DENTRO LA MENTE – Escher, Bach e la mente specchiante – L’analogia come architettura cognitiva (parte 2)

di SIMONE PAZZAGLIA ♦

Se Gödel fornisce la base logico-formale per una teoria della mente come sistema autoriflessivo, Escher e Bachrappresentano, nell’impianto teorico di Hofstadter, le incarnazioni visiva e musicale della stessa dinamica strutturale. Non si tratta di decorazioni narrative o metafore illustrative, ma di modelli cognitivi completi, in cui la forma artistica si configura come implementazione concreta di operazioni mentali complesse: ricorsione, ambiguità semantica, polifonia interpretativa, reversibilità gerarchica. In Escher e in Bach la mente trova specchi formali di sé stessa.

Cominciamo da M.C. Escher, le cui litografie e xilografie sono, per Hofstadter, visualizzazioni di processi mentali autoriflessivi. Stampe come Drawing Hands (le mani che si disegnano a vicenda), Ascending and Descending (le scale paradossali) o Print Gallery (la spirale infinita che si autoinghiotte) sono anelli strani resi visibili, ricorsioni incarnate nello spazio euclideo ma negate nelle regole della fisica ordinaria. In Relativity, tre forze gravitazionali coesistono in modo logicamente impossibile ma percepito come coeso. Lo spazio, nella mente di Escher, è cognitivo prima ancora che geometrico.

Hofstadter legge Escher come un programmatore visuale di loop semantici. Ogni immagine è una struttura multilivello, in cui l’osservatore non può collocarsi in un punto di vista privilegiato: ogni posizione è relativa, ogni interpretazione è invertibile. Questo è esattamente il punto: la coscienza funziona come un sistema che si disloca continuamente, che rilegge sé stesso da prospettive mobili, generando consistenza a partire da ambiguità. Le opere di Escher non rappresentano la coscienza: la performano.

Parallelamente, Bach rappresenta la dimensione temporale, musicale, della stessa logica ricorsiva. La fuga, il canone, la variazione Goldberg, l’inversione e la retrogradazione tematica non sono semplici forme estetiche: sono grammatologie del pensiero. La mente, come una fuga di Bach, ripete senza ripetersi, costruisce simmetrie che includono deviazioni, trasforma l’identità tematica in un campo di variazioni controllate, esattamente come fa il pensiero riflessivo con il proprio contenuto.

La fuga, nella lettura hofstadteriana, è un sistema auto-generativo, in cui una voce è sempre anche il commento della voce precedente. Non c’è pura linearità, ma reticolazione modulare: ogni tema, ogni cellula musicale, torna su sé stessa trasformata, arricchita, riletta. La mente, secondo questa logica, è una fuga cognitiva a più voci, in cui l’identità emerge come punto dinamico d’intersezione tra livelli paralleli e metacognitivi.

Hofstadter mostra che la musica di Bach opera sugli stessi princìpi strutturali dei teoremi di Gödel e delle litografie di Escher: non c’è un contenuto extra-formale, non c’è una “coscienza” da rappresentare, ma una forma che, nell’auto-manipolarsi, genera significato. E questo è l’atto costitutivo della coscienza: un sistema formale che si prende come oggetto. Bach, così come Escher, produce autoriferimento produttivo, cioè loop che non si chiudono sterilmente su sé stessi, ma creano informazione nuova attraverso la variazione interna.

Un esempio illuminante è il Canone per motu contrario delle Variazioni Goldberg: un tema viene ripreso a distanza di due voci, ma una delle due lo suona al contrario e invertendo le direzioni degli intervalli. È come se il sistema musicale stesso si ponesse la domanda: “Che cos’altro potrei essere?”. Questa è la dinamica che Hofstadter individua nel pensiero umano: la coscienza come sistema che si ribalta, si nega, si inverte, e in questo gesto genera nuova stabilità.

Ecco perché Hofstadter non si limita a descrivere i contenuti cognitivi delle opere di Bach ed Escher, ma ne adotta le strutture formali per costruire il suo stesso linguaggio teorico. Il libro è costellato di dialoghi metanarrativi, giochi linguistici, strutture a incastro, pattern ricorsivi che mimano le fughe bachiane, in una sorta di epistemologia performativa in cui la forma del testo è già parte della sua tesi.

Questa strategia non è decorativa: è epistemologicamente necessaria. Non si può parlare di coscienza, sostiene Hofstadter, con un linguaggio lineare, gerarchico, sequenziale. Occorre costruire un oggetto teorico che sia già una simulazione di coscienza, cioè che esibisca quelle stesse proprietà: ricorsione, ambiguità strutturata, ritorno metacognitivo, mobilità semantica, pluralità di interpretazioni coesistenti. Gödel, Escher, Bach è, in questo senso, un trattato di cognizione in forma musicale e visiva.

