LA PROVA
di CLAUDIA SFILLI ♦
La porta si è chiusa, ma non ho sentito il rumore della chiave che l’apriva. Deve averci
messo molta attenzione a non farsi sentire, ma non altrettanta al momento di chiudere.
Ha imprecato piano, irritato… Posso anche immaginare cos’ha detto. Per quanto gli
chieda di mantenere un comportamento rispettoso in casa, quelle frasacce e quelle
parole – sempre le stesse – le deve dire. Lo facciamo tutti, quando ci arrabbiamo, lo so,
ma gli chiedo solo di imparare a controllarsi. Lui dice che a casa uno può e deve
sfogarsi, io dico che se a casa ci sono altre persone, bisogna rispettarle. Lo imparerà,
prima o poi.
L’ho chiamato Manuel. Il nome è venuto da solo appena l’ho visto: un esserino
bruttino, come tutti i neonati, ancora da ripulire dal soggiorno nella mia pancia. Aveva
proprio il faccino da Manuel. C’è un mistero dietro ai nomi, sembra quasi che
appartengano alle persone prima ancora che vengano dati.
Manuel è rientrato tardi anche questa notte. Ma dove va, fino a quest’ora? Sono le due.
Se ci fosse un padre, forse riuscirebbe a quietare la mia ansia: “I ragazzi passano le sere
a bere, a dire cretinate, a cercare ragazze… è normale” mi direbbe. Ma senza un marito
che mi tranquillizzi, mi ritrovo sola con i ricordi di quando avevo l’età di Manuel. I
ragazzi erano esagerati, incoscienti, cercavano di ostentare forza ignorando il buon
senso. Il buon senso, per loro, era una cosa da perdenti, di cui vergognarsi; il rischio
un’attrazione irresistibile. E così mi vedo sempre mio figlio correre troppo in macchina,
bere senza freno, esplodere in risse violente e pericolose. E i suoi ritardi notturni sono
per me una tortura.
Ha 19 anni. Ma cosa vuol dire avere 19 anni, oggi? Vuol dire non dover essere più
sotto il controllo degli adulti, certo, perché si è maggiorenni e si fa parte dei cittadini
responsabili, quelli che votano, che hanno la patente, che possono firmare un contratto,
avere un conto in banca e sposarsi senza il consenso dei genitori, ma, ahimè, non
sempre maggiore età coincide con maturità.
Un ragazzo a 19 anni spesso è ancora piccolo, ma si considera grande. Ed è questo il
problema.
Quando sono rimasta incinta ero molto innamorata. La storia con Massimo durava dai
tempi della scuola, avevamo venticinque anni ed entrambi buone prospettive di lavoro.
Non parlavamo di matrimonio, ma stavamo bene insieme e sapevamo che prima o poi
ci saremmo arrivati. Ci divertivamo molto e tutto ci sembrava facile. Massimo parlava
di viaggi che avremmo fatto insieme per conoscere il mondo e vivere la vita
intensamente, senza lasciarcene sfuggire una sola goccia, e io ascoltavo quei sogni con
tranquillità, sicura che con lui sarei stata bene ovunque.
Quando ho detto a Massimo che aspettavamo un bambino, è accaduta una cosa strana.
È stato come quando si spegne la luce e si resta al buio. Massimo ha cercato di mostrarsi
felice, ma il risultato è stato una specie di ghigno, mai visto prima sul suo volto. Poi
mi ha abbracciata, con un impeto poco credibile che mi ha fatto pensare più a un modo
per nascondere il proprio volto che a un gesto d’amore o di entusiasmo. Ingenuamente,
ho pensato ad una sorta di pudore dei sentimenti o di imbarazzo di fronte a un
cambiamento tanto repentino della nostra vita, ma anche nei giorni seguenti, quando
mi aspettavo che lui si sciogliesse in atteggiamenti più teneri e adatti alla situazione,
restava quel buio che improvvisamente aveva reso tutto diverso. Massimo era un’altra
persona: evitava il mio sguardo, parlava poco e, a ogni riferimento al mio stato, reagiva
con nervosismo, pronto a cambiare discorso e ad andarsene al più presto con una scusa
banale.
Dopo una decina di giorni, mi è giunto un suo messaggio in cui mi annunciava di essere
partito per un viaggio alla ricerca di sé stesso. Prometteva di tornare presto, ma da
allora non ho più avuto sue notizie.
Massimo è il padre di Manuel: altro motivo di preoccupazione. E se ci fosse anche un
fattore genetico a influire sul comportamento di mio figlio?
