“AGORA’ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – LA MAGLIA COME MANIFESTO.

di STEFANO CERVARELLI ♦

Il riconoscimento della funzione sociale del calcio ormai è acclarato e da quanto racconterò in questo articolo, credo che gli ultimi dubbi, dovuti alle realtà negative di questo sport, verranno cancellati; se non altro dimostrerà la crescente volontà messa in atto dai club (tra i quali, come noterete, non figura nemmeno uno italiano) nell’affidare al football messaggi di ogni tipo: dal clima, ai diritti civili, alla Palestina.

Partiamo dalla Norvegia dove un club, il Bodo/Glimt, sopra la sua nuova terza maglia ha rappresentato la bellezza selvaggia dello Svartisen, il ghiacciaio più iconico della Norvegia settentrionale.

Perché questa scelta? Dalla società la risposta arriva chiara e precisa: “Indossiamo questa divisa per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Artico, sulla natura e sul suo futuro.

Il cambiamento climatico è reale, dobbiamo agire prima che sia troppo tardi”. Aggiungo che la diffusione di questo messaggio quest’anno avrà un palcoscenico importante perché per la prima volta nella sua storia il club si è qualificato alla Champions.

Sebbene i colori sociali siano il giallo e il nero, il Kit è interamente bianco e blu proprio per  richiamare lo Svartisen, ma non solo: la maglia è prodotta al 95% con materiale riciclato da scarti di tessili, prodotti difettosi e vecchi vestiti. Un capo sportivo, quindi, diventato veramente un manifesto.

Lo scorso anno il Sunderland, club inglese, aveva modificato il logo sulla maglia rappresentando l’innalzamento  del livello del mare fino a coprire parzialmente il nome del club. 

Per questa identica missione, da anni,  il calciatore Morten Thorsby gioca indossando la maglia con il numero 2, per ricordare l’accordo di Parigi  sul clima; un accordo che mira  proprio  a  contenere al 2% il limite massimo del riscaldamento globale. Il giocatore del Genoa ha creato anche un’associazione “We Play Green” per promuovere  un calcio sostenibile e consapevole.

In Belgio  l’Union Saint – Gilloise ha scelto di riutilizzare maglie “vecchie” della precedente stagione per contribuire, in tal modo, a ridurre il proprio impatto ambientale. Iniziativa tra l’altro già adottata l’anno precedente.

Athens Kallithea ha fatto la stessa scelta. Per questa stagione la squadra greca indosserà gli stessi completi dello scorso anno  proprio per contrastare il dilagare dell’abitudine ad indossare ogni stagione kit nuovi di zecca, evitando così, fino a far scomparire del tutto, la sovrapposizione di completi su completi che una volta dismessi vanno a far aumentare la già notevole montagna di rifiuti tessili.

Le maglie da calcio stanno diventando dunque sempre più veicoli di messaggi sociali.

Lo Clapton, club dilettantistico inglese gestito dai propri sostenitori, la scorsa primavera ha messo in vendita una divisa con i colori della bandiera trans e la scritta “Il calcio non ha genere”. Sono state vendute 700 magliette e con il ricavato il club ha donato ottomila sterline alla comunità trans.

Il Bohemian di Dublino, gestito anch’esso dai tifosi, presente attivamente nella promozione dei diritti civili e soprannominato THE PEOPLE CLUB ha inserito sull’orlo della maglia un’etichetta con la bandiera palestinese con la scritta SAOIRSEDON PHALESTIN e poi ancora FREE PALESTINE in irlandese. Il club donerà il 30% dei ricavi della vendita a MEDICAL KID FOR PALESTINIAS, un ente benefico britannico che opera nel campo della salute e della dignità dei palestinesi che vivono sotto occupazione come rifugiati.

Ci sono poi società che hanno scelto, come filo conduttore dei loro messaggi, la memoria.

Il Vrexham, club gallese, ha dedicato la terza divisa della stagione all’Argentina per ricordare i gallesi emigrati in Patagonia 160 anni fa.

Il  Newport County ha voluto invece ricordare l’accoglienza data a 36 bambini baschi fuggiti dalla guerra civile spagnola del 1937, donando una maglia omaggio all’Athletic Bilbao.

Come si vede si tratta di iniziative diverse, che si rifanno a tematiche sociali differenti ma che  hanno un unico comune denominatore: il riconoscimento del valore sociale del calcio e l’importante ruolo che occupa  nell’impatto dei giovani con questo sport.

Nel 2024 la calciatrice danese Sofie Junge Pedersen, giocatrice ex Inter, è stata premiata dal GUARDIAN come calciatrice dell’anno per il suo attivismo climatico e per aver assunto l’iniziativa di mandare una lettera aperta alla Fifa sui problemi relativi ai diritti in Arabia Saudita.

La sua semplice dichiarazione è stata: “Siamo calciatori e calciatrici ma anche essere umani. Dobbiamo riflettere su come evolve il calcio  e sul suo impatto sul pianeta”.

Sulla stessa lunghezza d’onda si trova anche il difensore spagnolo Héctor Bellerin che dice: “I calciatori hanno la responsabilità di creare consapevolezza riguardo alle problematiche ambientali”. Alla giocatrice e al calciatore spagnolo non sono certo mancate, da parte di altri giocatori, dichiarazioni di solidarietà.

Per la verità di calcio e problematiche sociali se ne era cominciato a parlare già nel lontano 1982.

Uno dei primi appelli alla sensibilità verso i problemi ambientali venne da Socrates, capitano della nazionale brasiliana ai mondiali di quell’anno e simbolo della Democrazia Corinthiana.

Il Doctor, così veniva chiamato per la sua laurea in medicina, asseriva che i calciatori, proprio per la loro possibilità comunicativa e per il palcoscenico mondiale del quale avevano la possibilità di servirsi, avessero delle responsabilità sociali e quindi dare il loro importante contributo affinché temi ambientali e sociali fossero sempre ben presenti.

Non dimentichiamo che Socrates, grandissimo giocatore, si è molto battuto per la democrazia nel suo paese; in quegli anni la sua squadra giocò con scritto sul retro della maglia la parola DEMOCRACIA.

Da allora di anni ne sono passati, il mondo indubbiamente è un altro ma la necessità di tenere alta l’attenzione verso i cambiamenti climatici, con le loro nefaste conseguenze e di pari passo tenere sempre viva l’attenzione verso i diritti civili e la negazione di questi, è un dovere che ci investe tutti. E’ confortante notare che questa sensibilità passi anche attraverso il calcio.

Peccato che manchino i club italiani.

STEFANO CERVARELLI