L’intesa (fragile) Trump - von der Leyen: nuovi retroscena, impatti sull’Italia e riflessi sull’economia USA”.

di PAOLO POLETTI ♦

  1. Dalla «stretta scozzese» al balletto dei testi.

Il 27 luglio Donald Trump e Ursula von der Leyen si sono incontrati fissando:

–       un dazio generalizzato al 15 % (confermato il 50 % su acciaio/alluminio)[1];

–       acquisti europei di energia e armamenti USA per 750 mld $ in tre anni;

–       investimenti UE negli Stati Uniti per 600 mld $ entro il 2028.

Il 29 luglio, però, Bruxelles ha diffuso un testo diverso da quello pubblicato da Washington, precisando che l’intesa «non è giuridicamente vincolante» e che restano “vive” le contromisure UE per 93 mld €.

Il vertice si è tenuto a Trump Turnberry, a Turnberry (Scozia), un lussuoso complesso alberghiero e golfistico che il presidente USA ha acquistato nel 2014 attraverso la sua Trump Organization. Fin da subito la scelta della sede ha sollevato perplessità: incontrare la massima autorità dell’Unione Europea in una struttura commerciale intestata allo stesso Trump è stato letto da molti come un evidente conflitto d’interessi. Non è solo questione di etichetta – anche se, in diplomazia, i simboli contano – ma di sostanza: un evento di portata internazionale in un resort privato offre al proprietario un ritorno mediatico immediato e, almeno potenzialmente, un vantaggio economico (più prenotazioni, più pubblicità gratuita, tariffe corporate lievitate).

Sul piano dell’«optics», l’immagine è stata ancora più problematica: la presidente della Commissione che vola in Scozia per “firmare” un compromesso sfavorevole su terreno scelto dall’interlocutore più forte ha alimentato la narrativa di un’Europa costretta a piegarsi. Commentatori e think‑tank, dal Financial Times al Guardian, hanno parlato di «capitolazione» o «autogol comunicativo», mentre alcuni governi europei – Francia in testa – hanno criticato apertamente la decisione di non pretendere una sede neutra, magari istituzionale (Bruxelles, un quartier generale NATO, perfino un palazzo governativo britannico).

Sul versante etico - «self‑dealing», dicono gli anglosassoni - si è ricordato il precedente del G7 che nel 2018 Trump voleva ospitare al suo National Doral in Florida: l’idea fu abbandonata proprio per le accuse di voler trasformare un summit internazionale in una vetrina personale. A Turnberry la storia si è ripetuta, con l’aggravante che, stavolta, l’ospite straniero ha accettato senza opporre resistenza.

Non sorprende quindi che media europei e statunitensi, insieme ai parlamentari scozzesi (preoccupati anche per i costi di sicurezza ricaduti sul bilancio locale), abbiano bollato l’iniziativa come inopportuna. Tecnicamente legittima – le norme non vietano incontri in proprietà private – sì, ma politicamente discutibile: offre un doppio dividendo al presidente e indebolisce la percezione di parità tra le parti negoziatrici.

  1. Cosa ha ceduto (e ottenuto) l’Europa.

Un’analisi di Econopoly/Il Sole 24 Ore quantifica così il compromesso:

–       dazio “all‑in” al 15 %, ossiacomprendente i dazi doganali già esistenti (la tariffa MFN[2] che gli Stati Uniti applicano normalmente a quel bene). Di conseguenza l’aumento effettivo non è 15 punti, ma la differenza tra il 15 % e l’aliquota precedente.

Esempi:

  • per la meccanica di precisione, che pagava in media il 4%, il rincaro reale è +11punti percentuali (15 – 4);
  • per i prodotti agro‑alimentari e farmaceutici che erano esenti, il balzo è l’intero +15%;
  • per le autovetture europee, tassate al 27,5%, la nuova aliquota rappresenterebbe in realtà una riduzione di 12,5 punti.

Restano fuori da questo tetto i metalli, per i quali la Casa Bianca ha confermato il dazio separato del 50%;

–       esenzione parziale per aerospazio, chimica fine e taluni prodotti agricoli;

–       impegni UE: 750 mld $ di energia USA + 600 mld $ di IDE; possibile nuovo dazio USA sui semiconduttori.

L’articolo parla esplicitamente di «Caporetto» negoziale per Bruxelles e avverte che l’impatto sul PIL dell’euro‑zona potrebbe essere –0,2/–0,4 pp[3] già nel 2026.

