha trentotto anni e viene da un mirabile Paese.
Viene da una terra di deserti di rocce rosse, di canyon vertiginosi, di oasi che serpeggiano lungo i pochi fiumi che incidono quelle rocce.
Una terra di piste infinite sotto cieli limpidi e asciuttissimi.
Dove c’è chi vive in grandi tende e su vasti tappeti.
Un paese di città remote e fiabesche, di colori, di artigiani.
Di coste oceaniche e di viaggiatori.
Qui dove l’ho conosciuto, cioè nel carcere della nostra città, Aziz viene da noi a scuola, ma soprattutto fa il suo mestiere, l’elettricista.
Alle volte lo puoi incontrare nel suo laboratorio, una specie di antro magico pieno di telecomandi, ventilatori, televisori, radio e radioline, ipod, cuffiette, scaldini, citofoni, e altri curiosi esseri elettrici sbuzzati, a cui sono state divelte le interiora di cavi e circuiti. Una camera delle meraviglie in cui, da tutti gli angoli del penitenziario, precipitano cose rotte, e da cui poi fuoriescono, restituite magicamente alla loro vita dall’abile Aziz.
Altre volte invece lo incontri in giro, poiché dappertutto nel grande istituto può essere necessaria la sua preziosa presenza, per manutenzioni, guasti e vari impedimenti alla libera circolazione della corrente, l’unica energia che qui dentro liberamente circola.
Per esempio, una volta l’ho incontrato, sempre alacre e gioviale, perfino nella sezione Alta sicurezza, che è una contrada piuttosto remota dalla sua fatata spelonca, quando andavo laggiù in quella sezione per tenere il corso sull’Odissea; forse per questo, mentre scambiavamo qualche parola di saluto, mi era venuto in mente il suo insigne conterraneo Ibn Battuta, mirabolante viaggiatore, sconosciuto qui in Occidente benché avesse percorso dieci volte i chilometri viaggiati dal nostro Marco Polo.
E io che quel giorno me ne andavo a rivivere l’Odissea, fra le odissee carcerarie dei detenuti del mio corso… Quanto paradossalmente mi trovai a riflettere su viaggi e spostamenti e avventure e traffici, e incontri umani che rimandano a mondi esotici, pur camminando in questo luogo rinchiuso, che è stato creato e sussiste proprio per esserne l’opposto.
*****
«A me andare a scuola mi piaceva, ma dopo solo tre anni ho dovuto andare a lavorare perché mio padre non poteva comprarmi i quaderni e le penne».
E come è possibile un simile scempio?
Lo so, è una delle mie solite ingenue domande.
Quel bambino voleva andare a scuola, ma gli toccò imbracciare la zappa perché mancavano i soldi per un oggetto che per noi è poco più di niente, un cosetto fatto di fogli di carta che troviamo dappertutto e a poco prezzo nella nostra civiltà del troppo, delle troppe cose, delle troppe penne, dei troppi vestiti e scarpe, del troppo cibo, delle troppe immagini, dei troppi dispositivi, del buttare invece che riparare perché non vale la pena.
Un quaderno, cos’è mai un quaderno? Un oggetto che sovrabbonda nella nostra Europa obesa e opulenta, affetta dalla sindrome di Leonia, cioè quel tumore di cose che di continuo si ammassano nei cassetti, negli armadi, nelle cantine, nei negozi, nei container dei centri di solidarietà, nelle discariche.
Ma laggiù in quel paese, a quel tempo, i quaderni costavano eccome, per uno come il padre di Aziz, contadino povero, tanto che a nemmeno dieci anni anche il figlioletto dovette seguirnele orme. E crescendo, il ragazzo fece altri lavori, infine iniziò come elettricista, e imparò l’arte.
La imparò molto bene, ma non abbastanza da impedirgli (come per tanti giovani che nascono nella metà sbagliata del mondo) di sognare Leonia, pardon: l’Europa, e una volta arrivato qui, non abbastanza da impedirgli di tentare la sciocchezza della vita, che gli andò male, e che l’ha portato qui dentro, per qualche anno.
