Gaza e Cisgiordania nell’estate 2025 – Quadro, obiettivi israeliani, ambiguità internazionali, scenari prossimi (e la sorte dei palestinesi)
di PAOLO POLETTI ♦
Punto di situazione: dove siamo davvero.
Gaza.
Il disastro di Gaza in cifre:
| Voce | Valore | Fonte / Note |
| Gaza – morti totali (dal 7/10/2023) | 62.122 | Dato MoH Gaza riportato da OCHA (consolidato al 20/08/2025) |
| Gaza – feriti totali | 156.758 | MoH/OCHA (20/08/2025) |
| Morti “in coda al cibo” (27/05 → 20/08) | 2.018 | OCHA – persone uccise durante tentativi di accesso agli aiuti |
| Feriti “in coda al cibo” | 14.947 | OCHA |
| Decessi per malnutrizione | ≈ 290 | Segnalazioni MoH tra 23–24/08; conteggi in aumento |
| Ostaggi in Gaza | ≈ 50 | Stime ONU/Israele (alcuni dichiarati deceduti; salme trattenute) |
| Militari israeliani caduti a Gaza | ≈ 454 | Dati IDF citati da OCHA (da ottobre 2023) |
| Militari israeliani feriti a Gaza | ≈ 2.870 | Dati IDF citati da OCHA |
| Vittime in Israele (7/10 e successivi) | > 1.600 | Fonti israeliane riportate da OCHA |
Legenda:
- OCHA: UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (coordinamento umanitario ONU).
- MoH (Gaza): Ministry of Health di Gaza (dati vittime/feriti).
- IDF: Israel Defense Forces – Forze di difesa israeliane.
Dopo la decisione del governo Netanyahu di invadere la Striscia nell’autunno 2023 e di prolungare le operazioni di terra, il tema non è più se “entrare” a Gaza, ma come restarci. L’alternativa concreta è fra un’occupazione stabile – vale a dire presidi fissi, presa in carico della macchina amministrativa civile (in altre parole, l’assunzione degli obblighi propri della “autorità occupante”) – e un controllo di sicurezza prolungato, in cui Israele mantiene l’ultima parola su frontiere, spazio aereo e marittimo e corridoi logistici (a cominciare dal tratto Gaza – Egitto), entra e esce per operazioni mirate, affida la gestione civile quotidiana ad attori locali o internazionali e subordina la ricostruzione a demilitarizzazione e deradicalizzazione.
All’interno dell’IDF (Israel Defense Forces) su questo passaggio esistono divergenze: una parte del vertice operativo teme i costi e l’usura di un’occupazione classica in un ambiente ultra-urbanizzato, segnato da rete di tunnel e ordigni esplosivi improvvisati (IED) e dalla necessità di impiegare forze consistenti non solo per “ripulire” ma per “tenere”; altri spingono per “consolidare” di più sul terreno.
Al momento prevale la seconda opzione, quella del controllo di sicurezza prolungato senza assunzione diretta del governo civile. Nel frattempo, la crisi umanitaria si è aggravata fino alla dichiarazione di “carestia” nell’area di Gaza City[1]; gli aiuti passano a singhiozzo dai varchi di Zikim e Kerem Shalom e dal corridoio marittimo Cipro – Ashdod: un sollievo reale ma insufficiente finché gli accessi terrestri non saranno stabili. Su questo sfondo, resta aperto un canale negoziale per una tregua di sessanta giorni mediata da Egitto e Qatar, finestra politica reale ma fragile, perché intrecciata al ritmo delle operazioni su Gaza City.
Cisgiordania: l’entrechment amministrativo[2].
Il 20 agosto ha ottenuto l’approvazione finale il piano “E1” (East), che prevede nuove case e infrastrutture per coloni tra Gerusalemme Est e Ma’ale Adumim (insediamento israeliano): in concreto vuol dire collegare la capitale verso est agli insediamenti esistenti, isolare Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e interrompere la contiguità nord – sud del territorio palestinese. Per questo 21 Paesi e l’Unione europea lo hanno condannato come contrario al diritto internazionale, proprio mentre i mediatori arabi tentano di chiudere una tregua. Oltre ai cantieri (con aumento della superficie urbanizzata israeliana, che restringe lo spazio per due Stati), negli ultimi due anni Israele ha anche spostato competenze civili – piani regolatori, dichiarazioni di “terre di Stato”, permessi – da canali militari a uffici civili israeliani: un percorso amministrativo che rende più stabile il controllo anche senza una formale dichiarazione di annessione. In questo segno, il 29 maggio u.s. sono stati approvati 22 nuovi insediamenti/outpost: la conseguenza sono operazioni IDF ricorrenti; episodi di violenza dei coloni; demolizioni mirate in Area C[3], con il peggioramento della sicurezza civile, sfollamenti e tensione latente.
