“AGORA’ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – LORO DUE … E POI?
di STEFANO CERVARELLI ♦
A Wimbledon, la settimana scorsa è andato in scena l’ennesimo atto di una rivalità che sta contraddistinguendo il presente del tennis maschile, e non vado molto lontano dalla realtà se aggiungo che ne segnerà anche il futuro.
Jannik Sinner e Carlos Alcaraz hanno disputato sull’erba del tempio del tennis, la loro tredicesima sfida, un duello quindi che al momento non ammette diversità di sorta se non nei comprimari che puntualmente vengono eliminati dai due fuoriclasse.
Una “singolar tenzone” ( la frase sembra più che adatta) vede lo spagnolo condurre otto a cinque.
Si tratta indubbiamente di un duello trasformatosi in un canovaccio, un copione oramai ricorrente, di una narrazione sportiva – ma credo anche umana – che sicuramente affascina ma che contiene anche il rischio di diventare monocorde.
Basti pensare che a soli 22 e 21 anni i due sono già, come dire? il centro di gravità di uno sport che alle loro spalle, purtroppo, fatica a rinnovarsi, almeno sicuramente nell’atto più importante: la finale.
In semifinale l’italiano e lo spagnolo non hanno avuto difficoltà a eliminare campioni che rispondono al nome di Djokovic e Fritz. Il primo giunto a 38 anni, seppur sempre competitivo, sembra oramai aver imboccato la strada che conduce al ritiro.
Alcaraz, prima di Wimbledon, aveva sconfitto Sinner per cinque volte di fila; il suo tennis vive di slanci e onde lunghe, ma anche di improvvisi “vuoti” come dimostrato nell’ultima finale dove è stato letteralmente “strapazzato” da Sinner.
I due sono, senza ombra di dubbio, in possesso di un talento puro, complementari nel gioco ed opposti nel carattere; rigoroso e calcolatore l’italiano, istintivo e teatrale lo spagnolo.
Il problema per ricondurre il discorso sul binario iniziale, non è certo la qualità del loro tennis – altissima – ma ciò che gira intorno a loro; per dirla meglio quello che manca intorno a loro, in due parole, non ci sono avversari credibili, in grado di spezzare la monotonia della loro superiorità che – come dicevo – prefigura un’egemonia che possiamo affermare non più nascente ma bella che nata.
L’impressione che si riceve è che nel circuito del tennis maschile si sia entrati in una nuova era bipolare dopo aver avuto Federer-Nadal, Djokovic-Murray. Un dominio dei Fab Four che si è retto su una competizione plurima, equilibri mutevoli e scuole diverse; ora questa nuova fase appare più “povera”, più stretta, più fragile, perché oltre Sinner e Alcaraz vi è poco, per non dire nulla. I russi e i tennisti di origine russa, sembrava che stessero per prendere in mano la guida del circuito, invece così non è stato.
Danil Medvedev, definito campione “alieno” e “analitico” sembra essere entrato da tempo in un labirinto emotivo dal quale non riesce ad uscire e considerate che è stato numero uno al mondo, vincendo degli Slam.
Andrej Rublev, talento indiscusso, ora è un caso psicologico più che tecnico, fatica nei match che contano, piange a fine partita, trasformando il campo nel riflesso della propria inquietudine interna.
Sasha Zverev, tedesco di sangue russo, già numero due al mondo sembra aver smarrito se stesso, causa una depressione della quale ha fatto pubblica ammissione dopo averla tenuta nascosta per un lunghissimo periodo; il risultato è che il talento ancora c’è: manca la tenuta, la forza mentale. Comunque nei tornei dello Slam il suo bilancio, ad oggi, è confortante. C’è poi da dire che Zasha soffre di diabete, ma nonostante questa patologia è riuscito a compiere imprese che poi, però, lo hanno fiaccato dal punto di vista psicologico.
