DENTRO LA MENTE – Come la “scarcity” ci cambia il cervello (e le decisioni)

di SIMONE PAZZAGLIA  ♦

La scarsità come condizione cognitiva

Quando pensiamo alla povertà, al tempo che manca, o alla pressione delle scadenze, tendiamo a concepire queste situazioni come problemi materiali o organizzativi: mancano risorse, manca tempo, manca denaro. Ma cosa accade, davvero, nella mente di chi vive in condizioni di scarsità? E soprattutto: come cambia il modo di pensare, decidere, pianificare, agire quando una risorsa essenziale viene meno?

A questa domanda rispondono, con rigore e radicalità, l’economista comportamentale Sendhil Mullainathan e lo psicologo cognitivo Eldar Shafir nel loro libro Scarcity: Why Having Too Little Means So Much. L’opera, pubblicata nel 2013, è il risultato di una collaborazione interdisciplinare e di anni di ricerche sperimentali sul campo e in laboratorio. La tesi centrale è semplice quanto dirompente: la scarsità non è solo una condizione esterna, ma un vincolo interno – una pressione cognitiva che altera profondamente il funzionamento mentale.

Che si tratti di scarsità di denaro, di tempo, di sonno, di relazioni o di attenzione, il cervello umano reagisce sempre nello stesso modo: restringe il campo, entra in modalità “tunnel”, si focalizza sull’urgenza immediata e perde capacità di pianificazione a lungo termine. Questo effetto – descritto in dettaglio come tunneling – non è segno di debolezza personale, ma una risposta sistemica del nostro sistema cognitivo alla pressione del bisogno. L’effetto non è solo soggettivo: è misurabile. Test cognitivi dimostrano che vivere in scarsità abbassa il QI, riduce la memoria di lavoro, altera il controllo esecutivo.

La povertà, dunque, non è solo un problema economico. È un problema cognitivo, comportamentale, sociale. Non perché renda le persone meno intelligenti, ma perché le costringe a usare la loro intelligenza per sopravvivere nel breve termine, privandole della possibilità di pensare, decidere, progettare sul medio-lungo periodo. E questo vale anche per chi ha risorse materiali ma soffre di scarsità di tempo, di attenzione, di energia mentale: un professionista sopraffatto dalle scadenze può cadere negli stessi schemi decisionali disfunzionali di chi vive sotto il livello di povertà.

Scarcity è un libro che cambia la prospettiva: invece di chiedersi “perché i poveri fanno scelte sbagliate?”, si chiede “che cosa fa la scarsità al nostro modo di pensare?”. Da questa inversione nasce un approccio nuovo al welfare, alla progettazione dei servizi pubblici, alla comunicazione sociale. Per aiutare davvero, bisogna progettare tenendo conto del carico cognitivo di chi vive in condizioni di scarsità – non per l’individuo ideale, ma per l’individuo reale, sotto pressione.

Il tunnel della scarsità – Come il pensiero si restringe

Uno degli effetti più sorprendenti – e documentati – della scarsità è il cosiddetto “effetto tunnel”: una condizione in cui la mente, sotto pressione, restringe il proprio campo di attenzione alle urgenze immediate, perdendo la capacità di gestire informazioni laterali, elaborare strategie a lungo termine o anche solo ricordare impegni già presi. Come se il cervello entrasse in un imbuto decisionale, sacrificando complessità per sopravvivenza.

Mullainathan e Shafir mostrano che questo processo non è un’anomalia individuale, ma una risposta sistemica e prevedibile al bisogno: quando una risorsa vitale è percepita come scarsa – che sia tempo, denaro o energia – il nostro sistema cognitivo attiva un meccanismo di focalizzazione selettiva, che porta sì a prestazioni elevate su un singolo compito, ma al prezzo di un drastico calo nella capacità di gestire tutto il resto. È un fenomeno simile a quello che la psicologia cognitiva chiama attentional tunneling, ma qui il contenuto dell’attenzione è costantemente determinato dalla scarsità percepita.