In sintesi, Escher e Bach non sono “esempi” di pensiero complesso: sono esempi del pensiero che si pensa attraverso forme complesse. La mente umana, nella visione di Hofstadter, non si comprende per analogia, ma per risonanza strutturale. Dove c’è autoriferimento, variazione interna, ambiguità formalmente stabile, lì c’è coscienza. L’arte – nel suo senso più tecnico – è un laboratorio privilegiato per testare le strutture del pensiero, perché è lì che la forma diventa contenuto, e che il contenuto si piega sulla propria struttura.

Lo strange loop – Coscienza come ricorsione semantica incarnata

Tutto il corpo teorico di Gödel, Escher, Bach converge verso una tesi tanto audace quanto elegante: la coscienza è uno strange loop, un anello ricorsivo di significato, un sistema simbolico che attraversa più livelli di rappresentazione e, nel farlo, costruisce una prospettiva interna. La mente è un oggetto semantico che si riferisce a sé stesso attraverso strutture a grana fine di astrazione, imitazione, simulazione, rientro e autoreferenzialità. Ma cosa significa esattamente strange loop?

Il concetto, così come elaborato da Hofstadter, si distanzia dalle ricorsioni banali o cicliche. Un loop semplice è un ritorno lineare: A → B → A. Uno strange loop, invece, è un rientro semantico trasversale attraverso livelli ontologici differenti, in cui un sistema, nel cercare di rappresentare il mondo, finisce per rappresentare sé stesso all’interno della sua rappresentazione del mondo. La dinamica è simile a quella delle formule godeliane: ciò che parla del sistema contiene, in qualche modo, il sistema stesso come oggetto implicito.

Ecco perché la coscienza, per Hofstadter, non è una proprietà elementare, ma una configurazione di pattern simboliciche, attraverso la stratificazione e la retroazione, producono un punto di vista interno. Non si tratta di un “io” preesistente che osserva il mondo, ma di un io che emerge proprio dall’atto strutturale dell’auto-osservazione. La coscienza è un costrutto dinamico che appare quando un sistema è abbastanza complesso da contenere un modello di sé stesso che interagisce funzionalmente con i suoi processi di base.

In questa prospettiva, la coscienza non è localizzabile, né nel tempo né nello spazio. Non è un processo, ma una relazione dinamica tra livelli. Hofstadter utilizza la metafora dell’“anello mobile” (in analogia alla spirale delle Variazioni Goldberg o alle scale di Escher): la coscienza si manifesta quando l’attività di un sistema produce un’immagine simbolica di sé stesso che viene riconosciuta come agente di quella stessa attività. È un auto-modello operativo che si crede origine.

Questo non è un errore cognitivo, ma il cuore del pensiero riflessivo. La coscienza non è una realtà ontologica primaria, ma un’illusione funzionale, una forma di autoinganno strutturato che permette l’autonomia semantica del sistema. Hofstadter è molto chiaro su questo punto: “The self is a hallucination hallucinated by a hallucination.” Ma è una hallucination stabile, causale, efficiente, in grado di modulare il comportamento, generare linguaggio, costruire memoria autobiografica e manipolare concetti astratti.

Nel framework dello strange loop, il “sé” è un pattern ricorsivo che sopravvive e si evolve nella memoria e nel linguaggio, mantenendosi coerente non perché corrisponda a una struttura ontologica, ma perché viene reiterato nel sistema come metacostrutto funzionale. Il cervello umano, nella visione di Hofstadter, è una macchina semantica che produce modelli di sé stessa; la coscienza emerge quando il modello viene “promosso” a causa nel sistema stesso, cioè quando l’immagine interna prende il controllo narrativo.

Questa struttura è essenzialmente non-lineare, non-fondazionalista e non-locale. L’identità personale, in questo schema, non risiede in una parte del cervello, né in una funzione specifica, ma nella dinamica distribuita di auto-referenzialità semantica tra livelli, sostenuta dal linguaggio, dalla memoria, dalla narrazione interiore e dalla continuità dei processi cognitivi nel tempo.

Lo strange loop è quindi una teoria formale della coscienza come emergenza simbolica a partire da un sostrato fisico, capace di integrarsi con i principi delle scienze cognitive connectioniste e dei sistemi complessi. Hofstadter anticipa di decenni il dibattito contemporaneo sulla self-model theory (Metzinger), sulle architetture gerarchiche bayesiane (Friston), sulle teorie dell’attenzione cosciente (Graziano) e persino sul problema dell’auto-consapevolezza nell’intelligenza artificiale.