Nel momento in cui scriviamo, Israele si prepara a lanciare l’operazione “Carri di Gedeone 2”, concepita come nuova fase su Gaza City. L’IDF ha diffuso avvisi di evacuazione ripetendo a circa 1,2 milioni di civili ancora ammassati nell’area urbana che “l’evacuazione è inevitabile”, indicando corridoi verso il Sud, il confine con l’Egitto ed i campi-tenda lungo la costa. Sul terreno l’esercito sta completando l’accerchiamento della metropoli in macerie; secondo fonti militari e di stampa, l’avvio sarebbe previsto per il 2 settembre, in parallelo al dispiegamento di circa 60.000 riservisti già allertati. Per una larga parte dei civili ciò si traduce, di fatto, in un’ennesima deportazione interna; nella lettura israeliana è una misura di mitigazione del rischio per i non combattenti e di riduzione delle perdite militari in combattimento urbano. Se l’operazione partisse nei termini descritti, il baricentro del conflitto si sposterebbe su una presa più profonda delle aree urbane residue; non implicherebbe però automaticamente una “occupazione stabile” con assunzione della macchina civile e il dilemma tra occupazione piena e controllo di sicurezza prolungato resterebbe intatto.
Ed infatti, il 29 agosto l’IDF ha già designato Gaza City come “zona di combattimento pericolosa” ed ha annunciato che le “pause tattiche” per facilitare l’ingresso degli aiuti non si applicheranno più all’area urbana, accompagnando così l’avvio della nuova fase operativa sulla città. In parallelo, il ministro Itamar Ben-Gvir ha iniziato a spingere per limitare le proteste (anche in sinagoghe), mentre il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha dichiarato che non ci sarà uno Stato palestinese. Il quadro umanitario si aggrava e in spregio al dichiarato stato di “carestia” ed alla legittima richiesta di accesso senza ostacoli da parte delle agenzie ONU.
Dal punto di vista del diritto internazionale umanitario (DIU), la mera designazione di un’area come “zona di combattimento” non è illecita di per sé; restano però intatti gli obblighi di distinzione, proporzionalità e precauzioni, nonché quello di consentire e facilitare il passaggio rapido e senza ostacoli dei soccorsi imparziali. Con una carestia ufficiale in corso, sospendere l’unico meccanismo pratico finora utilizzato per far entrare gli aiuti senza predisporre alternative equivalenti e sicure risulta presuntivamente incompatibile con tali obblighi; qualora lo scopo o l’effetto prevedibile sia la negazione ai civili di “oggetti indispensabili alla sopravvivenza”, la condotta può rientrare nel divieto di “starvation” (crimine di guerra).
Sul piano diplomatico/ONU si impone quindi la richiesta di ripristino immediato degli accessi, l’attivazione di un “briefing 2417”[4] al Consiglio di Sicurezza e, se del caso, di ulteriori misure presso la Corte internazionale di giustizia relative agli aiuti. Sul piano giuridico-penale è coerente sostenere le indagini della Corte penale internazionale (cooperazione probatoria, sanzioni mirate verso individui responsabili di ostacoli agli aiuti). Sul piano delle policy, si dovrebbero ormai valutare condizionalità su fondi e programmi, riesame di autorizzazioni (licenze) all’esportazione di materiali di armamento e di beni a duplice uso (Reg. UE 2021/821), nonché limitazioni commerciali su beni/servizi legati agli insediamenti, fino a una sospensione selettiva di benefici dell’Accordo di associazione se l’ostacolo persistesse. In parallelo, sul piano umanitario vanno attivati corridoi alternativi via terra/mare con scorte, coordinamento di sicurezza (deconfliction) e monitoraggio indipendente dei convogli, inclusi, ove utile, ponti aerei mirati.
Quali sono gli obiettivi di Israele (dichiarati e “nei fatti”).
La “eradicazione” totale di Hamas, sul piano strategico, è irrealistica: l’organizzazione è una rete politico – militare adattiva e resiliente. L’obiettivo praticabile è ridurne durevolmente leadership, arsenali e logistica, mantenendo alta la deterrenza con colpi ripetuti che degradano risorse, comando e reti.
Ma le azioni a Gaza e il piano E1, possono evocare la teoria della “Grande Israele”.