Questa notte è diversa dalle altre notti. Oggi è successa una cosa tremenda e aspetto di
parlargli per liberarmi dal tormento che ho dentro di me.
Manuel è stato un ragazzino fragile. Si ammalava spesso e, a causa delle lunghe e
ripetute assenze, non era riuscito ad avere una normale vita scolastica. Aveva perso un
anno. Con la collaborazione degli insegnanti cercavo di aiutarlo, per quanto mi era
possibile, ma il problema non era solo lo studio. Tra lui e i suoi compagni non c'era
intesa: li vedeva scherzare, giocare e collaborare fra di loro, ma lui restava sempre in
disparte. Chi è in disparte, però, diventa anche oggetto di critiche, che poi diventano
scherno, e poi offesa, fino a sfociare in qualcosa di più grave. E così era successo a
Manuel. Avrei voluto intervenire per aiutarlo, ma non potevo nemmeno pronunciare la
parola “problema”, che lui dava in escandescenze.
“Non sono un handicappato! Tu vuoi buttarmi giù! Lasciami in pace!” diceva, fra grida
e pianti.
Il timore di peggiorare la situazione, che conoscevo bene e forse tutta la scuola
conosceva, senza però voler agire in alcun modo, mi bloccava. Cosa potevo fare?
Fingere di non accorgermi di nulla e confidare nel fatto che con il tempo il problema
si sarebbe risolto da solo. Solo questo potevo fare.
Alle superiori Manuel si è trovato in un’ambiente diverso e, anche grazie al fisico
rinforzato dagli allenamenti in palestra, è letteralmente rifiorito. Ecco finalmente mio
figlio vivere la sua giovinezza senza paure, angosce, ansie; eccolo senza l’aggressività
che prima percepivo in ogni suo gesto, in ogni sua reazione. Eccolo fare gruppo con
ragazzi e ragazze della sua età. Avevo fatto bene, allora, a non ricorrere all’aiuto degli
insegnanti e degli psicologi. Manuel aveva voluto salvarsi da solo e io lo avevo
assecondato. Ma si era salvato davvero? Davvero non erano rimaste ferite in lui per le
umiliazioni e le cattiverie subite?
Ho sentito il leggerissimo tonfo prima di una poi dell’altra scarpa. Ha camminato lungo
il corridoio per andare nella sua camera, ma qualcosa ha intralciato il suo passo, o
meglio, il suo passo è finito su qualcosa, forse lo spigolo del mobiletto indiano. Chissà
che male si è fatto.
È entrato in camera. La porta, quando si apre, fa sempre un piccolo cigolio che di giorno
non si sente nemmeno, ma che nel silenzio della notte è fin troppo percepibile.
Manuel è entrato nella stanza urtando di nuovo in qualcosa, forse nel comodino. O
forse ha con sé qualcosa di ingombrante. O forse semplicemente ha bevuto.
Ecco il click dell’interruttore. Per un attimo un fascio di luce è penetrato nel corridoio,
ma subito è scomparso. Manuel si è chiuso nella sua stanza.
Avrei potuto cercare di dormire. Non pensare a ciò che è successo questa mattina. Non
crederci e basta. Così domani sarebbe stato un giorno come gli altri, con i soliti piccoli
battibecchi, ma niente di più. È così bello vivere in pace. Ci saremmo dati un bacetto
appena entrati in cucina per la colazione e poi un altro prima di uscire, accompagnato
dalla mia raccomandazione di fare il bravo. Ma Manuel non ha bisogno di
raccomandazioni: è un bravo studente. Non sopporta l’insuccesso e si prepara con
molta cura ad ogni prova. Questo spiega le reazioni violente ai brutti voti, ma non le
giustifica. Deve imparare a controllarsi, se vuole essere considerato maturo. Invece
continua a gridare e a sbraitare ogni volta che qualcosa non va come lui vorrebbe.
Lui ora è nella sua stanza, io sono nella mia, al buio, con il cuore in subbuglio e la
voglia di scappar via; via da tutto e da tutti.
Devo andare da Manuel.
Il buio sta diventando insopportabile. Così mi sono seduta sul letto e ho acceso la luce
del comodino.
È meglio parlargli ora che è notte. Tagliare la testa al toro, altrimenti questo tormento
mi farà impazzire.
Ho indossato un golf e sono uscita dalla stanza, attenta a non fare rumore: voglio
prenderlo di sorpresa e devo farlo prima che si addormenti.
Da un anno, circa, Manuel frequenta un gruppo di amici che si autodefiniscono The
Devils. Me ne ha parlato fin dall’inizio, con entusiasmo.