Per concludere questa particolare carrellata di campioni momentaneamente “assenti ” dai maggiori palcoscenici tennistici, devo ricordare Stefanos Tsitsipas: greco per passaporto ma russo per madre e determinazione tennistica; autore di un tennis elegante, in possesso di un ego smisurato da qualche tempo, però, il suo rendimento si è un po’…appisolato tra le braccia di un godimento postumo: vive di fiammate improvvise, senza continuità.
Dietro questi, che rimangono sempre un’ “élite” sembra esserci il buio squarciato da qualche bravo giovane capace di prodezze, tra i quali i nostri giovani italiani; troppo poco per cercare gli eredi, se così posso dire, vista la giovane età e la bravura eccezionale di Sinner e Alcaraz.
Holger Rune che sembrava destinato a una carriera fulgida, con la forza e l’irruenza dei suoi 19 anni, ha cambiato dieci allenatori in due stagioni. Un chiaro segnale non certo di ricerca, ma di smarrimento.
Così Wimbledon, un tempo torneo delle imprese e delle leggende, ci ha consegnato una finale già vista e rivista, che, se non subentrano fatti e personaggi nuovi, è destinata a ripetersi non so immaginare per quante volte.
Facile dunque dire che dietro Alcaraz e Sinner attualmente c’è solo un vuoto tecnico ma anche mentale, un vuoto questo che preoccupa più dei loro colpi vincenti; questo, a par mio, è un paradosso del tennis moderno, molto giovane, al limite dell’adolescenza, ma anche abbastanza chiuso.
Perché?
Perché le rivalità per essere veramente epiche hanno bisogno di varietà, di duelli e protagonisti diversi.
Ogni generazione precedente ha avuto i suoi triangoli o quartetti di atleti ed a “scontrarsi” in finale non sempre erano gli stessi. Ogni generazione precedente ha avuto i suoi contrasti di stile, le diverse personalità che davano agli incontri un tocco d’imprevedibilità, diciamo anche di colore: c’era sempre qualcuno pronto a regalarci una sorpresa.
Oggi assistiamo a incontri dei quali lo scenario sembra essere già scritto; certo a mancare non sono i colpi, è il contesto, verrebbe da dire, il clima, direi quasi asettico, nel quale si gioca, ravvivato dal calore del pubblico a volte però eccessivo e non in linea con il tradizionale stile di questo sport.
Sinner e Alcaraz colpevoli? Assolutamente no, il loro impegno, la qualità del loro tennis, la loro professionalità sono fuori discussione, sono doti oltremodo ammirevoli, ma un duello ripetuto molte volte alla fine annoia.
A Wimbledon abbiamo visto che dietro questi due ragazzi non c’è, ancora, nessuno in grado di spezzare il loro monopolio.
Allora, per concludere, azzardo a prevedere come sarà il tennis del futuro: tecnicamente bellissimo ma prevedibile, molto prevedibile, al limite della noia.
STEFANO CERVARELLI

L’analisi proposta di Stefano mi pare eccellente e del tutto condivisibile. Mi ha colpito in particolare il riferimento ai disturbi psicologici di molti campioni. Insegna che lo sport può essere terapeutico (soprattutto nel caso della depressione) ma può anche stimolare sindromi negative (ansia da prestazione, ipercompetitività ecc.). Le biografie di non pochi atleti possono essere oggetto di riflessione in proposito. Nicola R. Porro
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D’accordo sia con l’articolo di Stefano sia con il commento di Nicola, soprattutto per quanto riguarda il binomio perfezione tecnica/ fragilità.
Esco dal campo ( the court, visto che parliamo di tennis) e faccio una riflessione legata ad un altro ambito, la musica…in questi ultimissimi anni quante crisi di auto ed etero riconoscimento: Angelina Mango che “si prende il suo tempo”, rapper che scelgono in silenzio dell’anno sabbatico, gli acclamati Maneskin che perdono per strada il frontman Damiano David che a ruota libera cambia look canta da solo esce e rientra in un personaggio ma…almeno per ora sembra stia segnando il passo.
Forza e fragilità, rapide ascese e repentine discese, sembra ormai un paradigma.
Maria Zeno
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