Un esempio concreto: in uno degli esperimenti descritti nel libro, i ricercatori simulano un problema finanziario ipotetico (come pagare una riparazione dell’auto da 300 dollari) e misurano le capacità cognitive dei partecipanti prima e dopo. I soggetti economicamente benestanti mostrano performance stabili. Ma tra i soggetti a basso reddito, anche solo pensarealla spesa ipotetica riduce significativamente i punteggi nei test di intelligenza fluidi e di memoria di lavoro. Il solo fatto di dover gestire mentalmente una situazione di scarsità drena risorse cognitive in modo misurabile, esattamente come accade sotto l’effetto di una deprivazione di sonno.

Un’altra variante dell’effetto tunnel si osserva nelle situazioni di scarsità di tempo: quando si avvicina una scadenza importante, molte persone mostrano prestazioni eccellenti nella fase finale, ma dimenticano altri compiti essenziali, o commettono errori banali nella gestione quotidiana. Il focus sull’obiettivo imminente satura la memoria di lavoro e riduce la capacità di visione sistemica.

Questo meccanismo, in sé, non è sempre negativo: può generare episodi di efficienza estrema, di “iperfocus” adattivo, e infatti viene spesso sfruttato nel mondo del lavoro per stimolare la produttività. Ma nella vita quotidiana di chi vive in condizione cronica di scarsità – economica o temporale – il tunnel cognitivo diventa un vincolo strutturale, che riduce la libertà di scegliere, la capacità di pianificare, la possibilità di apprendere dall’esperienza.

La vera criticità, quindi, non è solo la scarsità materiale, ma la scarsità mentale che essa produce, e che compromette la qualità della decisione proprio quando decidere bene è più importante. In questo senso, Mullainathan e Shafir propongono un rovesciamento rispetto a molte narrazioni politiche: non è la povertà a derivare da decisioni sbagliate, ma le decisioni sbagliate a derivare dalla condizione cognitiva prodotta dalla scarsità.

Il tunnel mentale, insomma, non è un difetto individuale, ma un effetto prevedibile della pressione ambientale. E se vogliamo intervenire davvero sui comportamenti, non possiamo ignorare la struttura cognitiva dentro cui quei comportamenti si generano.

La trappola della povertà – Quando la scarsità si autoalimenta

Uno degli aspetti più insidiosi della scarsità è che non si limita a peggiorare la qualità delle decisioni, ma crea le condizioni perché quegli errori si accumulino, generando nuova scarsità. È una trappola perfettamente strutturata, che colpisce anche persone competenti, motivate, intelligenti, e che si autoalimenta nel tempo. Per Mullainathan e Shafir, questa dinamica è tanto sistemica quanto invisibile, e rappresenta il cuore del fallimento di molte politiche pubbliche e di numerose diagnosi morali sul comportamento umano.

Quando si è sotto pressione, come abbiamo visto, il tunnel cognitivo restringe il campo decisionale. Questo porta a preferenze miope, scelte di breve termine, procrastinazione o errori di valutazione che, a loro volta, aumentano la scarsità iniziale. Una famiglia povera, ad esempio, potrebbe scegliere di accendere un prestito con tassi molto alti per far fronte a un’urgenza sanitaria o abitativa. Questa scelta risolve il problema immediato, ma crea un vincolo futuro (debito), che riduce ulteriormente le risorse disponibili e peggiora la capacità di pianificare. La spirale continua.

Gli autori parlano in questo contesto di bandwidth tax, ovvero una tassa invisibile sulle risorse mentali: chi vive in povertà – o sotto qualsiasi altra forma di scarsità – non solo ha meno risorse materiali, ma ha anche meno risorse cognitive da destinare a tutto il resto. Pensare alla scuola dei figli, fare scelte nutrizionali migliori, seguire terapie mediche, cercare nuove opportunità di lavoro: tutte attività che richiedono tempo, energia mentale e pianificazione – cioè esattamente ciò che la scarsità consuma per prima.