È questa un’idea ideologico – politica, non un atto di governo: immagina l’estensione della sovranità su tutta la Terra d’Israele (Eretz Israel). Nella prassi attuale ne circolano due versioni: una massimalista e simbolica, di matrice storico-biblica, con i confini “dal Nilo all’Eufrate” (più identità che programma politico); e una politico-concreta, oggi la più rilevante, che mira alla sovranità su tutto ciò che è a ovest del Giordano – dunque Cisgiordania/Gerusalemme Est (talvolta anche Gaza) – con incorporazione degli insediamenti e superamento di fatto della soluzione a due Stati. Le radici culturali affondano nel sionismo revisionista e, dopo il 1967, nei movimenti dei coloni; gli argomenti addotti combinano motivazioni storiche/religiose e ragioni di sicurezza. Per il diritto internazionale, tuttavia, annessioni e insediamenti nei territori occupati sono illegali: da qui nascono le critiche sul rischio di un regime duale e sulla questione demografica.
Il governo israeliano non rivendica ufficialmente la formula “Grande Israele”, ma alcune forze della coalizione la assumono come orizzonte; nel frattempo, politiche di consolidamento amministrativo-burocratico – piani regolatori, legalizzazioni di avamposti, nuove infrastrutture e trasferimenti di competenze civili – producono effetti compatibili con quell’idea senza dichiararla. Ne risulta che, pur partendo da registri diversi (l’ideologia dei partner più radicali e il pragmatismo del premier), i risultati convergono: con E1 e misure affini lo spazio fisico e amministrativo per due Stati si restringe.
A livello operativo, questa traiettoria è sostenuta dalla cosiddetta “campagna tra le guerre” (MABAM – “Ma’arachà bein ha-Milchamot”): si tratta di una dottrina codificata nella Strategia IDF del 2015, che prevede una pressione continuativa sottosoglia fatta di raid mirati, azioni cibernetiche e sabotaggi per colpire le minacce (Iran, Hezbollah, milizie alleate) prima che maturino, preservando la libertà d’azione senza scivolare in una guerra totale. Così, più che per proclamazioni, l’idea di “Grande Israele” prende corpo per accumulo di atti amministrativi e azioni operative che, nel tempo, riducono la praticabilità della soluzione a due Stati.
In questo quadro va letta anche la “sequenza siriana”: i raid nel quadrante di Suwayda sono stati presentati come interventi preventivi a tutela delle comunità druse di fronte al rischio concreto di violenze di massa durante scontri con reti tribali beduine – Sunnite (formazioni decentrate, dagli allineamenti fluidi e spesso intrecciate all’economia di confine – compresi traffici illegali – che, nella contingenza, hanno agito talora in convergenza con apparati pro-governativi).
La sensibilità drusa ha anche una base domestica: i drusi cittadini d’Israele presentano alti tassi di arruolamento e sono ben integrati nelle unità combattenti dell’IDF (lo storico battaglione Herev è stato sciolto nel 2015 proprio per favorire l’integrazione trasversale), il che rende politicamente e militarmente “vicino” ciò che accade ai villaggi drusi oltre frontiera.
Qui si innesta il Golan: Israele controlla e ha annesso le Alture del Golan (1981); l’annessione è nulla per il diritto internazionale (UNSC 497/1981), con la sola eccezione del riconoscimento USA nel 2019. Operativamente, il Golan è la retrovia da cui Israele gestisce deterrenza e prevenzione sul fronte siriano, per dissuadere trasferimenti d’armi verso Hezbollah e prevenire che un’eventuale crisi drusa apra corridoi ostili a ridosso della frontiera.
In sintesi, la MABAM persegue dissuasione attiva e negazione di capacità con interventi rapidi e, se utile, a bassa firma; il prezzo sono i noti rischi di escalation orizzontale, l’attrito giuridico – diplomatico sull’uso extraterritoriale della forza e l’interdipendenza crescente tra Gaza, Siria e lo scacchiere del Mar Rosso.
In questo senso, Gaza tenuta sotto controllo di sicurezza e Cisgiordania consolidata per via amministrativa diventano i pilastri interni di una postura regionale orientata alla prevenzione attiva.
Le posizioni (e le ambiguità) dei principali attori.
Israele afferma che a Gaza non ci sarà reinsediamento e che l’obiettivo è solo la sicurezza; allo stesso tempo, in pratica, punta a tenere le chiavi della sicurezza per un tempo indefinito e in Cisgiordania costruisce continuità intorno a Gerusalemme mentre sposta poteri civili per consolidare il controllo: non annette formalmente, ma rende il controllo stabile.
Gli Stati Uniti ribadiscono la cornice dei due Stati, sostengono aiuti e cessate il fuoco a fasi con scambi di ostaggi e, tuttavia, mantengono il supporto militare a Israele con condizionalità applicate in modo elastico: la retorica normativa è forte, i costi aggiuntivi imposti a Israele restano limitati.
