REDENZIONE E MORTE DI UN LIVELLATORE

di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦

L’amara gregna trafugata al patrimonio marchionale, l’aspra contesa coi fidi guardiani, la fuga precipitosa, la denuncia subitanea, l’accogliente macchia.

E’ così che nacque il “livellatore” della Maremma. E poi di seguito gli agguati, le poste, il mestiere del giustiziere, i misfatti e gli atti di pietà.

Fuggito da Cellere s’inguattò nei forteti toscani e fu da allora Domenichino .

Ma, quel nomignolo non doveva essergli tanto a modo rispetto al giusto uso di modulare , in dura terra di Tuscia, il vezzeggiativo del nome Domenico. Mecuccio era dalla nascita e così avrebbe dovuto  essere nel prosieguo della vita. Ma s’era fatto foresto e la fama lo avrebbe fatto conoscere attraverso quel nome sdolcinato.

“Metto dove non ce ne sono e ne levo dove ce n’è di troppo.”

Aforisma sospetto, questo. Sospetto in merito al suo autore per la forma raffinata che certo sa di tosco, ma sospetto soprattutto per l’effettività dal momento che i servigi resi ai signori andavano oltre la mano tesa alla povera gente.

E di certo, col passare degli anni di madreselva, di freddo, di stenti il redentore non mirava più al regno dei cieli ma a quello più salutare della terra. L’incostante protettore dei povericristi era pian piano finito per essere in amicizia coi signori che, per gretta convenienza , disdegnavano non poco i suoi favori.

Eppoi, il corpo!

La guazza mattutina penetrava con quotidiana petulanza nelle caverne, nei nidi di falasco, nei giacigli improvvisati, tra le foglie del rovere eletto ad agile riparo nella precipitosa fuga. E l’umido, si sa, non tarda tanto a farsi strada tra giunti, giunture, midolli e vertebre varie.  Il mal d’ossa lo infastidiva, ardeva i nervi, tratteneva i movimenti che sempre dovevano esser lesti, disturbava il sonno consolatore. Quando gli anni sono di peso leggero tutto passa senza pena, ma dopo le tante fioriture annuali del biancospino il conto si paga. E si paga con tutti gli arretrati, uno ad uno. La bocca si fa amara perché i denti violentano la loro antica sede. Le gambe, un tempo agili, diventano “lacchine” e ti invocano il sostegno. La barba ed i capelli si fanno sporchi. Le mani sempre più convulse e rinsecchite ti tradiscono quando le costringi all’afferro. Il fiuto, simile a quello del selvatico, non ti sa dire più la verità del mondo. L’ossessione ti invade la testa, l’ossessione d’essere tradito, abbandonato, messo all’angolo, come quel tristo solengo che incontrò più volte nelle cime di Montauto.

Tanti gli anni che sono trascorsi da quella fuga da Cellere.

Ecco osservarlo vecchio e malconcio e stufo di vita e sazio della fama che ha alimentato il suo animo per oltre vent’anni. Il Re di macchia, il Brigante delle maremme, il Cignale, il Livellatore e così via.

 La fama, col tempo, la si digerisce come l’acquacotta: t’aggrada di molto all’inizio e poi volge al colmo e t’ è indifferente. In specie se la poni al confronto con la vita agra che essa comporta. 

Eccolo, il Nostro, lo vediamo, ormai vetusto, trovar conforto presso un casolare alle Forane, nel contado capalbiese.

E’ fidato il compare che lo ospita, in quella notte ottobrina che già annuncia il freddo dell’inverno. Il vino scalderà il sangue prima d’inselvarsi ancora una volta nel folto della macchia.

-L’ho morta ier mattina stà boia d’una lepre. Ti si fa un ber bujone che ti rimette al monno. Damme ascolto Domenichì. Tu sai che le mi braccia e la mi’ casa son sempre aperte per te, ma stà accorto che l’aria n’è più quella d’una volta. A Capalbio son troppi i gangheri che so a giro. A spifferà se fa presto, Domenichì. Ma qui da me se pole sta sicuri. Io non so un ribaldone.