In uno studio condotto su contadini indiani, i ricercatori hanno osservato che le capacità cognitive degli stessi individui miglioravano sensibilmente dopo il raccolto (quando le risorse erano disponibili) rispetto a prima (quando le finanze erano al minimo). Non era cambiata la loro intelligenza, ma la loro mente era più libera, meno impegnata a gestire il bisogno immediato. Questo risultato mette in discussione una visione moralistica della povertà: non si tratta di mancanza di volontà o competenza, ma di una condizione di sovraccarico strutturale.

La trappola della scarsità funziona perché la mente, nel tentativo di risolvere problemi urgenti, diventa cieca rispetto alle conseguenze future, che a loro volta peggiorano le condizioni di partenza. È una dinamica che si osserva anche nella gestione del tempo: chi è costantemente in ritardo, ad esempio, tende a procrastinare, accumulare scadenze, rinunciare al sonno, peggiorando la propria efficienza globale e perpetuando l’ansia temporale.

La lezione è chiara: non possiamo migliorare il comportamento individuale senza modificare le condizioni sistemiche che generano il carico cognitivo. Intervenire solo a valle – “devi essere più disciplinato”, “devi gestire meglio il tempo”, “devi risparmiare di più” – è non solo inutile, ma spesso colpevolizzante. Il problema non è l’individuo, ma l’ambiente decisionale in cui si trova. E questo vale tanto per chi vive in povertà economica quanto per chi è afflitto da carenza cronica di tempo o attenzione.

Scarcity ci invita a spostare il focus dalla colpa al contesto, dalla persona al carico cognitivo. Le cattive decisioni, in questo modello, non sono il risultato di fallimenti morali, ma di vincoli cognitivi strutturali. E per interrompere la spirale della scarsità, bisogna progettare ambienti che liberino banda mentale, invece di consumarla ulteriormente.

Progettare per la scarsità – Interventi realistici, non ideali

Una delle intuizioni più forti di Scarcity è che molte politiche pubbliche falliscono non perché siano mal concepite nei contenuti, ma perché danno per scontata una razionalità piena e disponibile da parte del destinatario. Le riforme, i programmi sociali, i servizi sanitari spesso si basano su un presupposto implicito: che le persone possano ricevere informazioni, valutarle con calma, confrontare opzioni, e scegliere quella più vantaggiosa. Ma chi vive in condizioni di scarsità – di tempo, soldi, attenzione – non ha questo lusso cognitivo.

Mullainathan e Shafir sostengono che la scarsità impone una nuova forma di progettazione sociale, fondata sull’idea che l’essere umano non sia solo limitato, ma attivamente vincolato nella sua capacità di pianificare, riflettere, scegliere. Serve dunque un nuovo paradigma, che potremmo definire “design cognitivo per la vulnerabilità”. Le implicazioni sono profonde.

Un esempio semplice ma efficace è l’invio di messaggi di promemoria (reminders) per appuntamenti medici o scadenze amministrative: studi mostrano che un semplice SMS può aumentare significativamente l’adesione a programmi di vaccinazione, visite di controllo, rimborsi fiscali. Il motivo? Non che le persone non vogliano prendersi cura di sé, ma che la scarsità di banda mentale le costringe a dimenticare, rinviare, perdere traccia.

Altre soluzioni sono legate ai default intelligenti: se un cittadino viene automaticamente iscritto a un programma di previdenza o assistenza sanitaria, con la possibilità di uscire su richiesta, l’adesione è molto più alta che nel modello tradizionale che richiede un’iscrizione attiva. Non perché manchi la volontà, ma perché il costo cognitivo dell’azione deliberata – il dover scegliere, compilare moduli, informarsi – è spesso insostenibile per chi è già sotto pressione.

