Trastevere: Memorie di una Famiglia del XX Secolo – SECONDA PARTE – LA MADRE
di MARINA MARUCCI ♦
I racconti che seguono fanno parte di un romanzo, in via di stesura, che narra le vicende di tre donne del XX secolo: una nonna, una madre, una figlia, nate a Trastevere, celebre rione di Roma. E’ la storia delle donne della mia famiglia, ricca di aneddoti, di drammi e di gioie, che attraversa il “secolo breve”, recuperandone la memoria, il loro vissuto, le loro radici, perché è dalle persone comuni che vengono alla luce i momenti più veri di una storia collettiva che non dovremmo dimenticare.
LA MADRE
I miei nonni, Linda e Giulio si sposarono e, dopo alterne e drammatiche vicende, misero al mondo tre figli: il primo Carlo, morto a due anni, forse di tetano; la seconda Marcella, rotondetta e quasi bionda e la terza Silvana, mia madre, mora di capelli. Lei nacque nel 1930, sempre in Trastevere, in Via della Pelliccia, in pieno sfolgorante regime fascista. La sua infanzia fu scandita dalle grandi adunate, dalle attività ginniche dei “figli e figlie della Lupa”, rivolte ai bambini e bambine dai sei agli otto anni, inquadrati nell’Opera Nazionale Balilla organizzazione “finalizzata all’assistenza e all’educazione fisica e morale della gioventù”. Dagli otto ai quattordici anni si diventava Piccole Italiane (equivalente femminile dell’ONB), vestite con gonna nera a pieghe sino al ginocchio, camicia bianca con il colletto chiuso e cuffia nera, tutte uguali, irreggimentate come soldati e indottrinate come potenziali accoliti. Gli insegnati e i presidi erano tenuti ad agevolare le strutture scolastiche alle iniziative dell’ONB e si organizzavano affinché tutti gli alunni potessero aderire. Silvana non era molto contenta di quegli abiti ma era costretta ad indossarli; non si entusiasmava ai raduni, il padre, da simpatizzante socialista, non aveva voluto sottoscrivere la tessera del fascismo e per questo era guardato a vista dal Capo Palazzo. A quei tempi, in Trastevere e in molti quartieri popolosi e tumultuosi di Roma, all’interno degli stabili veniva indicato un responsabile, cioè una spia, che riferiva alla Polizia segreta l’OVRA ( Opera Volontaria per la repressione dell’Antifascismo) ogni parola ascoltata negli androni dei palazzi o nell’intimità delle mura domestiche, ogni indicazione ricevuta dai vicini, ogni movimento dei potenziali sovversivi. Una rete neanche tanto sotterranea di informazioni e di controllo estesa in tutta la città e nella nazione che assicurava al regime obbedienza e sudditanza. Insomma un sistema che decideva come ti dovevi vestire, cosa pensare, cosa dire, in un clima di sospetto reciproco e delazione che rendeva l’aria irrespirabile. Marcella e Silvana frequentavano le scuole elementari di Piazza Mastai dove c’erano anche le classi medie, rigorosamente divise in maschili o femminili. Quando, dopo la scuola, verso l’ora di pranzo, tornavano a piedi nella loro casa al primo piano in piazza San Cosimato, trovavano il Capo Palazzo, Italo, uomo alto, grande, robusto, con i capelli scuri, impomatati di brillantina, alla moda del tempo, fermo sul portone che le osservava, sovrastandole con la sua struttura fisica.
« Hai visto? Italo controlla chi entra e chi esce, è proprio uno spione come dice mamma e poi urla tutto il giorno al figlio più grande» disse Silvana.
« Parla piano che ti sentono, vuoi mandarci tutti in prigione ?» la rimproverò Marcella. Mia madre fece un gesto di stizza e alle spalle dell’omone mise in scena una serie di smorfie e pernacchie.
Italo aveva due figli maschi, Francesco, di undici anni e l’altro Federico, di tredici. Quest’ultimo era un ragazzino problematico, introverso, parlava poco, era grassoccio e malgrado la sua età piangeva spesso. Il padre, fascista della prima ora, lo tormentava continuamente, lo colpiva, le sue grida insultanti risuonavano nel cortile e il povero sfortunato spesso si rifugiava sul pianerottolo, vicino l’uscio di casa di Silvana. Lei era una bambina di otto anni e si commuoveva nel sentirlo tirare su con il naso, singhiozzare, così un giorno aprì la porta e gli si avvicinò:
« Federico perché piangi ?»