  1. Le pressioni su von der Leyen.

Prima di distribuire colpe, vale la pena ricordare che la presidente della Commissione — pur criticabile per aver gestito una trattativa «in solitaria», spesso senza l’appoggio pieno del suo stesso staff né un vero mandato dei Ventisette — si è mossa dentro una camera di pressione politica che veniva soprattutto dalle capitali europee, Berlino in testa.

In Germania, il cancelliere Friedrich Merz ha fatto da sponsor pubblico dell’accordo fin dai primi bozzetti: per lui l’intesa era (ed è) «il male minore» per salvare l’auto tedesca e i distretti dell’acciaio. Le riserve che ha espresso in conferenza stampa — «ci sono punti da migliorare» — sono lette più come diplomazia che come reale dissenso; in privato, il suo governo e il BDI (la Confindustria tedesca) chiedevano di chiudere a qualunque costo pur di evitare il famigerato 30 %.

A queste spinte si sono sommate:

–       le paure dell’industria siderurgica europea, che temeva l’introduzione immediata di quote‑volume punitive;

–       la minaccia (mai smentita) di un disimpegno militare USA dall’Est Europa, agitata da Washington come leva negoziale;

–       le pressioni, più silenziose ma reali, di altri governi “export‑dipendenti” - Olanda per la chimica fine, Irlanda per i farmaci, Italia per la meccanica - che pur criticando il metodo preferivano un compromesso rapido allo shock di una guerra commerciale.

Insomma, von der Leyen ha certamente commesso errori di regia, ma sarebbe fuorviante ignorare il contesto: era stretta fra il martello di Trump e l’incudine dei partner europei più esposti. Questo non assolve le leggerezze sul metodo né la scelta — infelice — di sedersi a Turnberry, però spiega perché Bruxelles abbia finito per accettare un accordo così sbilanciato.

  1. Effetti attesi per l’Italia (finestra 2025‑2026):
Settore chiave Export 2024 → USA Nuova tariffa Impatto stimato 12 mesi*
Agro‑alimentare 7,8 mld € 15 % (prima 0‑15 %) –0,9 ÷ –1,2 mld €
Moda‑tessile 9,5 mld € 15 % (prima 11 %) –1,0 ÷ –1,3 mld €
Pharma 10,2 mld € 15 % (prima 0 %) –0,8 ÷ –1,1 mld €
Meccanica fine 12,1 mld € 15 % (prima 4,8 %) –1,4 ÷ –1,8 mld €

*Stime basate sul coefficiente medio elasticità‑dazi per beni “premium”.

Misure in cantiere (MEF e ICE):

–       voucher “Made in USA‑Ready” per le PMI (credito d’imposta 30 % su certificazioni e logistica)[4];

–       fast‑track su corridoi Canada/Messico per by‑pass tariffario;

–       tavolo deroghe entro ottobre (generici pharma, apparecchi medicali, luxury).

  1. L’intesa vacilla… e Trump arma i dazi.

Il Presidente brandisce i dazi come un’«arma universale», pronta a colpire di volta in volta partner diversi dal Canada, richiamato sulla linea da tenere sulla questione palestinese, al Brasile, messo sotto pressione mentre a Brasília si giudica Bolsonaro, per piegare le loro scelte di politica estera a esigenze di consenso interno. Il rischio, segnalano più fonti UE, è che la bozza sia usata da Trump come precedente unilaterale: se i 27 non ratificano entro 5 ottobre, potrebbero riesplodere i dazi al 30 % e nuovi balzelli settoriali.

6. Riflessi sull’economia USA: auto e inflazione in prima linea.

Secondo un approfondimento del Financial Times, Ford, GM e Stellantis prevedono che il nuovo regime doganale brucerà circa 7 miliardi di dollari di liquidità nel 2025: «Le cosiddette Big Three stanno diventando le maggiori perdenti nella guerra dei dazi di Trump».

Sta di fatto che la retorica protezionista promette fabbriche e posti di lavoro, ma i numeri raccontano altro:

–       trasferimento dei costi: dopo averli assorbiti per qualche trimestre, giganti come Procter & Gamble, Walmart, Adidas, Mattel, Hasbro stanno alzando i listini;

–       tempistica: «il pieno effetto si riverserà sui consumatori entro otto mesi» (Goldman Sachs);

–       salasso medio: lo Yale Budget Lab stima un “imposta” da dazi pari al 18,3 % sui beni importati, che si tradurrà in 2 400 $ l’anno per famiglia nel 2025 (forse 2 100 $ se la Fed taglierà i tassi);

–       settori già colpiti: mobili, giocattoli, caffè (+10 % in molti bar), elettronica (+5 % sul 2024). Nel breve il cibo salirà del 3,4 %, i prodotti freschi del 7 %; l’abbigliamento invernale potrebbe rincarare del 40 %.