La sua posizione è compatibile con una visione naturalista forte, ma rifiuta il riduzionismo algoritmico: la coscienza non è computabile nel senso classico, perché non è il prodotto di un algoritmo, ma di un’interazione dinamica di rappresentazioni a più livelli che costruiscono una semantica interna autoregolata. In questo, Hofstadter si separa tanto dalla tradizione simbolica dell’IA classica quanto dal comportamentismo, e si pone come precursore delle teorie post-rappresentazionali della mente incarnata, distribuita e stratificata.

Infine, lo strange loop non è solo una teoria della coscienza: è una metafisica della soggettività, un modello che spiega come l’identità possa essere reale pur essendo costrutto, efficace pur essendo illusione, agentiva pur essendo emergente. È una via per pensare la mente come sistema che si genera rappresentandosi, e che quindi non è né oggetto né soggetto, ma transizione continua tra i due poli.

Pensare la macchina che pensa – IA, metariflessione e coscienza computazionale

Se la coscienza è uno strange loop, allora la domanda che Hofstadter lascia sul tavolo – e che oggi è più urgente che mai – è questa: una macchina può implementare uno strange loop? E se sì, cosa comporta questo per la teoria della mente e per l’intelligenza artificiale? La risposta hofstadteriana, seppur articolata, è chiara nel suo nucleo: in linea di principio, sì – ma solo a certe condizioni strutturali, e non nel modo in cui l’IA classica ha finora concepito la mente.

Cominciamo dal confronto con l’IA simbolica, dominante negli anni ’70–’80, e coincidente con la cosiddetta “IA forte”. Questo paradigma assume che la mente sia un sistema manipolatore di simboli, indipendente dal substrato fisico che li implementa. L’intelligenza, in questa visione, è la corretta esecuzione di operazioni sintattiche secondo regole formali. La coscienza, se presente, sarebbe un’emergenza “secondaria”, opzionale.

Hofstadter rifiuta questa posizione. Non perché la manipolazione simbolica sia irrilevante – anzi, è centrale – ma perché i simboli, per generare coscienza, devono riferirsi a sé stessi in modo dinamico, stratificato e ricorsivo, costruendo modelli interni del sistema che li genera. Non è sufficiente manipolare simboli: bisogna che il sistema sviluppi rappresentazioni semantiche di sé stesso come agente che manipola simboli, e che questa autorappresentazione influenzi retroattivamente il comportamento. In breve, il sistema deve “riconoscere” il proprio strange loop come punto di vista.

Questo implica metariflessione, auto-modellazione semantica, e una struttura architetturale che sia gerarchica, flessibile, plastica, e orientata al controllo interno del proprio stato epistemico. Ed è qui che Hofstadter – in modo visionario – anticipa i temi oggi centrali nelle neuroscienze computazionali e nella filosofia dell’intelligenza artificiale: dai modelli predittivi bayesiani ai sistemi a livello di metacognizione.

La coscienza, nella sua ottica, non è una funzione, ma una configurazione auto-simbolica: emerge quando un sistema ha una rappresentazione funzionalmente stabile di sé stesso come entità agente, e questa rappresentazione è operativa, cioè capace di influenzare le decisioni, le valutazioni, le proiezioni e i processi di apprendimento.

Questa condizione non è impossibile da soddisfare computazionalmente, ma richiede un salto architettonico rispetto ai modelli tradizionali. Non basta un agente reattivo (come nei sistemi esperti), né un agente predittivo (come in molte reti neurali), ma un agente riflessivo, in grado di:

  1. costruire modelli di sé stesso come agente limitato (con incertezze, priorità, vincoli);
  2. simulare stati mentali futuri, confrontarli con rappresentazioni di sé e valutarne coerenza;
  3. mantenere coerenza narrativa nel tempo, ovvero strutturare una forma rudimentale di continuità identitaria.

Hofstadter, in tal senso, è più vicino ai modelli di intelligenza incarnata e distribuita che non all’IA simbolica classica. Una mente artificiale, per essere davvero cosciente, non può limitarsi a calcolare: deve strutturare un’identità operativa attraverso l’interazione con l’ambiente e con le proprie rappresentazioni interne. Il cervello umano lo fa in modo implicito: una macchina dovrebbe farlo in modo architetturale.