« Mio padre mi ha menato, perché dice che devo fare come mio fratello, che è più piccolo di me ma è più bravo nella preparazione sportiva dei giovani del fascio littorio»
« Pure a me non piacciono tutte quelle riunioni per fare ginnastica, a volte non ci vado, dico che sto male»
« Anche quando sto male mi trascinano lì» rispose disperato.
La madre di Federico si affacciò dalla porta, disse minacciosa al figlio di rientrare subito: il padre sarebbe tornato da un momento all’altro e lo avrebbe di nuovo vessato se trovato a parlare con la figlia di un disfattista.
Silvana, che era curiosa chiese al padre:
« Papà che significa disfattista?»
« Dove lo hai sentito, chi te lo ha detto? » chiese Giulio ansioso
« La mamma di Federico »
« Lasciali stare quelli, chiamano disfattista chi non la pensa come loro»
« Però Federico piangeva e nessuno lo consolava, poveraccio!»
Nacque così una amicizia tra i due ragazzini che spesso si incontravano davanti all’uscio delle rispettive case e si raccontavano le loro avventure.
All’educazione fascista non c’erano alternative, le altre organizzazioni giovanili, cattoliche o indipendenti già nel 1928 erano state cancellate; i bambini erano costretti, come in ogni regime totalitario, a subire la retorica dell’impero, della superiorità della razza, ricordate a ritmo martellante dalla propaganda e nelle riunioni oceaniche, in cui si istillava odio e rancore.
La sorella di Silvana, Marcella, più grande di due anni, era una che si teneva in disparte, preferiva giocare con le bambole di pezza che la madre le aveva insegnato a confezionare e con le quali trascorreva molto tempo. Mia madre invece era attiva, a scuola andava bene, le piaceva studiare, e spesso faceva domande scomode alla sua maestra. Quando nel novembre del 1938 furono emanate le leggi razziali lei vide scomparire dalla sua classe le alunne Ester e Rachele. Chiese varie volte all’insegnate cosa fosse successo loro, le fu prima risposto che erano malate, poi quando si diffuse l’eco di quelle mostruose leggi, sentì dire dalla maestra che “forze oscure si stavano organizzando contro l’impero fascista per distruggerlo e tra queste c’erano anche gli ebrei, ecco perché bisognava allontanarli”. Silvana cercò di sapere dal padre quali fossero le conseguenze di quelle misure ma ottenne risposte molto vaghe. Giulio, negli ultimi tempi, parlava poco di quello che stava accadendo, soprattutto in famiglia. Era molto scoraggiato, il partito socialista aveva perso la battaglia contro il regime, molti dirigenti erano fuggiti all’estero, imprigionati o mandati al confino. La paura di coinvolgere con le sue idee le figlie e la moglie gli avevano fatto decidere di evitare ogni confronto perché lui, già segnalato, poteva essere arrestato in qualsiasi momento; non c’era più giustizia, solo leggi dispotiche e liberticide alle quali obbedire. Linda era preoccupata, gli ordini da falegname del marito stavano diminuendo, anche per le chiacchiere diffuse nel quartiere così lei si era rimboccata le maniche cercando un lavoro.
L’amicizia tra Federico e Silvana continuava: con l’avvicinarsi dei venti di guerra lui era stato obbligato dal padre a confluire nella GIL (Gioventù italiana del Littorio) e di questo ulteriore dramma ne parlava spesso con la sua amica. Non voleva andare a quei adunanze dove lo guardavano male perché grasso e poco agile, comparandolo con il fratello che era diventato un ottimo atleta, amatissimo dai genitori e soprattutto riconosciuto da tutti come il giovane fascista perfetto. Silvana lo consolava, l’educazione del regime le avevano sempre raccontato che le donne dovevano soltanto obbedire, accudire e dare figli alla patria, anche se sentiva che questi precetti le stavano stretti.