Alla fine, saranno i consumatori americani a pagare la quota maggiore della guerra tariffaria: una stangata che aggiunge 0,4 punti di inflazione “core” frena la domanda interna e costringe la Fed alla cautela sui tassi.

Un’analisi di Econopoly (Il Sole 24 Ore) aggiunge che l’intesa con l’UE «avrà un effetto inflazionistico lieve, ma gli Stati Uniti rimangono lontani dalla recessione».

Lettura macroeconomica (spiegata passo per passo).

Legenda:

–       CPI (Consumer Price Index): indice dei prezzi al consumo;

–       Core CPI: CPI al netto di energia e alimentari, utilizzato per valutare la pressione inflazionistica “di fondo”;

–       Pass‑through: meccanismo con cui costi aggiuntivi (es. dazi) si trasferiscono lungo la filiera fino al prezzo finale;

–       Fed Funds Rate: tasso di riferimento della Federal Reserve; determina il costo del denaro a breve negli USA.

Indicatore Stima aggiornata Perché è importante Implicazioni concrete
Crescita del PIL USA 2025‑2026 +1,0 ÷ 1,2 % l’anno [5](contro il +1,6 % pre‑dazi) Misura la velocità di espansione dell’economia statunitense e, quindi, la capacità di generare reddito e occupazione. I dazi riducono domanda interna ed export, ma non determinano una recessione: la crescita rallenta, senza arrestarsi del tutto.
Inflazione di fondo (core CPI) +0,4 pp aggiuntivi ogni anno (sovrapposti al 2,3 % atteso) Il core CPI esclude energia e alimentari per cogliere la dinamica “strutturale” dei prezzi, su cui la Fed calibra i tassi. Prodotti come auto, abbigliamento ed elettronica diventeranno più cari: le imprese scaricano parte del costo dei dazi sui consumatori (pass‑through).
Politica monetaria – tasso Fed Funds Pressioni politiche per –300 bps[6] di allentamento; il Board resta prudente per timore di una “spirale inflazionistica da dazi”. Il livello dei tassi condiziona costo dei mutui, credito alle imprese e valutazioni di Borsa. Se il core CPI resta elevato, la Fed ridurrà i tassi più lentamente: mutui, leasing auto e finanziamenti aziendali resteranno relativamente costosi, con riflessi su consumi, investimenti e mercati.

In sintesi: il protezionismo aiuta pochi settori a scapito di altri (le case automobilistiche ne pagano il prezzo), aggiunge un po’ di benzina all’inflazione e costringe la Fed a muoversi con cautela. Il rischio di recessione rimane contenuto, ma la combinazione di crescita più lenta e prezzi più alti rende il quadro economico americano meno brillante di quanto sarebbe stato senza i nuovi dazi.

7. Che succede se l’accordo salta davvero? – scenari, meccanismi di attivazione e possibili scossoni sui mercati.

Snodo critico Cosa scatterebbe Perché è rilevante Ripercussioni attese (entro 6‑12 mesi)
“Automatic trigger” USA (clausola di re‑instatement) –       dazio generalizzato al 30 % su tutte le merci Ue;

–       ritorno della quota‑volume su acciaio (4,3 Mt/anno) e alluminio (1,0 Mt/anno) al posto dell’attuale tetto del 50 %.

È la leva di pressione principale di Washington. Una volta saltato il testo provvisorio, il Presidente può riattivare le vecchie aliquote con un semplice ordine esecutivo: nessun voto del Congresso è necessario. –       calo dell’export di beni Ue verso gli Stati Uniti: ‑80 ÷ 90 miliardi di euro nel primo anno (‑15 ÷ 17 % rispetto ai circa 532 miliardi di export attuali);

–       Germania e Italia assorbirebbero oltre metà del colpo, con un taglio di 0,3‑0,4 p.p. di PIL 2026;

–       alcuni settori (auto premium DE, moda‑lusso IT) vedrebbero margini azzerati o rilocalizzazioni accelerate.