“C’è Leo che spacca, davvero spacca. È bravo in tutto, cazzo. Anche gli altri sono ok,
certo, ma lui…. Ha sempre qualcosa da fare. Con loro non ci si annoia”.
Un giorno, per caso, ho incontrato Manuel con questi amici. Non mi sono piaciuti. Si
muovevano in maniera strana, come avessero tutti dei tic, ed erano molto brutti, nelle
loro felpe grigie e nere, sotto odiosi cappucci. Leo era visibilmente il più grande e
anche il più disinvolto. Probabilmente era il capo. Forse anche Manuel lo considerava
così… Che brutta cosa!
Dietro al pallido sorriso che ho mostrato in risposta ai loro monosillabi di saluto,
speravo che l’era di questo gruppo di amici finisse al più presto. Perché succede così,
quando si è ragazzi, vero? Per un’estate o un anno scolastico si frequentano delle
persone che diventano importanti, insostituibili. Poi succede qualcosa: si inizia un
nuovo corso in palestra, un vecchio amico ci porta nel suo gruppo, si va a una festa e
si conosce gente nuova… e si cambia strada. Prima o poi succederà anche a Manuel.
Lo spero tanto.
Con passo felpato sono arrivata davanti alla porta di Manuel. La luce proveniente dalla
mia stanza, sebbene scarsa, mi permette di muovermi con sicurezza. Devo solo
abbassare la maniglia, ma sto tremando, bloccata da dubbi e timori: è giusto affrontarlo
ora, nel cuore della notte? E se fosse tutto uno sbaglio? È facile che delle colpe vengano
fatte cadere su innocenti. Manuel è molto sensibile, ci resterebbe malissimo.
Avevo ricevuto la telefonata del preside che non erano ancora le nove.
“Buongiorno, signora, mi scusi se la disturbo, ma ho bisogno di parlare urgentemente
con lei. Le è possibile venire in presidenza?”
“Arrivo in mattinata”.
“Benissimo”.
Il preside è una persona perbene: ce ne sono ancora poche come lui, purtroppo.
Appartiene a una generazione ormai quasi estinta. È di natura gentile, lavora con un
forte senso di responsabilità e sa cosa significano rispetto e comprensione. Dicono
anche che sia un poeta. Più volte ho apprezzato talmente la sua correttezza, la sua
sensibilità e la sua serietà, da provare vero affetto per lui.
“Mi dica, preside, è successo qualcosa di brutto?”
Lo avevo chiesto così, per scaramanzia, in attesa della sua rassicurazione.
“Purtroppo devo parlare di un fatto grave che riguarda anche suo figlio”.
Mi sono resa conto solo in quel momento di aver sempre temuto che, prima o poi, un
fatto del genere succedesse.
Il preside mi aveva guardata negli occhi. Non era facile decifrare i suoi sentimenti:
triste? Indignato? Preoccupato? Mortificato?
“Cara signora, i ragazzi d’oggi vivono in un mondo difficile e noi, assecondandoli
troppo, li abbiamo resi deboli. Per rispondere alle nostre paure abbiamo spianato la loro
strada, ma così hanno perso di vista la realtà. Abbiamo rinunciato all’autorevolezza di
genitori perché troppo pesante, e abbiamo scelto di diventare loro amici. Ma troppo
spesso nell’amicizia sfugge la cosa più importante: il valore del NO. Per questo i
ragazzi si perdono, cara signora, e noi dobbiamo capirli, senza però giustificarli”.
Ecco di nuovo questi due termini incontrarsi e scontrarsi per definire il difficile
compito di chi deve educare.
“Questa mattina uno studente ha chiesto di parlare con me: Giulio Santi. È sulla
carrozzella a causa di un incidente automobilistico. Non potrà alzarsi da quella
benedetta sedia… ma tralasciamo la sua storia. Giulio è arrivato quest’anno nel nostro
liceo, e lo abbiamo messo nella quinta B.”
La classe di Manuel.
“Ieri è venuto da me perché da mesi è vittima di molestie di ogni genere da parte di
alcuni suoi compagni. Si tratta di un gruppo di sei ragazzi”.
Ecco, il colpo stava arrivando.
“So di chi si tratta. È bastato poco per avere i nomi di quei ragazzi. E fra loro c’è anche
quello di suo figlio. Mi dispiace”.
Ho abbassato la testa.
“So bene che suo figlio non è un cattivo ragazzo. So che è diverso dai suoi amici e mi
domando come mai siano proprio loro la sua compagnia. Ma a quell’età, si sa, bisogna
fare esperienze che spesso, ahimè, sono negative. Servono a capire cosa non si deve
fare e sono importanti per questo, ma rendono il percorso della crescita pericoloso”.