Il 10 giugno 1940 Benito Mussolini annunciava l’entrata dell’Italia in guerra a fianco della Germania nazista contro la Francia e la Gran Bretagna e gli italiani si mobilitarono. Non solo l’esercito, mal equipaggiato ma anche le famiglie. Linda aveva patito la fame nella guerra precedente e in previsione della scarsità di cibo si organizzò subito. Suo fratello Ernesto aveva rilevato la macelleria di Via della Lungaretta, quella del cugino di Lisetta, madre di Giulio e pur avendo cinque bocche da sfamare, compresa la moglie, a volte elargiva alla sorella scarti di carne di manzo, grasso e frattaglie. Di tutto questo mia nonna ne faceva dei piccoli incarti che sistemava dentro una piccola botte piena di sale. Non avevano il frigorifero e l’unico modo per conservarlo era quello usato nell’antichità. Lei cercava di cucinarlo velocemente, però non tutto si manteneva nel modo giusto e a volte un odore virulento di cibo putrefatto avvolgeva la casa. Rosa, la madre di Linda, nonna di Silvana e Marcella, andava spesso a rifugiarsi da loro, quando le liti con il marito Angelo diventavano furibonde. I fascisti le avevano proibito di continuare gli incontri con le donne, quelle del “Palmo”, a cui leggeva il futuro, perché considerate “adunanze sediziose” ma lei proseguiva in modo clandestino. Sentiva come suo obbligo quello di aiutare, dare speranza a coloro che trepidavano per i loro cari, spediti magari nella campagna di Russia, con un equipaggiamento insufficiente e fucili inutilizzabili. Angelo era contrario e le liti si acutizzarono anche per i loro contrasti politici. Una donna italiana, soprattutto delle classi umili, non poteva scegliere, doveva soltanto subire : l’ideologia fascista aveva di fatto riavvolto il nastro della storia, negando diritti che all’inizio del ‘900 erano stati rivendicati e anche conquistati dalle masse femminili in Europa.
I mesi passavano e la guerra diventava sempre più cruenta. Dopo due anni, l’esercito Italiano, tanto esaltato dal regime ma privo di mezzi adeguati, richiamò i reduci della prima guerra mondiale. A Giulio arrivò una cartolina che lo destinava ad un battaglione in una zona vicino Roma, chiamata Mezzocamino. Un luogo malsano e malarico dove la famosa contraerea, residuato bellico della grande guerra, avrebbe dovuto rispondere al fuoco dei bombardieri anglo americani B17 . All’età di quarantacinque anni mio nonno fu costretto a ritornare a combattere, ma non esistevano più la linea del fronte, il filo spinato, le trincee, gli assalti alla baionetta, tutto il territorio era soggetto agli attacchi dal cielo e le vittime erano soprattutto civili.
Il 14 maggio del 1943 gli alleati bombardarono Civitavecchia, a pochi km da Roma, distruggendone il porto e parte della città. Iniziarono gli sfollamenti della popolazione verso l’entroterra e la paura crebbe ogni giorno di più. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia il 9 luglio 1943 la pressione sulle forze armate italiane e tedesche aumentò notevolmente. Roma era un simbolo politico importante da conquistare, capitale dell’impero, snodo ferroviario e strategico di comunicazione. Entrare nella capitale sarebbe stato un durissimo colpo al barcollante regime.
Il governo Mussolini aveva fatto costruire a Roma dei rifugi, anche a costo elevato ma non in numero sufficiente per proteggere la popolazione e soprattutto non strutturati per resistere alle esplosioni delle bombe ad alto potenziale, sganciate dai “nemici”.
Anche se i gerarchi fascisti, ridondanti della loro retorica propaganda, avevano escluso la possibilità che gli alleati riuscissero a bombardare Roma, Italo aveva consegnato agli inquilini del palazzo l’elenco delle cosa da fare e il comportamento da tenere in caso di attacco aereo. La loro protezione era semplicemente una cantina, improvvisata a ricovero dove, nelle esercitazioni, mia madre si precipitava insieme agli altri, accollandosi una borsa contenente l’ immancabile bottiglia d’acqua, il disinfettante, alcune bende e la bambola della sorella. Quegli inutili oggetti rappresentavano per lei la possibilità di salvare la sua famiglia e controllava spesso, in modo maniacale che tutto fosse al suo posto.
Il 19 luglio 1943 gli alleati attaccarono la capitale con sei ondate di Fortezze volanti, la disparità numerica e qualitativa era incomparabile e la difesa italiana non era in grado di proteggere i cittadini in modo efficace. Nelle lunghissime ore trascorse in quell’insicuro riparo c’era chi pregava, chi imprecava, chi se la prendeva con gli Americani, e soltanto alcuni a bassa voce inveivano contro Mussolini, perché anche in quei momenti terribili pochi avevano il coraggio di esprimere la loro rivolta. Italo era sempre vigile, anzi, si era ancora più incattivito ed incitava i presenti a “Resistere, obbedire e combattere” come fosse il capo di un battaglione di soldati da guidare all’assalto.