Contromisure UE (“pacchetto 93 mld €”) –       tariffe mirate fino al 25 % su: whisky & bourbon, velivoli civili, macchinari agricoli, hi‑tech di consumo, piattaforme digitali USA;

–       possibile sospensione di appalti pubblici a contractor statunitensi in settori energia‑difesa (clausola Buy European).

Bilancia l’impatto sul manufatto europeo e alza il costo politico interno per la Casa Bianca (Stati agricoli e distretti aeronautici). –       l’export USA colpito vale ≈ 100 mld $;

–       lo Stato del Kentucky (bourbon) e lo Stato di Washington (Boeing) diventano round‑table lobby anti‑dazi;

–       Airbus vs Boeing: l’UE potrebbe recuperare quote di mercato negli aerei “wide‑body”.

“No‑deal shock” sui mercati –       il VIX – indice della volatilità implicita sullo S&P 500, barometro della paura finanziaria – incorporerebbe un +35 % rispetto ai livelli di agosto;

–       spread corporate e governativi si allargherebbero.

Il VIX misura il costo delle opzioni di copertura: più alta la probabilità di oscillazioni brusche, più caro è assicurarsi. –       se il VIX passasse, per esempio, da 17 a 23, il rischio percepito sugli asset azionari globali salirebbe di colpo;

–       fuga verso i Treasury (rally dei titoli a 10 anni) ma, se la guerra di dazi si protrae, gli investitori potrebbero pretendere extra‑rendimenti (“term‑premium”) per finanziare il maxi‑deficit USA;

–       in Europa: euro volatile, BTP‑Bund in tensione (+20‑30 bps) per i Paesi con alto debito e grande esposizione all’export.

  1. Perché quei 750 mld $ di acquisti e 600 mld $ di investimenti appaiono irrealistici:

–       ordini di grandezza fuori scala. Nel 2024 l’UE ha comprato dagli USA energia (soprattutto GNL e greggio) e armamenti per circa 110 mld $ complessivi; triplicare la cifra ogni anno per tre anni significherebbe assorbire quasi tutto l’export energetico americano disponibile e raddoppiare di colpo il valore delle vendite militari oltreoceano;

–       limiti fisici e infrastrutturali. Il sistema europeo dei rigassificatori lavora già vicino all’80 % della capacità; nemmeno i progetti in costruzione permetterebbero di gestire volumi aggiuntivi per oltre 150 mld $ l’anno. Sul lato difesa, i bilanci nazionali UE (≈ 240 mld €) non reggerebbero un extra‑outlay di 170‑180 mld $ annui a favore di fornitori statunitensi senza sacrificare totalmente programmi interni;

–       decisioni in mano a privati e Stati membri. Bruxelles non può “ordinare” né agli importatori di gas né ai governi di comprare F‑35 invece di sistemi europei; men che meno può garantire che le multinazionali versino 600 mld $ di IDE (Investimenti Diretti Esteri) negli USA: i flussi annui di investimento europei si aggirano sui 120 mld $ e dipendono da scelte aziendali, non da trattati politici;

–       coerenza con la transizione verde. Impegnarsi a lungo termine su idrocarburi statunitensi contraddice l’agenda Fit‑for‑55 e gli obiettivi di riduzione delle emissioni, rendendo poco credibile la promessa sul piano regolatorio e finanziario.

Proprio per questi scostamenti rispetto ai dati storici, più d’un commentatore ha bollato le cifre come “numeri da comunicato stampa” destinati a ridimensionarsi quando si discuteranno i dettagli operativi.

9. Come reagire (in ipotesi):

–       più difesa europea (e meno ipocrisia). Spendere di più, ma anche pretendere voce in capitolo: dipendere da una super‑potenza «dalla politica estera volatile» è strategicamente imprudente;

–       Global minimum tax senza sconti. Il 15 % OCSE deve valere per tutti, anche per le big USA;

–       Digital tax europea. Il bilancio Ue non può rinunciare a una fonte di gettito perché “sgradita” a Washington;

–       coalizione delle democrazie liberali. Un “nucleo ideale” (Ue, Regno Unito, Canada, Giappone…) che difenda multilateralismo, clima, sanità globale, al di là dei veti dei «cavalli di Troia» interni;

–       no ai rimborsi a pioggia. “Ristorare” le imprese danneggiate dai dazi con soldi pubblici equivarrebbe a pagare due volte l’errore di aver ceduto troppo in fretta.