Una terza strategia è la semplificazione radicale della burocrazia. I moduli amministrativi complessi, le interfacce online poco intuitive, i requisiti tecnici oscuri rappresentano una barriera enorme per chi ha risorse mentali limitate. Progettare servizi accessibili significa riconoscere che l’architettura dell’informazione è una forma di giustizia sociale: un modulo più chiaro è una politica redistributiva.

Ma forse l’aspetto più importante del “design per la scarsità” è l’atteggiamento culturale che lo ispira. Invece di biasimare il cittadino per la sua inazione, si parte dal presupposto che il contesto lo stia già sovraccaricando, e che quindi il compito dell’intervento pubblico non sia solo fornire risorse, ma liberare capacità mentali. Un buon welfare, in questa prospettiva, è quello che riduce il rumore decisionale, semplifica i percorsi, crea automatismi protettivi, sostiene la coerenza temporale delle scelte.

Questa visione si collega naturalmente all’approccio del nudge (spinta gentile), sviluppato da Thaler e Sunstein: incentivare scelte migliori attraverso piccole modifiche dell’ambiente di scelta, senza coercizione. Ma Scarcity va oltre, perché pone l’accento sulla fragilità cognitiva come condizione strutturale, non come eccezione. Non si tratta di correggere errori occasionali, ma di progettare pensando a una mente perennemente sovraccarica.

In sintesi, progettare per la scarsità significa ripensare il concetto stesso di razionalità pubblica. Non basta offrire opzioni, bisogna renderle accessibili. Non basta promuovere l’autonomia, bisogna creare le condizioni cognitive perché l’autonomia sia possibile. Non basta informare, bisogna togliere peso mentale.

Scarsità oltre il denaro – Tempo, relazioni, attenzione

La forza concettuale di Scarcity sta nel mostrare che la logica della scarsità è trasversale ai domini dell’esperienza umana. Non riguarda solo il denaro, ma qualsiasi risorsa percepita come insufficiente rispetto alle esigenze: il tempo, l’energia mentale, l’attenzione, le relazioni. Anche chi dispone di abbondanti risorse economiche può vivere in uno stato di scarsità perenne, se costantemente afflitto da urgenze, sovraccarichi, interruzioni, aspettative multiple.

Uno dei casi più emblematici è quello della scarsità di tempo, forse la più diffusa tra le classi dirigenti, i professionisti, gli imprenditori. Chi lavora in ambienti ad alta intensità decisionale sperimenta ogni giorno il tunneling temporale: il tempo disponibile sembra sempre troppo poco, le scadenze si accumulano, la mente è costretta a ignorare il lungo periodo per risolvere problemi immediati. Questo porta a comportamenti sorprendentemente simili a quelli osservati nella povertà economica: procrastinazione, mancanza di pianificazione, scelte di breve termine, trascuratezza degli effetti futuri.

Anche l’attenzione è diventata una risorsa scarsa nel contesto digitale. La pervasività degli stimoli, le notifiche continue, la frammentazione della concentrazione producono un deficit cognitivo sistemico, che si manifesta in decisioni impulsive, perdita di controllo sul tempo, incapacità di portare a termine compiti complessi. Le persone iperconnesse, pur avendo accesso illimitato all’informazione, soffrono di una scarsità mentale indotta, che riduce le loro capacità esecutive. L’economia dell’attenzione, di fatto, funziona sfruttando attivamente la scarsità cognitiva dei suoi utenti.

Infine, le relazioni possono diventare oggetto di scarsità: chi vive in isolamento, chi è privato di supporto sociale, chi deve occuparsi da solo di figli, anziani o malati, sperimenta un carico decisionale enorme, non perché sia più debole, ma perché manca una rete di distribuzione del carico mentale. In questi casi, la scarsità è relazionale, ma produce effetti cognitivi concreti: ansia cronica, scarsa flessibilità, riduzione della tolleranza agli imprevisti, senso di fallimento.