Silvana si rivolse al suo amico Federico per chiedere:
« Ma come mai tuo padre non è in guerra? Il mio lo hanno richiamato e sta a Mezzocamino»
« Perché il mio lo hanno riformato, non so perché , però lui vorrebbe andare»
« Insomma come dice sempre mia madre chi ha il pane non ha i denti e viceversa» gli rispose ironica, malgrado l’angoscia.
Lo scalo ferroviario di San Lorenzo fu distrutto completamente, la Basilica dedicata al santo fuori le Mura danneggiata dai numerosi incendi, il quartiere, densamente popolato, fu quasi raso al suolo e i danni si estesero anche alle zone Labicano, Prenestino, Casilino, Tiburtino, Tuscolano e Nomentano.
Il Papa Pio XII si recò personalmente nel quartiere di San Lorenzo, inviò proteste formali agli Alleati chiedendo il rispetto dello status di Roma come città sacra e invocò la Convenzione dell’Aia perché il bombardamento aveva violato il diritto internazionale per la protezione dei beni culturali e religiosi. La diplomazia vaticana si attivò per ottenere la proclamazione di Roma come “Città aperta”, che avrebbe dovuto garantire l’immunità da attacchi militari. Il ruolo della Santa Sede continuò nell’organizzare aiuti alle vittime, distribuzione dei viveri, e rifugi nelle strutture ecclesiastiche. Molti romani scelsero di trascorrere le notti seguenti al tragico bombardamento tra il colonnato del Bernini, in piazza San Pietro, sperando nella clemenza degli alleati. Come in ogni guerra il bilancio umano dei civili morti ha rappresentato una delle ferite profonde nella memoria della città: solo nell’operazione “ Crosspoint” cioè quella del 19 luglio ci furono 1.500 morti, anche se stime più attendibili parlano di 3.000; 11.000 rimasero ferite, molte con mutilazioni permanenti, oltre 10.000 famiglie sfollate ma soprattutto le vittime furono donne, vecchi e bambini.
Alcuni avevano amici o parenti che vivevano in quelle zone così corsero subito a soccorrere i sopravvissuti. La mattina successiva Silvana, sola in casa, perché la madre e la sorella era andate ad aiutare alcuni conoscenti, ebbe all’improvviso le sue prime mestruazioni con forti spasmi. Un rivolo copioso di sangue le sgorgava dalla vagina, a contrario di sua madre sapeva bene cosa le stava accadendo, cercò degli asciugamani per tamponare la fuori uscita del liquido ma ad un tratto sentì un forte giramento di testa e cadde a terra svenuta. Il trauma subito dal terrore delle bombe aveva causato una emorragia, non un semplice menarca, e quando la madre e la sorella rientrarono in casa la trovarono distesa in cucina, in un lago di sangue. Mia nonna cercò di rianimarla, dandole dell’aceto e anche qualche schiaffo sul viso, Marcella urlava, incapace di intervenire e alla fine Silvana si riebbe, forse per quei gesti violenti o per gli strilli sconsiderati della sorella. Ma quello fu un evento che modificò la vita di mia madre. Il suo rapporto con il corpo cambiò profondamente. Da quel momento ogni sintomo di dolore, ogni piccola avvisaglia di malattia la trasformarono in una ragazzina impaurita, pavida, e con il tempo in una donna ipocondriaca.
Il 25 luglio 1943 Mussolini fu deposto da capo del governo, proprio dai suoi stessi seguaci, fu proclamato il governo Badoglio e tutti sperarono nella fine della guerra.
La propaganda, da entrambe le parti del conflitto ebbe un ruolo importante nella narrazione dei bombardamenti su Roma.
« Tieni, leggi questo foglietto, hai visto cosa scrivono gli americani, dicono di ribellarsi, di cacciare i fascisti» disse Silvana al suo amico Federico che per l’ennesima volta piagnucolava seduto sul ballatoio.
« Mio padre dice che Hitler li sterminerà tutti, ha un’arma segreta che al momento giusto farà esplodere, io però ho sempre più paura»
« Guarda che le cosa si mettono male per voi, lo dice anche mia madre» replicò infuriata.