Il Franci non aveva, di certo, parlato a vanvera. Certo le tante braccate de la gendarmeria fino allora non avevano dato segno buono ed egli era rimasto imprendibile . Ma c’era stato il processo di Viterbo contro chi poteva aver favorito la latitanza del Tiburzi. Le condanne decise avevano  spietatamente offeso la leggenda del giustiziere dalla doppietta livellatrice. In una afosa aula d’un poco conosciuto capoluogo del Regno l’aulico linguaggio della burocrazia aveva portato del sudicio sulle gesta che tanta povera gente amava raccontare, per dotare d’ un mito la loro vita grama.

Ma come si poteva tollerare vent’anni di sfrontatezza in una Italia da poco unita? Imprendibile, celebrato perché celebre fra la gente povera e non. Era roba da porre a fine! E poi, non era carico d’anni quel malandrino di macchia? Il processo di Viterbo proclamava solennemente la chiusura di quel ciclo: con le tante pene irrogate, con le minacce verso i reticenti, con l’omertà resa oggetto di severità si sfaldava, o meglio, si tentava a sfaldare il muro protettivo di Domenichino.

Eccolo qui, nel casale del Franci ad ingozzarsi del vino dopo aver ripulito il piatto del ghiotto sugo della lepre. E’ intorpidito, Mecuccio ed il corpaccio minaccia sonno in quella cucina intiepidita dal focarile ammattonato. E l’effetto non tarda a manifestarsi: la testa del brigante reclinata in avanti è accolta dalle braccia a croce poste sul tavolaccio. Ha preso sonno profondo il Nostro. Quando, un sibilo rompe il silenzio!

 Un uomo normale non lo avrebbe avvertito ma Mecuccio sobbalza. Il fiuto della fiera non è stato del tutto soffocato dal tempo.

Balza in avanti, apre la porta, grida minacce, alza lo schioppo, esplode il colpo, grugnisce, avverte le gambe abbandonare la postura, si piega d’un lato come barca squarciata da scogli. Si ritrova a terra, s’avvede che occhi estranei lo fissano ed una voce lo aggredisce: Sei tu Tiburzi Domenico ?

-Ammazzateme. Famola finita, qui!

Ma i carabinieri lo vogliono vivo: trofeo da mostrare, vittoria del Regno d’Italia contro il Regno di Macchia.

 Mecuccio sa che l’ora è giunta. La macchia non l’avrà più come suo figlio. La ginestra fiorita pochi mesi prima è l’ultima: il tempo è scaduto. Come può un animale selvatico essere catturato? Gli animali di macchia hanno tutti un codice d’onore. Si muore non si va a catena, si sparisce del tutto, non s’entra nella gabbia. Questo il codice della selva e tutto va rispettato, finché si può.

Mecuccio è lesto. Tira fuori la pistola, tenta di sparare ma sa bene che è lui che ha da morire, nessun altro.

E accade ciò che egli spera con quel gesto finale.

Il cadavere è legato ad una colonna. Serve la fotografia. In mano gli mettono il suo schioppo. Il cappellaccio è ficcato a forza sul cranio. Gli occhi devono in qualche modo essere aperti per farlo sembrare vivo. Esaurito il rito lo si può tumulare.

Ma il prevosto di Capalbio non vuole, con “schietto amore cristiano”, che il corpo del bestemmiatore, dell’assassino, del fuorilegge abbia riposo in un luogo che ha nome “camposanto”.

D’altro parere è il popolino dei monti di Montauto, delle maremme che scendono a valle per farsi padule in vista della marina, d’altro parere è il mondo dei sempliciotti che coi loro scarni poderi punteggiano il paesaggio, d’altro parere è il mondo dei paesani che arroccati nelle cime di Capalbio, Manciano e Montalto hanno cantato nel tempo la saga del brigante spietato con i forti, generoso coi deboli. La leggenda del livellatore non può andare in oblio per smanie pretesche. Il popolo dei deboli non lo permette.

Ed ecco allora l’italico espediente: metà dentro metà fuori. Dall’ombelico ai piedi in terra profana, dall’ombelico al capo in terra sacra. Il cuore e la parte migliore dei sensi al compianto dei miseri, le viscere e le vergogne al disdegno della gente pia.

Per metà è condanna, per metà redenzione!

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Continuo con questo articolo la serie dedicata al Brigante che è certo mezzo di approssimata biografia ma che ha come fine quello di descrivere, con nostalgia, terre ora senza più anima.    

Una rapida analogia: in terra di Palestina, oggi, qualcuno s’è fatto anch’egli canto tra i miserabili!

CARLO ALBERTO FALZETTI