Una voce dentro me gridava: “No, questa non è la mia vita… Non voglio sapere più
niente!”
“Giulio Santi è scoppiato in lacrime, signora. Tremava e faceva fatica a parlare. Ha
sollevato la maglietta per mostrare i lividi e, mi creda, ce n’erano tanti”.
Lo sguardo del preside era pieno di dolore. Per Giulio, per me, per Manuel, forse, e per
questo mondo sbagliato in cui ci troviamo a vivere.
“Preside… Cosa fa una madre in questi casi? Mi dica, perché io non lo so”.
“Non esiste risposta a questa domanda. Lei, suo figlio, io… siamo tutti mondi a sé stanti.
L’intesa con Manuel la deve cercare in tutto quello che c’è stato fra di voi fino ad ora.
Nei momenti belli e brutti che avete vissuto insieme. In quel qualcosa che avete
costruito e che ritrovate ogni volta che vi guardate negli occhi. Supererete questo brutto
momento, vedrà”.
Devo bussare? O devo entrare e coglierlo di sorpresa. L’importante è che io riesca a
mantenere la calma. La calma è la virtù dei forti, gli dico sempre, e ora devo dimostrare
di saper mettere in atto quanto predico. Sto tremando, ma non posso fermarmi. Poi mi
passerà e gli parlerò come una madre deve fare in situazioni così gravi. Devo aiutare
Manuel a ritrovare sé stesso. Si è solo smarrito…
Apro la porta.
Manuel è di spalle, seduto alla scrivania. Non si gira: aspetta che lo chiami.
“Manuel?”
“Sei ancora sveglia? Cosa vuoi, mamma?”
Non si gira ancora. Non ha il coraggio di incontrare il mio sguardo. Ma non è un male:
vuole dire che c’è ancora pudore, in lui.
“Girati, Manuel, devo parlarti”.
Allontana un po’ la sedia dalla scrivania e lentamente si volta verso di me.
Nella poca luce della stanza, illuminata solo dalla lampada accanto al computer, vedo
il suo volto. È spettinato, ha uno sguardo strano. Non è il mio Manuel.
“Che brutta faccia, Manuel: c’è qualcosa che non va?”
“Niente, mamma: tutto come al solito”.
“Eppure penso proprio che tu debba parlarmi”.
Sono molto emozionata; la voce è incerta.
“Ma dai, mamma. Cosa vuoi che ti dica?”
“Mi hai capito benissimo. Ora mi racconti tutto. Tutto! Sto così male che niente
potrebbe farmi stare peggio”.
Manuel mi guarda serio. Poi abbassa la testa e rimane così per un po’, mentre io aspetto
in silenzio.
“Cosa vuoi da me, mamma? Fammi capire”.
Rialza la testa, ora, e mi punta uno sguardo freddo. Alza il mento… sì, ha alzato il
mento. Cosa vuole dimostrare con quell’atteggiamento? Che è pronto ad affrontarmi?
Che è più forte di me? Non posso sopportare che un ragazzo di 19 anni, mio figlio, si
senta più forte di me. Che un giovane, capace di molestare un ragazzo costretto sulla
carrozzella, abbia il coraggio di guardarmi negli occhi in questo modo. Dovrebbe
nascondersi, da me e dal mondo intero.
“Ma non ti vergogni, Manuel?”
Ho gridato. Non sono riuscita a controllarmi.
“Di cosa dovrei vergognarmi?”
“Delle orribili cose che hai fatto! Voglio sentire come ti giustifichi!”
“Cosa ho fatto, mamma?”
Non deve andare così… non deve andare così. Manuel finge di essere innocente. Vuole
sfuggirmi.
“Me l’ha detto il preside. Lo sa tutta la scuola ciò che fate a quel povero ragazzo sulla
carrozzina…”
“Giulio?”
“Dio mio, Manuel, come è possibile una cosa del genere?”
“Mamma… Prendi fiato. Cosa ti ha detto il preside…”
Cerca di guadagnare tempo per riuscire a difendersi o forse per andare al contrattacco.
Sfide, sempre sfide, sempre battaglie da combattere, con lui! Ma perché?
“Tutto quello che fate a Giulio, Manuel… Questo mi ha detto il preside!”
Il gelo sul suo volto.
“Ah! E tu ci credi…”
Non lo lascio continuare.
“Tu e quei maledetti tuoi amici… Infierite su un ragazzo costretto sulla carrozzella! Ma
ti rendi conto?”
Manuel mi guarda con occhi vuoti. Forse sentir dire da me ciò che ha fatto sortisce un
certo effetto. Forse lo capisce, ora, l’orrore delle sue azioni.