A quelle parole intervenne Federico che origliava dalla porta e ormai avvezzo alla delazione affermò:
« Quello che hai detto sarà riferito ai miei genitori, è per gentaglia come voi che il Duce è stato arrestato»
« Il Duce è stato tradito dai suoi amici fascisti, e lo sai perché il Re lo ha arrestato… perché ormai la guerra l’avete persa» concluse Silvana sbattendo loro la porta in faccia.
I cinegiornali, i manifesti e i discorsi ufficiali del regime continuarono insensati; volantini lanciati dagli aerei Anglo – Americani sollecitavano i romani a ribellarsi, a collaborare con le forze di liberazione, enfatizzando il ruolo delle incursioni aeree nel favorire la definitiva caduta del fascismo e il risveglio democratico dell’Italia.
Le pressioni internazionali e le istanze della Chiesa ottennero dal governo Badoglio il 14 agosto 1943 lo status di Roma “città aperta” cioè priva di obiettivi militari e quindi non attaccabile. I bombardamenti diminuirono di intensità ma proseguirono. L’incertezza regnava tra la gente, la paura era palpabile e nessuno sapeva immaginare come sarebbe finita.
Una mattina presto Linda sentì suonare il campanello di casa e aprendo vide mio nonno che si trascinava dentro. Era vestito da soldato, il suo volto era pallido, dimagrito, il suo sguardo perso:
«Ho avuto la malaria, sono stato curato, sto in convalescenza, mi hanno dato alcuni giorni di licenza, c’è tanta confusione non si capisce più niente!»
Le due sorelle lo abbracciarono, finalmente il padre era tornato, la moglie lo baciò e tutte loro pensarono che quella fosse veramente la fine del maledetto conflitto.
L’8 settembre del 1943 il governo Badoglio sottoscrisse l’armistizio con gli Anglo- Americani ed iniziò per l’Italia e per la Capitale uno dei momenti più drammatici della storia del nostro paese.
La fuga di Vittorio Emanuele III, del Capo del governo e dei vertici militari fecero sì che la città di Roma fu conquistata velocemente dalle truppe della Germania nazista, instaurando il terrore.
Italo aveva ripreso fiato e potere e collaborava attivamente con i nazisti, anche per il rastrellamento e la deportazione degli ebrei romani avvenuta il 16 ottobre 1943. Mio nonno fu costretto a tornare al suo battaglione dove però trovò pochissimi soldati in attesa di ordini che non arrivavano, gli ultimi deciso di disertare.
Il 23 settembre 1943 si era costituita la Repubblica di Salò, dopo la liberazione del Duce da parte di un reparto di paracadutisti tedeschi scesi a Campo Imperatore, dove era stato trasferito e guardato a vista.
Giulio si nascose per alcuni mesi nelle campagne di Mezzocamino, poi riuscì ad avere, visto il suo stato di salute e il caos imperante, una specie di ulteriore licenza dall’esercito e in modo rocambolesco ritornò a casa. Per sua fortuna Italo, con il figlio più piccolo, alla fine di ottobre, erano partiti volontari per Salò, per difendere la nascente Repubblica Sociale italiana, stato fantoccio sostenuto dalla Germania nazista, presieduto da un Mussolini, diventato troppo ingombrante, anche per i tedeschi.
Federico era rimasto a Roma con la madre perché non ritenuto idoneo a sostenere la patria , così aveva sentenziato il fratello ma lui era in parte contento, si sentiva liberato dalla violenza paterna però mortificato nel suo amor proprio e la sua auto stima certo non decollava.
«Tuo padre e Francesco sono andati a morire, che non lo sai?- lo incalzava Silvana- ormai la guerra è perduta. Mio padre dice che gli Americani arriveranno presto e con loro la libertà»
«Non ci capisco più niente, spero che mio padre e mio fratello ritornino, ma sono anche preoccupato per me, se tornano mi riempiranno di botte»
Nei primi mesi del 1944 la guerra a Roma si inasprì, i bombardamenti continuarono su obiettivi considerati strategici, quali ponti ferroviari, stazioni, depositi militari, concentrazioni di truppe tedesche. Furono colpite le zone del Tiburtino, l’aeroporto dell’Urbe, il ponte di ferro e la stazione Ostiense, le popolazione fu costretta nuovamente a ripararsi in ricoveri improvvisati, come i sotterranei e le catacombe cristiane. Nel frattempo la resistenza romana si era già organizzata.
MARINA MARUCCI