L’Unione europea parla con voce ferma – due Stati, illegalità degli insediamenti, condanna di E1 – e dispone di una leva economico-normativa potenzialmente rilevante (etichettatura e possibili limiti ai prodotti provenienti dalle colonie, sanzioni mirate contro la violenza dei coloni, condizionalità su fondi e programmi); tuttavia è priva di hard power e divisa al proprio interno. Questo rende la pressione discontinua. Nel dettaglio, la Francia mantiene una linea pro- diritto umanitario e critica degli insediamenti ma, tra procedura per disavanzo eccessivo, rendimenti in rialzo e instabilità politica, tende a essere meno assertiva quando si tratta di tradurre i principi in leve materiali; la Germania afferma che non è il momento di riconoscere lo Stato di Palestina e continua a considerare prioritaria la sicurezza di Israele, combinando sostegno politico e aiuti umanitari senza rotture; l’Italia adotta una postura pragmatica: attiva aiuti, sostiene corridoi e richiami al diritto umanitario, ma evita sanzioni o strappi commerciali, controlla l’export militare “nuovo” e mantiene continuità sui contratti esistenti.
Nel mondo arabo l’Egitto resta mediatore indispensabile e, al tempo stesso, “muro tagliafiamma”: proclama solidarietà ai palestinesi e rifiuta trasferimenti forzati nel Sinai, ma blinda i confini e dirotta gli aiuti su varchi ritenuti più gestibili; il Qatar è co-mediatore perché ospita a Doha l’ufficio politico di Hamas e ne mantiene il canale di contatto (investe da anni in reti islamiste politiche – fratellanza musulmana e affini – come strumento di influenza e di hedging regionale). Ciò gli garantisce leva diplomatica e lo rende difficilmente disposto a “tagliare i ponti” con Hamas, pur modulando visibilità e finanziamenti per tenere insieme il rapporto con Washington e il proprio profilo regionale; l’Arabia Saudita mantiene in agenda la normalizzazione con Israele ma la condiziona a passi credibili sul dossier palestinese. Intanto, negozia con gli Stati Uniti un pacchetto di garanzie (sicurezza, cooperazione nucleare civile), in un approccio che, in realtà, è “Palestina? Adesso no, forse domani”; gli Emirati mantengono una cooperazione strategica con Israele – economia, tecnologia e cooperazione di sicurezza a basso profilo – compensandola con un forte profilo umanitario e con critiche a E1 per gestire il costo reputazionale; la Giordania difende i luoghi santi e parla duro contro l’idea di una “Grande Israele”, ma conserva il coordinamento di sicurezza per evitare spillover e crisi interne. Russia e Cina, infine, sostengono cessate il fuoco e due Stati, ma in chiave pragmatica: Mosca mantiene la deconfliction con Israele in Siria e usa il dossier per logorare Washington; Pechino pratica una mediazione “a basso costo” evitando pressioni sui partner energetici. La somma di queste posture produce una pressione frammentata: molti enunciano principi e de-escalation, pochi impongono azioni e costi credibili. Ne derivano per Israele tempo, a Gaza, e spazio, in Cisgiordania, per consolidare i propri obiettivi.
Cosa può succedere nei prossimi mesi (e che sorte per i palestinesi).
A Gaza si intravedono tre binari: una tregua a fasi che offrirebbe un breve sollievo umanitario, consentirebbe scambi tra ostaggi e prigionieri e aprirebbe a una ricostruzione vincolata; in alternativa, una “frizione controllata” fatta di attacchi e ritiri ricorrenti dell’IDF e di controllo dei nodi logistici; oppure, sul piano teorico, un salto verso l’occupazione stabile, scenario possibile ma più costoso e rischioso per perdite, obblighi legali ed esposizione internazionale. In ogni caso, la via negoziale resta la più efficace per gli ostaggi, mentre le operazioni speciali funzionano solo quando l’intelligence offre un vantaggio netto. In Cisgiordania, senza uno stop a E1 e alle legalizzazioni, ogni mese, di nuovi piani e nuove strade, sposta più lontano la possibilità di disegnare una mappa contigua per due Stati. Qui l’Unione europea potrebbe essere, per i palestinesi, la sponda più concreta sul piano umanitario e istituzionale – fondi, accessi, missioni tecniche, condizionalità – ma perché il suo ruolo pesi davvero deve coordinarsi al proprio interno e trasformare le parole in costi reali quando le regole vengono violate.
