“AGORA’ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI –SPORT E RAZZISMO: SOLO SULLE TRIBUNE? (seconda parte)
di STEFANO CERVARELLI ♦
C’eravamo lasciati con Materazzi che cade a terra, vittima dell’ira di Zidane derivante da una frase, alquanto offensiva, rivoltagli dal giocatore nerazzurro.
Una frase che fa parte del repertorio, non certo, si usava dire una volta, da educande ma bensì, del Trash-Talking, ossia il condizionamento, attraverso frasario e gesti, colorati di razzismo messi in atto per irritare, innervosire l’avversario in maniera tale che questi, reagendo spinto dal furore, possa procurarsi un danno (leggi espulsione) portando così a termine quanto l’altro, il provocatore, si era proposto.
Un comportamento del genere non ha nessuna “parentela” con il codice che regola i rapporti tra atleti e provoca, al di là, dell’immediato ottenimento dello scopo, danni non da poco. Questo modo di fare viene infatti captato e messo in pratica da atleti dilettanti e quel che è più grave, anche da atleti appartenenti alle categorie giovanili; qui, inoltre, capita sovente che l’istigazione a “procedere” contro l’avversario giunga dalle tribune dove la maggior parte degli spettatori, sono parenti se non addirittura genitori dei ragazzi che stanno giocando.
Ma andiamo avanti, raccontando qualche esempio di Trash-Talking, attuato da grandi campioni.
Muhammad Alì viene considerato il più grande atleta della storia, non soltanto per i risultati sportivi ottenuti; il suo operato e la sua influenza politica hanno certamente contribuito in maniera importante alla causa degli afroamericani e a far accrescere l’avversità sull’intervento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam.
Purtroppo, però, appena saliva sul ring ed indossava i guantoni, si trasformava, diventava insopportabile: non si limitava ad affrontare gli avversari, dominandoli con la sua netta superiorità no, li derideva e quando il loro valore (perché ne avevano) si avvicinava troppo al suo trovava altre maniere più sottili, per condizionarli e smorzarli psicologicamente.
Nel corso di un’intervista Joe Frazier ebbe a dire: “Sul ring mi chiamava servo dei bianchi, a me che avevo chiesto personalmente al Presidente Johnson di restituirgli la licenza per farlo combattere”.
Michael Jordan, forse il più grande giocatore di Basket di tutti i tempi, nel suo documentario “The Last Dance” teorizza che il vero Trash-Talker, come certamente era lui, insulta e provoca pesantemente quando sta perdendo “Perché è troppo facile – dice – farlo quando stai avanti nel punteggio”.
Un altro grandissimo, amatissimo – molto più dei due nominati precedentemente – giocatore di Basket, vale a dire Kobe Bryant, scomparso tragicamente insieme alla figlia tredicenne, nello schianto di un elicottero, era un incubo per molti compagni.
Questi venivano percossi, verbalmente, fino alle lacrime, perché sviluppassero le qualità tecniche, ma soprattutto caratteriali, indispensabili per giocare al fianco di una grandissimo campione: cioè lui.
Quello descritto con pochi tratti rappresenta il quadro nel quale esplose il caso Acerbi-Juan Jesus.
Il primo è un giocatore dell’Inter, il secondo un calciatore brasiliano in forza al Napoli. Il fatto accadde durante la partita disputatasi il 17 marzo dell’anno scorso; al termine dell’incontro Jesus dichiarò pubblicamente che Acerbi gli aveva rivolto un pesante insulto razzista. Ovviamente l’interista reagì negando decisamente l’accaduto, spiegando poi alla F.I.G.C. – che aveva aperto un’inchiesta – che non aveva rivolto nessun insulto diffamatorio o razzista al brasiliano.
Dovette farlo anche ai compagni che chiedevano delucidazioni. In seguito alle accuse Acerbi venne inizialmente escluso dalla Nazionale.
Nella sentenza successiva all’episodio venne dichiarato che Acerbi aveva sì pronunciato una frase offensiva nei riguardi di Jesus, ma non era dimostrabile che si trattasse di una frase razzista.
Da qui è nato il dibattito sull’esigenza di separare le “armi convenzionali” (leggi insulti tecnici) da quelle “atomiche” (leggi insulti razzisti) ai fini di provvedimenti da adottare verso gli autori di questi insulti.
Naturalmente il Trash-Talking, seppure vergognoso ed antisportivo, non finirà mai di esserci, purtroppo fa parte della competizione e non solo di quella ad alto livello; dell’attività minore ho già detto ma basta andare ai bordi del campo durante una partita di calcetto tra amici, colleghi di lavoro, per rendersene conto.
Vedrete che le prese in giro “bonarie” spesso corrono il rischio di divenire veri atti di Trash-Talking, basta recepire la battuta dal punto di vista di chi la subisce e non da chi la fa.
Andando verso la conclusione la prima cosa da dire è che appare veramente triste la necessità di ricorrere alle regole, anziché al buonsenso, alla sensibilità della gente, per far sì che non ci siano insulti razzisti.
La seconda cosa è che il concetto chiave sul quale bisognerebbe lavorare in profondità è che l’insulto razzista venga visto come la fine, l’abisso di ogni moralità.
Terza ed ultima cosa è che quanto detto non avviene soltanto nello sport.
Provate ad assistere a una discussione nata, ad esempio, per motivi qualsiasi di traffico tra due persone dal colore della pelle diversa. Sentirete come ci si rivolge, con quali frasi, alla persona più “colorata”.
Sareste pronti ad affermare che quegli epiteti non hanno nulla a che fare con il colore della pelle?
STEFANO CERVARELLI

Caro Stefano, quanto hai ragione…Dovremmo, come ieri ha detto anche Papa Leone, “disarmare le parole”: le parole sono la fenomenologia del pensiero, nel momento della rabbia denunciano come veramente siamo nel profondo. E spesso sono il sottoprodotto culturale non solo dello sport.
Maria Zeno
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