Questi esempi dimostrano che la scarsità non è una condizione riservata ai poveri, ma una struttura esperienziale che può emergere in molti ambiti della vita contemporanea. La differenza è che chi ha più risorse può, in teoria, comprare tempo, delegare, riposare, disconnettersi. Ma la verità è che molti non lo fanno, o non sanno come farlo, e si ritrovano a vivere in uno stato di scarsità autoindotta, alimentata da aspettative irrealistiche, carichi di lavoro mal distribuiti, o modelli culturali che celebrano l’iperattività.

Mullainathan e Shafir, in questo senso, non offrono solo una teoria della povertà, ma una teoria dell’umano sotto pressione, valida per descrivere le fragilità di un mondo sempre connesso, accelerato, cognitivamente saturo. Riconoscere la scarsità come condizione mentale generalizzata significa anche interrogarsi su quali sistemi – organizzativi, digitali, educativi – stiano oggi contribuendo a creare questa pressione costante.

La lezione, ancora una volta, è semplice e radicale: le persone non prendono cattive decisioni perché sono irrazionali, ma perché sono in trappola. E per uscire da quella trappola, serve meno giudizio e più comprensione progettuale.

Pensare la scarsità per progettare meglio

Scarcity non è un libro sulla povertà in senso stretto. È un libro sul pensiero sotto pressione, sul funzionamento della mente quando la libertà cognitiva viene compromessa da una mancanza sistemica – di denaro, tempo, attenzione o supporto. Mullainathan e Shafir ci mostrano che, in queste condizioni, non solo cambia ciò che possiamo fare, ma cambia anche come pensiamo. La mente si chiude, il tempo si accorcia, le opzioni si riducono, e spesso, proprio nel momento in cui avremmo più bisogno di lucidità, il nostro cervello è costretto a decidere peggio.

La grande intuizione del libro è che la scarsità è anche un fatto cognitivo, misurabile, ripetibile, correggibile. Non si tratta di psicologizzare la povertà, ma di restituirla alla sua complessità funzionale. Capire come la scarsità agisce sul pensiero significa comprendere cosa davvero impedisce alle persone di cambiare vita, e perché gli strumenti tradizionali – informazione, formazione, incentivo economico – spesso falliscono se non si accompagnano a una liberazione del carico mentale.

Il messaggio è potente anche per il design delle politiche pubbliche e delle tecnologie: non bisogna progettare per l’individuo ideale, lucido, presente a sé stesso, con tempo e capacità decisionale illimitata, ma per l’individuo reale, sovraccarico, distratto, stanco, spesso in lotta con i vincoli quotidiani. In questo senso, il design diventa etica: semplificare è una forma di rispetto, automatizzare può essere una forma di inclusione, ricordare può essere un atto di cura.

Le implicazioni toccano ogni ambito: scuola, sanità, welfare, finanza, lavoro, urbanistica. E toccano anche ciascuno di noi, ogni volta che ci troviamo a chiedere troppo alla nostra mente, a vivere nell’urgenza cronica, a giudicare gli altri senza considerare il loro tunnel. Se vogliamo migliorare il mondo, dobbiamo capire quanto pesa pensare sotto scarsità – e fare spazio per pensare meglio.

Per chi volesse proseguire questo percorso, le letture consigliate includono:

  • Nudge di Thaler & Sunstein – sulla spinta gentile come strumento di policy;
  • Design for Real Life di Meyer & Wachter-Boettcher – sul design empatico per utenti vulnerabili;
  • The Behavioral Insights Team Reports – per applicazioni concrete della behavioral policy nei servizi pubblici;
  • The Psychology of Poverty di Costas Meghir et al. – per un approfondimento teorico e empirico.
  • The Extended Mind di Annie Murphy Paul – sul ruolo dell’ambiente nella cognizione.

Scarcity è un libro che non si limita a spiegare. Invita a cambiare. E in un mondo dove la scarsità è sempre più una condizione diffusa, imparare a progettare per la mente sovraccarica è una delle forme più avanzate di intelligenza sociale.

SIMONE PAZZAGLIA