“Tu cos’hai detto al preside?”
“Non penserai mica che tua madre ti abbia difeso? Non penserai mica che abbia pianto
dicendo che tu sei un bravo ragazzo, che ami gli animali e sei sensibile ai problemi del
mondo? No, non sono quel tipo di madre. Non lo sarò mai. Se ti puniranno per quello
che hai fatto, io non muoverò un dito.”
Manuel mi ascolta, serio. È deluso, si vede chiaramente. La mamma affettuosa,
premurosa e comprensiva svela ora il suo vero volto. Ne è stupito, si vede. E ne soffre.
E sì, perché ci contava, certo che ci contava, sul mio sostegno. Invece non è così. Non
lo raddrizzerei mai in questo modo. Io voglio che mio figlio si salvi dal male di questo
mondo e nel condannare lui condanno anche me stessa, che forse sono l’origine dei
suoi problemi. Ho sbagliato tutto.
Ora il viso di Manuel si trasforma. Forse mostra del pentimento… o forse questo è
quello che vorrei vedere. Non cambierò idea, però, nemmeno se mi chiedesse pietà
piangendo ai miei piedi. Non lo farò.
“Non hai nulla da dirmi?” chiedo con un filo di voce.
I suoi occhi ora hanno un’espressione smarrita. Non devo farmi commuovere.
“No. Ho il vuoto nella testa”.
Il vuoto nella testa? Ma che risposta è?
“Manuel, vedi di riaccendere il cervello. Domani salterà fuori un casino, a scuola.
Verrete chiamati dal preside e dovrete rispondere delle vostre azioni. Non la passerete
liscia. Ma ora io voglio sapere da te come vivi questa situazione. Voglio sapere come
puoi far parte di un gruppo che picchia un ragazzo in carrozzella. Cosa hai fatto tu,
precisamente? Voglio saperlo”.
Manuel mi guarda con espressione vuota e respira forte. Forse c’è della paura in quegli
occhi. Mi tornano alla mente i ricordi più brutti, di quando era lui ad essere perseguitato
da un gruppo di ragazzi. Ecco allora confondersi tutto: il dolore di ieri con quello di
oggi. Possono quei fatti essere la risposta alle mie domande?
Manuel non dice niente. Perché non si difende? Perché non mi chiede scusa?
“Manuel, parla, ti prego… ti ascolto…”
“Sono stanco, mamma. Vorrei andare a dormire”.
Anch’io vorrei uscire da quella stanza, andarmene lontano.
“No, non è il momento di dormire” ho detto con fermezza. “Non dormiremmo nessuno
dei due. Parla, Manuel”
Lui continua a guardarmi con quello sguardo vuoto. Cosa c’è dietro quegli occhi?
“Mamma, non mi piace questa storia… non mi piace la vita. Troppo difficile. Non
capisco un cazzo di cosa sia giusto e cosa sbagliato. Ma devo sopravvivere in qualche
modo e per farlo devo essere dalla parte dei forti. Tu gridi e sbraiti, ma tu sei tu. Hai la
tua vita dove non succedono le cose che succedono nella mia. Quindi non puoi capire.
Quindi è inutile parlare”.
“Non è mai inutile parlare. Tutti sbagliamo e in quei momenti pensiamo che la vita è
brutta, ma sono momenti, Manuel, dai quali si deve uscire. Accetta l’aiuto di chi ti è
vicino e ti vuole bene”.
“Si esce da un brutto momento per cadere in un altro ancora più brutto: questo succede.
E allora?”
“Ma no… non è così! La vita…”
“Mamma, lascia stare. Ti prego, lasciami andare a dormire. Magari ne parliamo un’altra
volta”.
“Ma domani…”
“Mi arrangerò, non preoccuparti”.
Notte tremenda. Notte di rabbia e di paura, di mille pensieri spaventosi. I ragazzi
diventano delinquenti, finiscono in prigione. I ragazzi cadono nelle maglie della
droga… si suicidano. Cosa sarebbe successo a mio figlio? Ma chi era mio figlio? E cosa
potevo fare io? Davvero era inutile ogni mio intervento? Contavo così poco?
La mattina dopo facciamo colazione in silenzio. Lui è pallido e beve solo un po’ di
caffè. Sulla porta di casa, prima di uscire, si gira.
“Ciao, mamma” ha detto.
“Manuel, fai vedere chi sei davvero. Tira fuori il buono che c’è in te…”.
“Cosa?”.
Ha alzato le spalle ed è uscito.
CLAUDIA SFILLI
