MISTERO

di CLAUDIA SFILLI ♦

Che età avesse non lo so, perché quando si è bambini l’umanità si divide essenzialmente in piccoli, grandi e vecchi. Posso affermare soltanto che Fidelio apparteneva alla categoria dei grandi. 

Fidelio… per la mia mente di bambina un nome assurdo e mi divertivo ad immaginare madre e padre sulla culla del loro piccolo appena nato.

“Come lo chiamiamo, caro?”

“Fidelio, tesoro, si chiamerà Fidelio”.

Immaginavo il bel bimbetto piangere, agitando le manine come a voler dire “Aiuto, no! Non fatelo!”, mentre i genitori si baciavano, soddisfatti. La mamma mi aveva spiegato che il nome deriva dal latino, e significa “che osserva la fede” e che Fidelio è anche il titolo di un’opera di Beethoven, ma cosa cambiava? Era pur sempre un nome ridicolo, anche se a lui, a dire il vero, calzava a pennello.

Di lui noi bambini sapevamo che era cresciuto con una nonna, la vecchia Ilda, perché i genitori erano morti presto in un incidente automobilistico e che da qualche anno, morta anche la nonna, era rimasto solo. Tutti parlavano di lui dicendo “il povero Fidelio” e lo definivano uno troppo ingenuo, ma tutto questo per noi bambini non significava niente.

Era seguito dai servizi sociali, dicevano, e le mamme, che lo consideravano piuttosto strano, ci raccomandavano di non andare da lui.

Abitava in una piccola casa di fronte al negozio di alimentari. Per entrarci senza che nessuno se ne accorgesse, bastava passare per il giardino della palazzina accanto, andare fino ai posti-macchina e attraversare il buco che qualcuno aveva fatto nella siepe divisoria.  Si arrivava così nel retro della casa di Fidelio, dove c’era il suo garage adibito a falegnameria. Era bravo a lavorare il legno e non gli mancava clientela, solo che non era capace di farsi pagare: perché mai avrebbe dovuto chiedere soldi per il suo passatempo? Qualcuno se ne approfittava, ma gran parte della gente gli infilava di nascosto i soldi nelle tasche.

Nel garage di Fidelio c’era un buonissimo odore di legno, che per noi sarebbe rimasto il profumo dell’infanzia. Stavamo ore e ore a guardarlo lavorare e ci divertivamo a sentire le sue storie. Se la mamma ci avesse scoperto, sarebbe valso comunque la pena di subire le conseguenze.  

Eravamo sempre noi tre: Giulio, Francesco e io. I tre appassionati del legno e dei racconti.

“Come fai a vivere, se non vuoi mai i soldi dai tuoi clienti?” gli chiesi un giorno. Era arrivata l’estate e mi aspettavo di vederlo come ogni anno tutto contento per il caldo e l’allungarsi delle giornate, ma non era così. Quell’anno non ci parlava dei raggi di sole che colorano il mondo e del profumo dei fiori che dà felicità: sembrava indifferente a tutto, e io temevo avesse problemi di soldi.

“Io i soldi ce li ho. Arrivano con la signorina Clara” rispose.

“Allora perché sei triste?”

“Non sono triste. Sto facendo un lavorone e devo stare attento”.

“Cosa stai facendo?”.

Non era un mobile, non un tavolo e nemmeno una di quelle sue belle sculture a forma di animale che mi piacevano tanto.

“Questa è una cosa diversa. È… Voi siete piccoli e bisogna essere grandi per capire queste cose. Me l’aveva ordinata un mese fa il signor Brandi”.

“Ma è morto la settimana scorsa!”

“Eh! Già! Lo so. Mi dispiace. Accidenti a me e alla mia lentezza!” borbottò.

“Ma la fai lo stesso?”

“Io non butto via mai niente. Questo lavoro lo tengo per me”.

“Dicono tutti che sei bravo, ma lumacone!” disse ridendo Giulio.

“Stai attento a quello che dici, giovanotto…”.

Con la sua salopette blu che gli evidenziava la pancia e il cappellino rosso con visiera incollato sulla testa, si muoveva in modo goffo: imitarlo ci divertiva.

Quando lavorava il legno, però, le sue mani diventavano sicure e vigorose.

“È una barca!” disse ad un certo punto Francesco, come illuminato da un’intuizione. E Fidelio scoppiò a ridere, come rideva lui, con uno squittìo stranissimo, sbavando e lacrimando.

“Ma Francesco, sei stupido!” urlammo.  “Come potrebbe essere una barca? Non vedi?

Le barche sono più grandi!”

“Beh, una barchetta, dai…”

“È un armadio…” provò a dire Giulio.

Ma Fidelio rise di nuovo e anche Francesco e io scoppiammo a ridere. 

Giulio arrossì di rabbia.

Io intanto cercavo indizi sicuri: ero convinta fosse una cassapanca, ma non lo dicevo per timore di essere presa in giro.

Quel lavoro misterioso impegnò Fidelio per molto tempo: lo prendeva e lo lasciava, ne lavorava delle parti e poi le nascondeva sotto un grande telo.

Ne parlavamo spesso, quando eravamo assieme.