Quanto alla sorte dei palestinesi, uno scenario di deportazione di massa appare poco credibile per costi, veti regionali e divieti di diritto internazionale; risultano invece più realistici scenari di marginalizzazione strutturale e di diaspora per logoramento, alimentati da insicurezza cronica, restrizioni alla mobilità, ostacoli amministrativi e compressione economica. In parallelo, il quadro tende a cristallizzarsi: Gaza “controllata” sul versante della sicurezza e Cisgiordania “incorporata di fatto” pezzo dopo pezzo, per via urbanistica e burocratica.
La verità senza infingimenti.
Al netto delle dichiarazioni, nessuno fra i grandi attori sembra disposto a spendersi davvero oltre la soglia di costi e rischi che la causa palestinese comporta. Nel mondo arabo, la traiettoria di medio periodo resta la normalizzazione (selettiva) con Israele: per molte capitali del Golfo e del Nord Africa significa accesso a tecnologia, ricerca, finanza, energia/acqua, difesa e logistica, oltre a legami più stretti con Washington. Ciò non cancella la “questione palestinese”, ma la declassa a variabile condizionante più che determinante: rimane strumento negoziale e simbolico, mentre la priorità pratica è lo sviluppo e la sicurezza nazionale. Anche dove la normalizzazione è congelata “per ora” (Riad), l’opzione resta sul tavolo in vista di condizioni politiche più favorevoli. Per questo, più che per proclamazione, l’idea di una “Grande Israele” di fatto tende a materializzarsi per accumulo di decisioni amministrative e cantieri: le chiavi della sicurezza di Gaza restano in mano a Israele, mentre il controllo israeliano su porzioni chiave della Cisgiordania si cristallizza, rendendo sempre più arduo tornare a una soluzione a due Stati contigui. La deportazione di massa è poco credibile; sono invece plausibili marginalizzazione strutturale e diaspora per logoramento. In questo quadro, l’Unione europea rimane – nonostante limiti e distinguo – il partner più utile ai palestinesi sul versante umanitario e istituzionale. Ma, come ha richiamato Mario Draghi a Rimini, senza passare dallo scetticismo all’azione e senza trasformare la retorica in misure con effetti reali e verificabili su chi viola le regole, anche l’UE difficilmente potrà cambiare la traiettoria attuale degli eventi.
[1] Sulla base di una valutazione congiunta di FAO, WFP, OMS (WHO) e UNICEF, il sistema Integrated Food Security Phase Classification (IPC) ha dichiarato la “carestia” (Fase 5) nel governatorato di Gaza (Gaza City): ciò indica insufficienza alimentare estrema, malnutrizione acuta e mortalità in eccesso. Questa classificazione offre un riferimento tecnico invocabile in sede diplomatica e presso le Corti internazionali (in particolare: Corte Internazionale di Giustizia e Corte Penale Internazionale) per chiedere un accesso umanitario senza ostacoli e verificare la conformità delle operazioni militari al diritto internazionale umanitario.
[2] Rendere stabile e difficile da invertire il controllo su un territorio senza annetterlo formalmente, usando burocrazia e infrastrutture: piani regolatori, dichiarazioni di “terre di Stato”, permessi, legalizzazione di avamposti e nuove strade/servizi.
[3] Aree della Cisgiordania: Area A = città palestinesi (ANP ha il controllo civile e di sicurezza); Area B = villaggi (ANP civile, sicurezza condivisa); Area C = porzione della Cisgiordania (circa il 60%) che, dagli Accordi di Oslo II (1995), è rimasta sotto pieno controllo israeliano sia di sicurezza sia civile/amministrativo (pianificazione urbanistica, permessi edilizi, “terre di Stato”, infrastrutture). Qui ricadono la gran parte degli insediamenti israeliani delle strade di bypass e delle riserve di territorio; le comunità palestinesi che vi vivono dipendono da permessi israeliani per costruire o ampliare, con rischio di ordini di demolizione. Lo status doveva essere provvisorio in attesa dell’accordo finale, ma di fatto perdura.
[4] “Briefing 2417”: una seduta del Consiglio di Sicurezza ONU richiesta ai sensi della Risoluzione 2417 (2018) su conflitti e insicurezza alimentare.
PAOLO POLETTI

Ringrazio per questa rigorosa analisi dei fatti supportata da evidenze e da osservazioni frutto di robusta conoscenza di questo tormentato “locus” geografico ed ideologico.Ho letto con grande interesse. Maria Zeno
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Molto apprezzabile l’analisi puramente oggettiva della situazione. Per prendere posizione e agire di conseguenza è necessario prima capire: in tal senso questo contributo è prezioso. Grazie
Ettore Falzetti
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