Aziz è uno che, nella vita come in carcere, non si lascerà mai portare dalla corrente dei giorni, è uno che non si lascerà mai asfaltare dalle abitudini, dal piatto fatalismo dell’attesa che pure infetta subdolamente molte persone in detenzione, abbandonate a ore vuote e telecomandi in mano (come molti fuori dal carcere, del resto). Non lo farà, sia perché la sua pena non è poi così lunga, sia perché lui è fatto così. Anche tornare a scuola è parte del suo desiderio di essere attivo e non lasciarsi scorrere addosso le opere e i giorni, bensì far fruttare le une e gli altri.
Oggi, al termine della lezione, mi chiede se abbiamo un altro quaderno da dargli, e mi ritorna appunto in mente quel che mi diceva tempo fa, di questo oggetto che rappresenta il suo abbandono scolastico, una trentina d’anni addietro.
Che effetto mi fa adesso dargliene uno, che estraggo del tutto a caso da una delle mensole interne all’armadietto, che ne trabocca. Provo un po’ di rabbia e tristezza insieme, per questo mondo che Dio o Allah o chi per lui, o entrambi insieme, o semplicemente noi uomini, pare proprio che l’abbiamo fatto alla rovescia, se un bimbo sveglio deve lasciare la scuola perché mancano quaderni e penne.
Lui mi ringrazia quasi scusandosi, e io provo sempre tenerezza nel vedere adulti, delinquenti o meno, rubagalline o ndranghetisti, uomini e donne, che verso l’istruzione e i suoi rappresentanti mostrano questa sentita gratitudine compenetrata a una malcelata soggezione. Mi vengono in mente le classi subalterne, quando nei nostri paesi vedevi chi si levava il cappello inchinandosi ai notabili che passavano in piazza, solo che io non riesco a vedermi come qualcuno che sta socialmente “sopra”; la gratitudine dei detenuti mi conforta ogni volta, ma la soggezione mi mette a disagio. Tra adulti, poi, come potrei vedere me e loro su piani differenti?
Ci salutiamo infine, anche con gli altri.
Poi però, uscendo, Aziz aggiunge un’ultima cosa, mannaggia a lui, come se percepisse che il mio pensiero non è stato solo pratico (aprire armadietto+dare quaderno), e gli viene da esternare un piccolo supplemento di ricordo, una cosa che all’istante mi riporta indietro a un anno fatale e blocca il tempo e mi inchioda laggiù, nel suo meraviglioso Paese, e proprio in quel preciso anno…
Dapprima, dandogli quell’oggetto, ho provato un moto di contentezza e di rimpianto per lui, che magari con qualche quaderno in più avrebbe fatto altri studi e la sua vita sarebbe stata diversa, chi può saperlo… Ma poi mi dice una cosa con cui, per una volta, mi immalinconisce, Aziz che normalmente mi comunica qualcosa di positivo, con la sua voglia di vivere e imparare, con il suo volto franco, con la sua cortesia.
Insomma, forse è perché non lo raccontava da tanto, e quindi ancora ci pensa, aggiunge:
«Prof, quando ho lasciato la scuola avevo nove anni, me ricordo che era nel 1996».
Allora sì che quel po’ di tristezza che provavo mi si aggruma, e mi forma un vero groppo in gola.
Meno male che è la fine dell’ora, e devo andarmene anch’io.
Riesco a camminare, esco, mi siedo in macchina ma non parto subito, devo fermarmi un attimo, respirare e stare nell’adesso, perché ciò che mi ha detto quel giovane magrebino non smette di impressionarmi…
*****
Il groppo in gola con cui sono uscito dalla classe è resistente, perché è un nodo creato dai destini che si riuniscono e riannodano dopo decenni.
Perché la verità è che io e Aziz ci eravamo già incontrati.