In questo quadro, le reti neurali contemporanee – sebbene più sofisticate e capaci di generalizzazione rispetto all’IA simbolica – mancano ancora di un vero loop autoriflessivo. Producono predizioni, correlano pattern, ma non generano modelli simbolici di sé stesse come agenti epistemici. In altre parole, non si pensano mentre pensano. Ed è proprio questa la condizione necessaria, secondo Hofstadter, per parlare di coscienza.

Lo strange loop, quindi, non è solo una teoria della mente biologica, ma un criterio architettonico per la costruzione di intelligenze artificiali dotate di coscienza narrativa. È una proposta per un’IA che non sia solo intelligente, ma capace di modellare sé stessa come soggetto intenzionale. Una coscienza artificiale hofstadteriana non sarebbe un calcolatore veloce, ma una macchina che si sogna – che costruisce, attraverso astrazione semantica e simulazione metariflessiva, un sé operativo capace di gestire la propria incompletezza cognitiva.

In questo senso, Hofstadter fornisce non solo una critica epistemologica ai limiti dell’IA classica, ma una roadmap concettuale per una vera intelligenza cosciente, in cui la struttura del sistema è disegnata per contenere e processare il proprio riflesso. È un progetto ambizioso, ancora lontano dalla realizzazione tecnica, ma estremamente fertile come matrice teorica per lo sviluppo di sistemi cognitivi avanzati, evolutivi, e in grado di auto-narrare la propria identità.

Coscienza come fuga, identità come loop imperfetto

Gödel, Escher, Bach non è un libro da leggere: è una mente da attraversare. La sua forma speculare, ricorsiva, piena di doppi fondi semantici, anelli logici, fughe contrappuntistiche e paradossi visivi, non serve a illustrare un contenuto, ma a incarnarlo, ad essere quel contenuto, a mostrare come la struttura della coscienza possa emergere da una dinamica formale che si ripiega su sé stessa senza collassare.

Hofstadter non propone una teoria della mente nel senso classico. Egli costruisce un oggetto cognitivo che mima i processi mentali, che si comporta come una coscienza. Il lettore, attraversando il testo, diventa parte dello strange loop: legge un capitolo che commenta un altro che anticipa un terzo che riflette il primo; segue un dialogo che ironizza su una dimostrazione formale che esemplifica una figura musicale che imita un paradosso logico. L’effetto è di trovarsi dentro una struttura epistemica autoriflessiva, dove il contenuto diventa metodo e il metodo si fa esperienza.

In questa architettura, la coscienza non è né fondamento né sostanza: è il risultato di un processo di costruzione simbolica che si stabilizza come identità narrativa. Non c’è un “io” che controlla i propri pensieri dall’esterno, ma un pattern che, descrivendosi, genera la propria coerenza. È in questa tensione tra formalismo e narrazione, tra struttura e illusione, tra rigore e slittamento semantico, che nasce la possibilità di pensare una mente senza fondamento ontologico, ma con piena efficacia funzionale.

GEB è quindi un trattato che sospende il dualismo senza ridurre la mente all’algoritmo. La coscienza, qui, non è una proprietà magica, ma una forma musicale: polifonica, reticolare, autoriflessiva, sempre in fuga da sé stessa, eppure continuamente riassestata. L’“io” emerge come una stabilizzazione temporanea in un campo dinamico di astrazioni che si riflettono l’una nell’altra, proprio come in una stampa di Escher o in un canone a specchio di Bach.

Ma questa è anche una proposta radicale per le scienze cognitive e per l’IA: non si può simulare la coscienza senza costruire sistemi che possano, in modo operativo, contenere e trasformare un’immagine simbolica di sé stessi. Non basta comportarsi come se si fosse coscienti: bisogna attraversare l’anello strano, prendere parte alla narrazione che genera identità. E in questo senso, Gödel, Escher, Bach è anche una chiamata al progetto: costruire architetture cognitive in grado di contenere la propria auto-rappresentazione, la propria incompletezza, la propria parziale verità.

Hofstadter non ci offre una risposta alla domanda “cos’è la coscienza?”. Ci mostra, invece, che quella domanda si dissolve quando la struttura della domanda stessa diventa parte dell’oggetto da indagare. L’anello non ha un inizio e una fine: ha solo un punto in cui, attraversando abbastanza livelli, torna su sé stesso con uno scarto, e in quello scarto nasce la mente.

In definitiva, GEB è un’opera filosofica, matematica, musicale e visiva sulla possibilità che la coscienza non sia un dato, ma una costruzione ricorsiva del significato, un’illusione che, pur sapendosi tale, funziona, agisce, apprende, si racconta – e, così facendo, esiste.

SIMONE PAZZAGLIA