Il mistero faceva andare alle stelle la nostra curiosità e Fidelio lo sapeva. 

“Ah! Chissà cosa c’è là sotto!” ci diceva ogni tanto, guardando il telo.

Un giorno Francesco, Giulio ed io decidemmo che non ce ne saremmo andati dal garage fino a quando Fidelio non ci avesse rivelato il suo segreto.

“Insomma, tu non vuoi ammetterlo, ma quello che stai facendo è proprio una barca…” disse in maniera perentoria Francesco.

Noi cercammo di restare seri.

Fidelio alzò gli occhi al cielo, ridendo forte.

“È una cassapanca!” dissi allora io.

Francesco e Giulio mi guardarono stupiti: non avrebbero sopportato che io avessi indovinato. 

Fidelio si mise a ridere di nuovo.

“No, no, no! Ma basta con queste domande! Mica siete così curiosi con gli altri lavori!” “Sei tu che ne hai fatto un mistero!”

“Un mistero? Che mistero? Ah! Voi non sapete! Il mistero, il mistero! Lei mi parlava sempre del mistero…”

Ecco che di punto in bianco ricominciava a parlare della nonna. 

“Cosa ti diceva?” chiesi.

“Mi diceva che il mistero è una cosa bella!”

“È orribile!” dissi io. “La mamma e il papà spesso mi nascondono delle cose e io mi arrabbio tantissimo!”

“Ma no, ma no! Non è così! Lei faceva un altro discorso! Tu forse mi puoi capire, perché le donne capiscono di più. La nonna diceva che il mistero è bello perché ci aiuta”.

“Ma di cosa parliamo?” chiese Giulio. “Non ho capito!” Fidelio sospirò.

“Il misteroooooo…”

“E cos’è?”

“Io l’ho chiesto alla nonna, un giorno, perché mi sentivo triste”.  

“Perché eri triste?”

“Perché mi sentivo solo e tante altre cose”.

Quel giorno Fidelio stava portando a termine uno strano intarsio e noi lo seguivamo attentissimi: forse faceva parte del lavoro nascosto. Sembravano fiori con grandi petali, o delle foglie.  

“E la nonna cos’ha risposto?”

“Lei ha detto che il mistero è tutto quello che non si sa. Tutto quello che non si vede, e che non si sente, ma c’è. E va bene così, perché allora, se nessuno lo sa, puoi inventarti le risposte che vuoi”.

“Ma non ci capisco niente!” disse Giulio.

“Se fai una domanda e la risposta è brutta, soffri; invece, se non c’è una risposta, puoi pensare quello che vuoi”.

“Ma che tipo di domande? Non capisco!” insistette Giulio.

“Tipo cosa facciamo noi in questo mondo o perché si muore”.

I suoi genitori erano morti presto, era giusto che si facesse quella domanda, pensai. 

“Ma don Paolo le dà le risposte…” Fidelio scoppiò di nuovo a ridere.

“Lei e don Paolo non andavano d’accordo”.  

“E allora? Chi ha ragione? Don Paolo o tua nonna?” chiesi.

“Tutti. Lei ha detto che, se voglio, diventerò un fiore, quando non sarò più in questo mondo. E a me piace. Lo voglio”.

“E noi?”

La domanda l’avevamo fatta tutti e tre insieme.

“Voi pensate quello che volete. Uffa, vi ho detto che il mistero è mistero, ed è bello perché pensi quello che vuoi!”

“Anch’io voglio essere un fiore” dissi, immaginandomi un bel papavero.

“Io un’aquila” disse Francesco, gonfiando il petto.

Tutti guardammo Giulio.

“Io lucertola. È così carina quando corre sui muri”.

“Ma è brutta!” dissi.

Fidelio aprì le braccia.

“Se a lui piace…”

Fidelio pulì per bene il legno che stava lavorando, tolse ogni residuo di polvere, e ci passò sopra della vernice lucida, usando un bel pennello largo.

Francesco e Giulio incominciarono a tossire, come se stessero per morire soffocati.

“Aprite bene la porta e smettetela di protestare,” disse Fidelio.

Portò fuori la tavola verniciata e la collocò su due cavalletti perché si asciugasse. Tornato all’interno del garage, prese da un cassetto quattro maniglie in metallo e le appoggiò sul bancone, mentre noi continuavamo a pensare al mistero.

Quel discorso ci piacque così tanto che dimenticammo quanto ci eravamo ripromessi: tornammo a casa, anche quella volta, senza aver scoperto cosa Fidelio tenesse nascosto sotto il grande telo.

Dopo quel giorno, per quasi due mesi non ci ritrovammo più nel garage di Fidelio: era arrivata l’estate e avevamo lasciato la città, chi per andare al mare, chi in montagna, chi in qualche altra località. 

Scoprimmo il mistero di Fidelio poco dopo il nostro rientro, un sabato mattina, rivedendo quel legno lucido chiudere una grande cassa portata a fatica sulle scale della chiesa da quattro uomini in nero che ne impugnavano le maniglie laterali: erano le maniglie che avevamo visto sul banco del garage.

Fidelio era diventato un fiore. 

CLAUDIA SFILLI