In un luogo remoto nel tempo e nella geografia, e nella memoria…
Fu durante un viaggio che in gioventù feci nella sua straordinaria terra, un viaggio prodigo di stupori e d’avventure. Càpita a tutti di vivere nella propria vita un viaggio speciale rispetto a tutti gli altri, uno di quei viaggi che ancora dopo decenni ti dona immagini, racconti e ricordi, ricordi a rilascio prolungato… Infatti già altrove narrai quell’esperienza, della quale oggi Aziz mi ha rammentato altre immagini, e la verità del nostro antico incontro.
Perché la verità… la verità è più dura delle rocce dell’Atlante.
Sì, ci eravamo già incontrati io e Aziz, su quelle piste polverose, ci eravamo incontrati ma non lo sapevamo.
Era proprio il nostro 1996 d.C., anno islamico 1417.
Ne vedevamo di bambini, nei villaggi ai bordi del deserto, mai invadenti però incuriositi da quello strano mezzo e da quei giovani stranieri, almeno quanto eravamo incuriositi noi da quei posti e da quelle persone, con cui purtroppo non era sempre agevole comunicare.
Noi ancora ingenui ci sorprendevamo su tutto ciò che vedevamo, come quando scoprivamo che dei bimbetti staccavano pezzetti di certe guarnizioni in gomma esterne al nostro camper, ammorbidite dal sole incandescente, per ciancicarle a mo’ di gomma da masticare!
E quanti di quei bimbi la scuola l’avevano dovuta lasciare, o non l’avevano mai vista, forse a malapena sentita nominare.
Non c’era lui, eppure c’era. Se non lì, poco distante.
Aziz era là, lo vedi?, ad aiutare quella donna che tirava l’acqua dal pozzo, era laggiù a condurre l’asino, era a chiedere monetine a noi che all’epoca eravamo studenti squattrinati, eppure, rispetto a loro, dei nababbi.
Ma non poteva andare a scuola, una scuola che magari, lì, neppure c’era.
Quei bambini erano tanti Aziz, infiniti Aziz, innumerabili generazioni di creature che anche sulle infinite strade polverose e sorprendenti della Tanzania, del Guatemala, dell’India, avrei poi visto tendere le manine, per chiedere spiccioli o penne.
Quanti gliene avremmo dati di penne e quaderni, ad averne! Gliene avremmo dati tanti da coprirci un’intera pista nel Sahara, tanti da accumularci una duna, tanti da stancare dieci cammelli.
Allora sì che comprendo che quello che oggi ho dato all’adulto Aziz non era un cazzo di quaderno qualsiasi estratto a caso dal nostro armadietto del materiale scolastico, ma è quel quaderno, proprio quello, che non potei dargli quando percorrevo le piste ai bordi del deserto nell’anno islamico 1417.
Il nostro ’96.
Sopra il nostro camper, in quei novemila chilometri che percorremmo, transitò di tutto: tappeti, minerali, tamburi, spezie, fumo, calzature, abiti blu, cibo, animali, odori, persone, bambini. Parole italiane spigolose quando litigavamo, e parole arabe o berbere di benedizione quando gli abitanti ci ringraziavano di aver condiviso con loro la pastasciutta.
E tanto sole e tanta polvere.
Solo un quaderno ci mancava, e magari un pacco di altri, e una scatola di penne. Che ci voleva?
Già, a saperlo.
*****
Oggetti oggetti oggetti… gran parte dei quali, nel momento in cui li usiamo, hanno percorso più chilometri di noi, tra viaggi dei materiali, e dei semilavorati, e poi i luoghi di produzione, assemblaggio, stoccaggio, vendita…
Per una volta, trent’anni fa, potevamo essere noi a far percorrere a qualche oggetto tanti chilometri, per darne a chi ne scarseggiava.
Ma oggi provo la sensazione agrodolce di essermi preso una rivincita, benché del tutto ingenua e simbolica, con la storia.
La storia del giovane viaggiatore che fui, e del bimbetto Aziz.
MICHELE CAPITANI