  1. Ultim’ora.

Nel pomeriggio del 4 agosto Bruxelles ha tirato il freno d’emergenza: la Commissione ha annunciato che il “pacchetto” da 93 miliardi di euro di dazi di ritorsione contro Washington non scatterà più il 7 agosto, ma resterà nel cassetto per centottanta giorni. L’idea – spiegano i portavoce – è «creare lo spazio politico e tecnico necessario a tradurre la stretta di mano di Turnberry in un accordo giuridicamente vincolante»; in altre parole, un cessate‑il‑fuoco per permettere ai negoziatori di mettere nero su bianco dettagli e deroghe.

La sospensione non sposta però la “dead‑line” fissata nella bozza Trump‑von der Leyen: se entro il 5 ottobre i Ventisette non ratificheranno il testo definitivo, il presidente americano potrà comunque riportare il dazio dal 15 % al 30 % con un ordine esecutivo, e allora Bruxelles rimetterebbe subito in pista le proprie contromisure. In pratica l’Europa regala a Washington un gesto di distensione estiva – niente balzelli su whisky, aerei e Big Tech – ma incassa soltanto una promessa di buona volontà. I settori italiani più esposti (vino, moda, agro‑alimentare) tirano un sospiro di sollievo temporaneo; le imprese guadagnano qualche settimana per organizzarsi, ma sanno che l’autunno resta il vero momento della verità. Finché l’accordo non sarà firmato e ratificato, la guerra dei dazi resta solo rimandata, non scongiurata.

 

  1. Conclusioni (provvisorie):

–       compromesso costoso: l’Europa ha evitato il 30 %, ma ha “istituzionalizzato” un 15 % che colpisce Italia e Germania;

–       Von der Leyen sotto assedio, ma anche vittima di pressioni tedesche e militari USA;

–       agenda italiana: ottenere deroghe, diversificare export e sfruttare incentivi “local content” statunitensi;

–       scenario USA: leggera frenata della crescita, aumento dei prezzi di consumo – un mix che complica i piani Fed.

La trattativa è tutt’altro che chiusa. Settembre e ottobre saranno i mesi‐verità: o l’intesa diventa trattato vincolante (con possibili correzioni di settore) o si riapre la guerra dei dazi.

[1] Il 15 % indicato nella bozza è l’aliquota “all‑in”, ossia comprende i dazi doganali già esistenti (la tariffa MFN che gli Stati Uniti applicano normalmente a quel bene. La Most‑Favoured‑Nation è l’aliquota doganale “standard” che un Paese membro del WTO applica a tutte le importazioni provenienti dagli altri membri, salvo accordi preferenziali più favorevoli). Di conseguenza l’aumento effettivo non è 15 punti, ma la differenza tra il 15 % e l’aliquota precedente.
Esempi:
–        per la meccanica di precisione, che pagava in media il 4 %, il rincaro reale è +11 punti percentuali (15 – 4);
–        per i prodotti agro‑alimentari che erano esenti, il balzo è l’intero +15 %;
–        per le autovetture europee, tassate al 27,5 %, la nuova aliquota rappresenterebbe in realtà una riduzione di 12,5 punti.
Restano fuori da questo tetto i metalli, per i quali la Casa Bianca ha confermato il dazio separato del 50 %.
[2] MFN (Most‑Favoured‑Nation) è l’aliquota doganale “standard” che un Paese membro del WTO applica a tutte le importazioni provenienti dagli altri membri, salvo accordi preferenziali più favorevoli.
[3] pp – punti percentuali: differenza assoluta fra due valori percentuali (es.: dal 2 % al 3 % = +1 pp).
[4] Credito d’imposta del 30 % (fino a 50‑60 mila € per impresa) che il MEF, insieme a ICE e MIMIT, intende riconoscere alle PMI per coprire spese di certificazione FDA/UL (Food and Drug Administration e Underwriters Laboratories, Enti certificatori) adeguamento di etichette e packaging, consulenze doganali e logistiche, registrazione di marchi/brevetti e apertura di magazzini di prossimità negli USA; procedura telematica semplificata, cumulabile con Nuova Sabatini e Transizione 4.0, dotazione iniziale prevista 200 milioni di €.
[5] Intervallo di consenso Fed: mediana delle proiezioni rilasciate dai membri del Federal Open Market Committee (FOMC) e dai principali previsori privati (Bloomberg Survey, WSJ Economic Forecast).
[6] bps – basis points (punti base): 1 bp = 0,01 pp. Un taglio di 300 bps equivale a 3 pp (es.: dal 5 % al 2 %).

PAOLO POLETTI